di Sebastiano Benasso *
Anche il pubblico meno interessato alle evoluzioni del panorama musicale italiano avrà probabilmente notato come il profilo degli/le artist3 che raggiungono le vette delle classifiche sia cambiato rispetto al recente passato. La nuova ondata di musica trap e drill (Nota 1) è infatti prodotta da ragazz3 molto giovani e, sempre più frequentemente, accomunat3 da un background migratorio. E questo produce diverse tensioni a livello di cultura mainstream. Perché la spinta reazionaria che a diversi livelli innerva il discorso pubblico in Italia cortocircuita con il mutamento che, indipendentemente dalle intenzioni della politica, interessa la struttura della nostra società. A una narrazione ossessionata dal protezionismo (dei confini, della tradizione, dell’“italianità”) fa da controcanto un racconto, quello della musica trap e drill, che restituisce il punto di vista e il vissuto di chi, per questioni etniche, generazionali e di classe (Bouteldja 2024), è criminalizzatə in ragione di queste stesse logiche conservatrici.
Nota 1 In questo articolo la distinzione tra i generi trap e drill resterà volutamente sfumata. Come indicazione generale è tuttavia corretto ricordare che, in Italia, la musica trap (sottogenere del rap) abbia acquisito visibilità attorno al 2014 per raggiungere nel 2016 uno dei picchi del suo successo. La musica drill (sottogenere della trap) si è invece diffusa soprattutto a partire dal 2020 ed è connotata da una maggiore rappresentazione di ragazz3 di seconda generazione tra i/le artist3. Di conseguenza, la canzone drill è più marcatamente multilinguistica, in coerenza con la matrice diasporica del genere (Attimonelli e Forte 2024).
In una cultura tradizionalmente paternalista, più recentemente neoliberale e ancora poco incline a mettere in discussione la bianchezza come tratto distintivo dell’essere italian3, essere (molto) giovani, di seconda generazione e abitare le periferie significa vedere intersecare sul proprio profilo sociale una combinazione di svantaggi. Alle connotazioni di immaturità, scarsa dedizione al sacrificio e generale inadeguatezza generalmente associate alle soggettività giovanili si sovrappongono, amplificandosi a vicenda, i discorsi sulla “mancata integrazione” delle persone migranti e la loro trasfigurazione in “minaccia”. Il quadro si completa con l’utilizzo retorico delle condizioni di svantaggio economico di partenza come motivo di colpevolizzazione individuale, nella dinamica tipicamente neoliberale di inversione tra cause ed effetti, che volutamente confonde responsabilità sistemiche e individuali.
Il fatto è che, però, artist3 molto giovani, molto stranier3 e molto svantaggiat3 oggi producono musica di enorme successo, che acquisisce larga visibilità grazie alla capacità di intercettare e alimentare gli immaginari della generazione dei/e propr3 coetane3, a prescindere dalla loro condizione di classe e dal milieu culturale nel quale sono immers3 (Belotti 2021; Benasso e Benvenga 2024). E questo stesso successo è motivo di biasimo generale, nella contraddizione che si genera tra la celebrazione della caparbietà del self-made man, e il coro di disapprovazione che accompagna le traiettorie auto-imprenditoriali di soggettività percepite come non sufficientemente “meritevoli”, in modo analogo a quello che succede attorno alle imprese di mercato degli – ma soprattutto delle – influencer (Cuzzocrea e Benasso, 2021).
Allora nelle pratiche di multilinguismo spontaneo – perché in continuità con l’uso intermittente di diverse lingue nel quotidiano delle periferie multietniche e di certo estraneo alla pedagogia delle scuole di lingue accreditate (Nota 2) – della canzone trap/drill possiamo rintracciare un’ulteriore prova dello scollamento tra le visioni di un mondo adulto ancora molto bianco, borghese e stolidamente “italiano”, e quelle di una generazione di giovani che prende parola, entra autonomamente nel mercato e si racconta attraverso nuove elaborazioni linguistiche, restituendo forme di verità spesso scomode proprio perché “troppo vere”. (Nota 3)
Nota 2 È interessante notare come, nonostante l’enfasi posta dal discorso del policy-making sul tema delle competenze trasversali e delle soft skill, le competenze multilinguistiche di quest3 ragazz3 non vengano praticamente mai citate come risorse, né sul piano individuale né su quello collettivo, forse proprio a causa della loro eccessiva “trasversalità” e distanza dai percorsi istituzionalizzati di educazione formale/informale.
