Esseri umani sempre più digitali

di Diego Dal Sacco *

Ogni essere umano, prima o poi, si ritrova a fare i conti con la malattia, le sue conseguenze e l’impatto che questa avrà sulla qualità della vita; inevitabilmente l’esperienza attiverà una serie di condotte difensive atte a prevenire la sofferenza. 

La maggior parte delle malattie costringe chi ne soffre a chiedere aiuto a qualcuno, motivo per cui, secondo Weizsacker (1946), una volta risolta la crisi “patica” legata alla sofferenza e alla paura, si assiste quasi sempre ad un profondo cambiamento nella persona, perché il bisogno dell’altro salva l’Io dall’onnipotenza mostrandogli i limiti del corpo. 

Secondo Groddeck (1923) la malattia andava considerata come la conversione o espressione somatica dell’inconscio allo stesso modo in cui i sogni ne erano un’espressione psichica e ammalandosi la persona regredisce alla stessa condizione in cui si trova un bambino che chiede aiuto ai genitori perché sta male. In ogni caso, se riflettiamo su queste osservazioni, la malattia sembrerebbe favorire, nella maggioranza dei casi, una relazione.

In un precedente lavoro (2020) ho riflettuto sul fatto che la pandemia da Covid-19 ha avuto invece un effetto contrario, perché l’infettività di questa patologia ha reso necessario un isolamento forzato e protratto a cui non eravamo pronti e che abbiamo vissuto come un’esperienza “schizoidogenica” che ci ha allontanato sempre di più dall’altro, contro il nostro volere. 

In realtà, un’esperienza simile era già stata vissuta con la scoperta dell’infezione da HIV, ma ad un livello molto minore, in quanto la trasmissione della malattia avveniva attraverso il contatto di ferite della pelle e delle mucose con liquidi biologici come il sangue, lo sperma e il latte materno e non per via area.

 L’essere umano però è ricco di risorse e lo ha dimostrato anche in questa situazione terribile, utilizzando la tecnologia come mezzo per entrare in comunicazione a distanza con l’altro, stabilendo nuove forme di contatto e relazione. Tante volte mi sono trovato a riflettere su come avremmo affrontato la pandemia 50 anni fa, senza cellulari e programmi per videochiamate; come la avrebbero affrontata i bambini e i giovani, senza la possibilità di vedere i propri amici e compagni con la didattica online e senza la possibilità di andare avanti con il programma di studio, le interrogazioni, le verifiche e gli esami? 

Adesso la pandemia sembra solo un lontano ricordo, per chi non ha dovuto affrontare lutti legati all’infezione da Covid-19 e per chi non ha perso il lavoro a causa dell’isolamento; si parla ancora di vaccini e ci sono alcuni positivi ogni giorno, ma l’infezione sembra meno grave e fa meno paura. Abbiamo ricominciato a vivere come al solito, con le nostre abitudini, il nostro ritmo di lavoro, ma dentro di noi, nel profondo, è tornato tutto come prima? Non mi dilungherò sugli effetti psicologici della pandemia, perché la letteratura è ricca di lavori che ne parlano: al momento in cui scrivo l’articolo, se si digitano le parole “Covid-19” e “ Psychological” su Pub Med, che è il principale motore di ricerca scientifica, si trovano più di ventiduemila risultati a tal proposito, mentre su Google, più di quattrocento milioni. Vorrei invece stimolare il lettore a riflettere sul modo in cui sta cambiando la nostra identità, ma soprattutto il nostro modo di essere “esseri umani”. 

Rizzo (2014) pone l’accento sul modo in cui vengono utilizzati e vissuti i social network, in cui l’identità può essere mostrata o celata a proprio piacimento, mentre Fata (2005) ci porta a riflettere sul fatto che «il cyberspazio è un’estensione psicologica del proprio mondo intrapsichico». 

