di Maura Gancitano *
Dall’inizio della pandemia di Covid-19 non abbiamo fatto altro che parlare – giustamente – dei suoi molteplici effetti negativi. Oltre a quelle sanitarie, le ricadute sono state psicologiche, economiche, energetiche, esistenziali. In particolare, la chiusura forzata di uffici e luoghi pubblici ha per la prima volta rimesso in discussione il modo in cui abbiamo inteso il lavoro in senso moderno. In breve tempo è stato necessario compiere quei cambiamenti che solo poche realtà stavano già mettendo in atto: digitalizzazione e automazione dei processi, e soprattutto lo smart working, cioè il lavoro da luoghi che non fossero strettamente legati all’ufficio e all’azienda.
Com’è risaputo, più che smart il lavoro per molte persone si è rivelato remote, cioè a distanza, ma spesso in condizioni difficili, precarie e con forti elementi di disturbo. Sgabuzzini, cucine, angoli della casa si sono trasformati in uffici improvvisati, e in molti casi è saltato ogni confine tra spazio di lavoro e spazio personale, e di conseguenza tra tempo lavorativo e tempo libero.
Se tali effetti negativi – o quantomeno critici – sono ben conosciuti, lo scopo di questo numero di Rivista Varchi è mostrare anche le conseguenze positive, o comunque meno negative di quanto si possa pensare. Nel caso del lavoro, ciò è dovuto a una questione principale: la pandemia di Covid-19 non ha peggiorato in molti casi la qualità del lavoro, ma ha finalmente mostrato dei problemi che esistevano già.
L’interruzione forzata delle routine e di tutte le idee e le pratiche che sembravano ovvie, scontate, naturali e immutabili nel nostro sistema sociale, ci ha dato modo di dare un nome e una descrizione a fenomeni già cronici nel momento in cui la pandemia è iniziata.
Il “burnout”
Un esempio chiaro di effetti positivi a partire da fatti negativi è dato dal fenomeno del burnout. Sembra infatti che si tratti di un fenomeno recente, ma in realtà confrontare i dati pre e post pandemia può rivelare qualche sorpresa. Innanzitutto, con “sindrome da burnout” si intende uno stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale che deriva da uno stress prolungato e cronicizzato, causato da fattori riguardanti il mondo del lavoro. Nel 2019, quindi prima dell’inizio della pandemia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha incluso il burnout nella nuova versione dell’undicesima International Statistical Classification of Diseases (ICD 11), definendolo: <<Una sindrome concettualizzata come conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo>>. Le caratteristiche principali del burnout riguardano il senso di esaurimento o debolezza energetica, l’aumento dell’isolamento dal proprio lavoro con sentimenti di negativismo e cinismo, e una ridotta efficacia professionale.
Il burnout inizia in genere con un entusiasmo idealistico nei confronti del lavoro, seguito poi da una fase di stagnazione, poi una di frustrazione, infine l’apatia e la mancanza di coinvolgimento nei confronti del proprio lavoro o dell’idea di lavoro più in generale. Si tratta di un fenomeno specificamente occupazionale, cioè non si parla di uno stress generale, ma proprio delle conseguenze dell’ambiente lavorativo. Per tale ragione, prima di diagnosticare il burnout occorre escludere altri disturbi che presentano sintomi simili: il disturbo dell’adattamento, l’ansia o la depressione. Il burnout riguarda tre dimensioni principali: il deterioramento dell’impegno nei confronti del lavoro, il deterioramento delle emozioni originariamente associate al lavoro e un problema di adattamento tra la persona e il lavoro, a causa delle eccessive richieste di quest’ultimo.
In ultimo, i fattori organizzativi del burnout dipendono da un sovraccarico di lavoro, dalla mancanza di controllo sulle proprie attività, da ricompense e feedback insufficienti, dalla mancanza di equità e di senso di appartenenza alla propria realtà lavorativa.
Come tutto questo, che di certo non è un fenomeno positivo, può essere letto positivamente, in relazione alla pandemia di Covid-19? L’aspetto interessante è che i dati sul burnout non sono peggiorati rispetto a prima della pandemia. Secondo alcuni dati, al contrario, la condizione di burnout sarebbe addirittura migliorata dal 2020. Uno studio condotto da Gallup nel 2018 su 7.500 lavoratori statunitensi, ha ad esempio dimostrato che il burnout veniva sperimentato dal 67% delle persone coinvolte. Una ricerca statunitense svolta a febbraio 2023 lo assesta invece al 42%. Sottolineo, al contempo, che la condizione è peggiore però in Italia, perché i dati 2022 dell’Osservatorio Mindwork-BVA Doxa sul benessere psicologico in azienda riporta che a soffrirne è il 62% delle persone.