Nota 3 In un suo noto articolo di analisi della scena trap statunitense, Kaluža (2018) attinge al repertorio foucaultiano, e in particolare alle riflessioni sulla parresia (il potere che si esercita attraverso il “dire-il-vero”) per interpretare il messaggio della trap così cinicamente e lucidamente aderente alle verità delle società del capitalismo avanzato e ai valori dell’etica neoliberale.
Del resto, a partire dalla loro comparsa nel panorama discografico italiano i/le trapper hanno giocato con la dimensione simbolica e letterale dei linguaggi. Hanno bricolatoe diffuso modelli espressivi diventati emblemi distintivi tra i/le giovani, facendo dell’incomprensione che ne deriva il simbolo di una distanza intergenerazionale (che con la drill diventa anche interetnica) rivendicata in quanto strumento di autodeterminazione. (Nota 4)
Nota 4 Il concetto di “bricolage” è introdotto nella letteratura sulle sottoculture giovanili dai lavori seminali del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham sulle esperienze dei/le giovani punk della working class britannica degli anni ’70. La necessità di “fare con quel che si ha” e la creatività nella trasgressione dei significati routinari di simboli e oggetti di uso quotidiano sono peculiari della cultura punk, in piena coerenza con il motto “Do It Yourself”.
In questo senso i/le trapper non hanno inventato niente di nuovo, perché la fioritura delle culture musicali giovanili è sempre stata accompagnata da una narrazione di voci più adulte e allarmate proprio perché incapaci di decodificare suoni e grammatiche “alieni”. Dalle preoccupazioni di Adorno e colleghi per la deriva che ai loro occhi i giovani degli anni ’30 abbracciavano trascurando la complessità armonica della musica classica in favore della dissonanza del jazz, fino agli appelli contro l’istigazione al satanismo veicolato dai suoni gutturali della musica metal, passando per lo sguardo preoccupato delle madri casalinghe working class per i balli tarantolati delle figlie ai concerti dei Beatles… alla comparsa di nuovi stili incarnati dai/le giovani corrisponde ciclicamente una “fisiologica” ondata di incomprensione tra generazioni.
Ma il conflitto che oggi coagula attorno alla questione delle risorse (naturali, finanziarie, pensionistiche) accentua la distanza tra i/le boomer – ai/le qual3 si attribuisce la responsabilità di una gestione miope in materia di sostenibilità – e le giovani generazioni, che scontano sulla propria pelle questo “furto di futuro”. A ciò si sommano gli effetti di un mutamento tecnologico iper-accelerato e del conseguente divario tra parti di mondo che, pur convivendo, si capiscono sempre meno anche a causa di una diversa familiarità con l’ambiente e i linguaggi digitali. Guardando a queste convergenze possiamo forse comprendere meglio i motivi della diffusione della consapevolezza che i/le giovani condividono riguardo la difficoltà di costruzione di un dialogo tra generazioni. Altrimenti non sapremmo spiegare la velocità e l’estensione con la quale il motto OK Boomer si è diffuso entrando nel vocabolario della generazione Z a livello globale.
La trap italiana ha saputo intercettare questo sentimento diffuso e farne un proprio elemento distintivo, connotandosi come: “la nuova musica fatta da e per i giovani”. Non a caso spesso le canzoni trap rimandano a interlocuzioni immaginarie con un “altro” che è quasi sempre più adulto, benpensante ed esplicitamente ostile alla narrazione che veicolano, sia per la forma che per la sua sostanza. Quando per esempio Sfera Ebbasta canta
No, scusa, no hablo tù lingua / Ma sicuro piace a tua figlia / Sicuro, è da un po’ che sta in fissa col trap / Collane ghiacciate, c’ho il cuore a metà, già alla mia età / Non puoi parlare dei miei contenuti, fra’, non hai l’età (Sfera Ebbasta, Tran Tran, 2017)
si rivolge a un boomer idealtipico che possiamo facilmente figuraci nell’esprimere rigetto per la musica che filtra dalla stanza di una figlia con la quale fatica a comprendersi, e che sembra ancora più lontana quando si immerge in una musica che alle sue orecchie suona ripetitiva, svuotata di senso e alienante. Se poi a questo si aggiungono richiami a una distanza non solo linguistica ma anche culturale, come fa tra gli altr3 Zefe riferendosi alle sue origini marocchine e cantando:
E c’est la rue, kho, c’est la rue / E no, non ci butti giù / Nel mio menù non c’è ciò che mangi tu / Kho, c’est la rue (Zefe, C’est la rue, 2022)
il senso di estraneità si amplifica sulla base di esperienze profondamente diverse a partire dal vissuto quotidiano.