Un curioso fenomeno a cui ho assistito in prima persona nel corso della pandemia e che continuo ad osservare anche adesso, sebbene in misura minore, consiste nel fatto che durante le visite mediche molte persone tendevano e tendono ancora oggi a mostrare le loro dermatiti o ferite sulle foto del telefono invece che dal vivo, spogliandosi, mostrando quella che ho definito come la loro “pelle digitale” (2021), al posto di quella reale. Il fenomeno può essere spiegato in modi diversi, ma la proiezione della propria identità su un piano digitale e virtuale sembra proteggere dall’ansia o da angosce mortifere e permettere una sorta di controllo sull’altro a cui è possibile mostrare solo ciò che si vuole; in effetti solo il corpo reale è soggetto alla morte, mentre quello virtuale è eterno. 

A mio avviso si tratta di un fenomeno molto simile a quello osservato da Haynal (2008) nell’analisi delle lettere che Freud scriveva a Ferenczi per descrivergli il suo stato di salute ed in particolare, il carcinoma spinocellulare del cavo orale di cui soffriva: in queste scritture Freud parlava del suo corpo usando curiosamente uno pseudonimo, “Konrad”: Haynal ipotizza che Konrad sia il corpo immaginato di Freud, a cui poteva pensare perché pur essendo malato, era “altro da sé”. 

La proiezione della nostra identità su un corpo immaginato o a livello digitale, ci appare oggi come un processo evolutivo, direi quasi inevitabile, basti pensare all’introduzione dello SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale), ma penso che la pandemia abbia accelerato tale fenomeno, perché il bisogno dell’altro nel corso dell’isolamento ha portato ad aumentare l’utilizzo dello smart working, della telemedicina e della psicoterapia online, con i loro pro e contro ormai ampiamente dibattuti ed analizzati. 

Un fenomeno analogo a quello della pelle digitale si osserva talvolta anche nel corso della psicoterapia, online o in presenza, quando il paziente mostra delle foto al suo terapeuta durante la seduta o gli legge dei messaggi, come se il telefono avesse una funzione di oggetto intermediario in grado di proteggere o espandere i limiti e l’identità. Inoltre, così facendo, il paziente può esercitare una sorta di controllo sul terapeuta, che è spinto ad agire e a vedere ciò che ha da mostrargli, mentre in altre occasioni tali comportamenti appaiono come una richiesta di contatto più ravvicinato o una richiesta di attenzioni; in altre ancora, queste azioni possono avere uno scopo dimostrativo atte a sedare derive paranoidi o a sedurre il terapeuta. Cito come esempio la mia esperienza con un paziente di 50 anni che seguo da circa due anni con una psicoterapia supportiva settimanale, vis-à-vis, per una malattia dermatologica che lo porta a strapparsi la pelle. Un po’ per l’alessitimia di cui soffre e un po’ per il fatto che essendo arrivato in Italia da pochi anni non riesce ancora ad esprimere bene le sue emozioni verbalmente, la maggior parte delle sedute del primo anno si sono caratterizzate da brevi racconti, cui poi seguivano lunghi silenzi in cui talvolta si massaggiava le profonde ferite che si era procurato agli arti, come a tastare i limiti della sua persona e il mio grado di attenzione. In qualche occasione, dovendosi recare all’estero per motivi di lavoro, utilizzammo i computer e i telefoni per fare delle sedute online in cui però, non potendo esprimersi bene col corpo, si trovò ancora più in difficoltà. Al ritorno da un viaggio però, in una seduta in presenza, mi chiese se poteva mostrarmi delle foto sul cellulare che lo ritraevano in alcune ricorrenze festose nel suo paese, allegro e spensierato. Il fatto di averle guardate, dopo avergli chiesto invano il motivo per cui provava il bisogno di mostramele, portò ad un cambiamento importante nel corso delle sedute successive perché divennero più ricche di contenuti, nonostante le difficoltà linguistiche e iniziammo ad affrontare la sua grande paura di essere etichettato come “straniero” e di essere giudicato male. In questo caso, le foto che ritraevano il paziente in atteggiamenti molto diversi da quelli che adottava con me in seduta e nell’ambiente in cui lavorava e viveva, gli hanno permesso di difendersi, sia da un mio eventuale rifiuto a guardarle, perché avrei guardato il telefono e non lui, sia da un eventuale giudizio negativo, perché avrebbe riguardato la sua identità digitale e non quella reale. Il cambiamento a cui stiamo assistendo non riguarda quindi solo il paziente e le sue difese, ma anche noi terapeuti, il nostro modo di lavorare, la nostra capacità di stare in seduta, di pensare e prevenire gli agiti. 