Perché, allora, abbiamo iniziato a parlarne proprio adesso? La risposta è che ne siamo finalmente diventati più consapevoli. Abbiamo iniziato a osservare il fenomeno, e abbiamo iniziato a domandarci come migliorare la qualità del tempo dedicato al lavoro, e se non fosse necessario abbassare la quantità del tempo dedicato al lavoro. Queste domande si inscrivono sì in un quadro più complesso dato dalla pandemia – che in ogni caso ha avuto un effetto significativo sulla vita delle persone, anche in termini economici, come vedremo – ma finalmente sono emerse e sono diventate una questione che le aziende del settore privato e la politica non possono più ignorare.
Le Grandi Dimissioni
Un altro fenomeno interessante, a questo riguardo, è quello delle Grandi Dimissioni (Great Resignation), che è stato fin dal 2021 osservato con grandissima attenzione, e letto come una grande novità: milioni di persone hanno deciso di lasciare il lavoro sebbene ne avessero bisogno per sopravvivere, e la ragione principale era dovuta all’impossibilità di proseguire con una routine insostenibile.
Le Grandi Dimissioni sembrano una risposta alla hustle culture, cioè a quell’idea di lavoro indefesso che è diffusa ormai in ogni angolo del pianeta, e che associa il valore della persona alla quantità di ore lavorate, a scapito della sua salute e di ogni altra cosa della vita. Eppure, l’abbandono del lavoro non dignitoso e alienante non è una novità: è ciò che sostiene la sociologa Francesca Coin, che sottolinea come nel 1913, un’azienda come Ford registrava un tasso di assenteismo giornaliero del 10%, e come ogni giorno dovesse ricorrere a milletrecento o millequattrocento lavoratori sostitutivi, per garantire l’efficienza del lavoro in fabbrica.
L’idea che oggi le persone non abbiano più voglia di lavorare, dunque, si scontra con la memoria storica: le persone hanno sempre avuto difficoltà a sostenere i ritmi del lavoro in una società industriale e tutta votata alla produttività, e adesso finalmente tutto questo sta emergendo, ha un nome, viene monitorato.
La stessa tempesta
Tra il mese di marzo 2020 e il mese di novembre 2021 – cioè in soli ventuno mesi – il numero dei miliardari italiani nella Lista Forbes è aumentato da trentasei a quarantanove, mentre un milione di persone è entrato per la prima volta in uno stato di povertà̀. Non siamo tutti nella stessa barca; siamo nella stessa tempesta, e quando si parla di lavoro bisogna anche considerare gli effetti diseguali che la pandemia ha avuto sulla vita concreta delle persone.
Nonostante tutto, l’idea del lavoro come ciò a cui devi dedicare la vita, a costo della salute fisica e mentale, nel corso della pandemia ha iniziato finalmente a scricchiolare. In tutto il mondo sono emerse espressioni, idee e pratiche per fare in modo di lavorare il giusto o addirittura il minimo indispensabile, cercando di risparmiare energie per altre aree della vita.
I cambiamenti nella cultura del lavoro sono quindi sempre più evidenti. Raccogliere questa necessità urgente è un compito collettivo, ma quello che serve ora – perché questi effetti risultino davvero positivi – è che ne consegua un cambiamento in tutto il nostro sistema socio-economico.
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
Broucek F. (1979), Efficacy in infancy: a review of some experimental studies and their possible implications for clinical theory. The International journal of psycho-analysis, 60(Pt 3):311-6.
Coin F. (2023), Le grandi dimissioni. Il nuovo futuro del lavoro e il tempo di riprenderci la vita. Einaudi, Torino.
Colamedici A., Gancitano M. (2023), Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo. HarperCollins, Milano.
Future Forum (2023), Amid spiking burnout, workplace flexibility fuels company culture and productivity, Winter Snapshot Report.
Graeber D. (2022), Bullshit Jobs. Garzanti, Milano.
Maslach C., Leiter M.P. (2000), Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali della demotivazione al lavoro, Erickson, Trento.
Mikolajczak M., Gross J.J., Roskam I. (2019) Parental Burnout: What Is It, and Why Does It Matter? Clinical Psychological Science 7.
Mikolajczak M., Raes M.E., Avalosse H., e Roskam, I. (2018). Exhausted parents: Sociodemographic, child-related, parent-related, parenting and family-functioning correlates of parental burnout. Journal of Child and Family Studies, 27(2), 602–614.
Rapporto La pandemia della disuguaglianza, Oxfam 2022.
SITOGRAFIA
Cavallini B., Si può spegnere il burnout? Alley Oop, Sole24Ore, 22 marzo 2023.
Zeric B., Che cos’è il Quiet Quitting, Wired 23 settembre 2022.
Wigert B., Agrawal S., Employee Burnout, Part 1: The 5 Main Causes, Gallup, July 12, 2018.
* Maura Gancitano è filosofa, scrittrice e fondatrice di Tlon, scuola di filosofia, casa editrice e libreria teatro.