La questione della distanza intergenerazionale in relazione ai linguaggi mostra ulteriori sfumature se consideriamo le tensioni interne che la trap ha innescato nella cultura hip-hop italiana. Dal punto di vista dei suoni e delle grammatiche di scrittura la trap ha ereditato il repertorio stilistico della “scena madre” del rap, ma questo aspetto è stato spesso inquadrato come forma di appropriazione culturale da parte di molte delle voci più adulte e autorevoli dell’hip-hop nostrano. I/le giovani trapper si sarebbero in questa prospettiva impossessat3 di un linguaggio stratificato e codificato trasgredendo alcuni suoi canoni stilistici e tradendo il suo mandato politico.
La canzone rap italiana si è connotata negli anni Novanta come narrazione esplicitamente politica, intrecciandosi ai movimenti sociali e alle occupazioni e, secondo alcuni interpreti (es. Santoro e Solaroli 2007), mettendosi in continuità con il cantautorato degli anni Settanta. Questo ha contribuito a costruire una certa tradizione per i/le rapper nel nostro contesto, addomesticando le orecchie del pubblico all’associazione tra rap e impegno sociale e muovendo una generale aspettativa di radicalità in relazione ai suoi suoni. Il messaggio della trap rompe questa tradizione in quanto del tutto disinteressato alla rivendicazione di posizionamenti resistenti rispetto alla cultura capitalista e al mercato e, anzi, profondamente risonante con i valori neoliberali del successo, della performance e dell’auto-imprenditorialità. Da parte dei rapper più adulti questo aspetto è stato spesso considerato indicativo di una profonda mancanza di knowledge dalla quale deriverebbe uno svilimento del portato narrativo originario dell’hip-hop. (Nota 5)
Nota 5 Nel vocabolario della cultura hip-hop, la knowledge rappresenta la conoscenza approfondita della storia del rap, dei valori che la reggono e delle traiettorie artistiche e biografiche dei suoi pionieri.
Ma anche rispetto alla seconda ondata del rap italiano degli anni Duemila, per quanto più marcatamente mainstream e orientata all’intrattenimento, la trap ha segnato un’ulteriore rottura.
La si può considerare nuovamente in termini contenutistici, perché la trap non si pone l’obiettivo di intrattenere, quanto piuttosto di restituire un racconto di verità. Ma la si vede soprattutto in relazione alla dimensione tecnica, che per i rapper italian3 di inizio millennio era centrale nel definire qual3 artist3 fossero considerat3 più forti sulla scena in quanto più competenti nella metrica, nella chiusura delle rime, nella definizione di specifici flow (Nota 6).
Nota 6 Il flow rappresenta lo stile individuale dei/le rapper, che si distinguono per diversi approcci alla metrica e alla scelta delle parole.