Ci si fa poco caso, ma ogni giorno riceviamo email contenenti inviti a corsi di aggiornamento, master e proposte per incontri o supervisioni online, che rinforzano sempre più questa nuova modalità di comunicazione e di difesa. In seguito alla pandemia, la tecnologia che aveva iniziato ad entrare in punta di piedi nel mondo della psicoterapia e della medicina, vi si è immersa totalmente e si formano terapeuti (di stampo cognitivo comportamentale solitamente) addestrati nell’utilizzo di visori per la realtà virtuale o per la realtà aumentata da utilizzare con pazienti affetti da ansia, traumi e disturbi ossessivi compulsivi, allo scopo di simulare realtà parallele più controllabili e prevedibili su cui lavorare. 

La metodica è ancora in fase di studio, ma in espansione e già alcuni anni fa Freeman et al. (2017) riportavano una serie di lavori e risultati anche nelle psicosi, nei disturbi alimentari, nelle dipendenze e nei disturbi sessuali. La fine della pandemia ha coinciso anche con il perfezionamento dei programmi di intelligenza artificiale e nell’universo hi-tech non si fa altro che parlare di Chat-GPT, un programma in grado di ascoltare e rispondere a quesiti di ogni tipo, persino a quelli di tipo esistenziale e scientifico; il fatto di non sentirsi giudicati di fronte ad una macchina artificiale, l’accuratezza e la sensibilità con cui il programma fornisce le risposte e il fatto di poterlo usare quando e dove si vuole, gratuitamente, ha fatto sì che alcuni utenti che lo hanno utilizzato abbiano scritto di preferirlo ad uno psicoterapeuta in carne ed ossa, generando sgomento e preoccupazione nel panorama scientifico ed umanistico, anche se allo stato attuale il programma non sembra ancora in grado di affrontare un percorso completo con un paziente. La formazione dei medici e degli psicologi evolve con l’evolvere di queste tecnologie. Anche il fatto che i corsi online conferiscono più ECM di quelli in presenza, porta a riflettere e a pensare che il futuro stia procedendo verso questa direzione, ma mentre veniamo sedotti (altre volte terrorizzati) dagli effetti della digitalizzazione scientifica ed umanistica, rischiamo di perdere di vista gli effetti sulla nostra identità e sul significato di essere ancora “essere umani”.

BIBLIOGRAFIA

Dal Sacco, D. (2021), Digital skin. Esperienze Dermatologiche, 23, 2: 39-41. doi: 10.23736/S1128-9155.21.00515-X.

Dal Sacco, D., (2020), Pandemia da Covid-19. Una riflessione psicoanalitica. PNEINEWS, 5. 

Fata, A. (2005), Identità on line e conoscenze virtuali. Psycotech, 2, 79-99. 

Freeman, D., Reeve, S., Robinson, A., Ehlers, A., Clark, D., Spanlang, B., Slater, M. (2017), Virtual reality in the assessment, understanding, and treatment of mental health disorders. Psychol Med; 47(14): 2393-2400. doi:10.1017/S003329171700040X. 

Groddeck, G. (1923), Das Buch vom Es. Psychoanalytische Briefe an eine Freundin, Internationaler Psychoanalytischer Verlag (II ediz.: Limes Verlag, Wiesbaden, 1961) trad. it.: Il libro dell’Es. Lettere di psicoanalisi a un’amica (1966), Adelphi edizioni, Milano.

Haynal, A. (2008), Freud, his illness, and ourselves. Am J Psychoanal; 68 (2): 103-16. doi: 10.1057/ajp.2008.2.

Rizzo, A. (2014), Management dell’identità sui Social Network, https://www.psychomedia.it/motore/pm/telecomm/massmedia/rizzo.htm.

Weizsacker, v.V. (1956), Pathosophie. Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen..

*Diego Dal Sacco è  medico specializzato in dermatologia e psicoterapeuta