I/le trapper invece hanno iniziato a produrre musica spesso “aggirando” il lavoro sulla tecnica, grazie alle possibilità determinate dall’evoluzione tecnologica, che ha abbassato la soglia di accessibilità (economica e conoscitiva) dei software di produzione musicale, e sdoganato l’uso dell’auto-tune, un effetto distorsivo che rimodula in tempo reale l’intonazione della voce e la disumanizza creando una sonorità volutamente robotica. Nel discorso pubblico e mediale, l’auto-tune è spesso citato come antitesi del flow, come scorciatoia per il successo, quindi come motivo di critica per una visibilità “non meritata” da parte di artist3 che si improvvisano tali senza passare per la necessaria gavetta e, soprattutto, senza pagare dazio di riconoscenza ai/le pionier3 della scena hip-hop. Ma questo trascura il fatto che le nuove tecnologie abbiano permesso una maggiore accessibilità, “dal basso”, alle pratiche di scrittura musicale e quindi, sostanzialmente, di produzione culturale. E non considera anche il fatto che i/le trapper non esprimano un desiderio di legittimazione da parte dei/le collegh3 più adult3, ma rivendichino le posizioni guadagnate nel gioco del mercato discografico. Anche a questo proposito è Sfera Ebbasta a restituire efficacemente il concetto:
Che barba, che noia, che cantilena / Lo so, ti hanno detto non canto bene / Però ti ho già detto: “Non me ne frega” (Sfera Ebbasta, Tran Tran, 2017)
Come anticipato in apertura, le cose si complicano ulteriormente quando, in particolare nella drill, la narrazione veicolata attraverso la musica cambia protagonistə in termini di profilo sociale e condizione di chi parla. Anche il rap antagonista, infatti, aveva affrontato la questione dello svantaggio delle persone migranti esprimendo forme di denuncia e solidarietà attraverso racconti necessariamente in terza persona (Nota 7).
Nota 7 Su questo tema si rimanda anche a Stefano Crippa, Se il trapper straniero è il nuovo «italiano vero», in «Il Manifesto», 7 maggio 2019, ilmanifesto.it/se-il-trapper-straniero-e-il-nuovo-italiano-vero e Angelo Bonfanti, Paolo Barcella, “Stranieri in patria”. Le migrazioni e la trap italiana, in «Dinamo Press», 28 ottobre 2018, www.dinamopress.it/news/stranieri-patria-le-migrazioni-latrap-italiana/
Si è in altre parole sempre trattato di voci che, a partire dal privilegio della loro bianchezza, parlavano di e per altri gruppi sociali. Oggi la drill è scritta in Italia soprattutto da ragazzi3 di seconda generazione, che per la prima volta entrano nel panorama musicale mainstream, e rappresentano in prima persona una parte del nostro tessuto sociale (Filippi 2024). E queste istanze di auto-rappresentazione non solo funzionano molto bene a livello di mercato generale, ma danno anche la possibilità di autolegittimarsi attraverso la costruzione di un proprio linguaggio che, paradossalmente proprio perché capace di aderire alla verità (Nota 8) della marginalità, diventa fonte di fascinazione anche per i/le coetane3 più borghes3 e priviliegiat3. La distanza esperienziale con il precedente establishment del rap italiano è palese, per dirla con Baby Gang:
Ho fatto più soldi in droga che quelli fatti in concerti / Per quello che non mi sento un rapper, noi siamo diversi (Baby Gang, Blocco, 2024)
Nota 8 La questione della verità è peraltro centrale nella cultura hip-hop, perché la credibilità dei/le rapper si è spesso verificata attraverso la valutazione della loro capacità di mantenere aderenza al vissuto della strada, come espresso dalla formula “keep it real”.
Ma lo è in senso più generale anche rispetto a una cultura egemone così preoccupata della difesa dell’“italianità”.
Questo succede ora in Italia, ma in altri contesti – e in ragione di una diversa storia coloniale – il monopolio della bianchezza nella presa di parola attraverso la musica è messo in discussione da tempo (Frisina e Kyeremeh 2020; Sarti 2024). Il suono delle banlieue, ad esempio, è da diversi decenni veicolo di un contro-discorso sulla società francese da parte di chi sconta quotidianamente le conseguenze dell’esclusione. In una dinamica tipicamente globale, la drill italiana si aggancia a questo genere di narrazioni, collaborando alla definizione di un immaginario transnazionale che supera la dimensione specifica dell’appartenenza etnica e funziona da repertorio per la definizione di identità costruite sulla comune condizione di marginalità (De Angelis 2021; Di Giovanni e Paglino 2021). Questa solidarietà tra giovani delle periferie globali (Bouteldja 2024) si esprime anche attraverso specifiche scelte linguistiche.
In primo luogo, i quartieri popolari di appartenenza, uno dei temi principali della drill, sono nominati alternando volutamente le definizioni di ghetto, blocco, banlieue, barrio, favela, street, a sottolineare la comunanza delle condizioni sociali ed esistenziali delle popolazioni locali. Che sia Scampia o Saint Denis, San Siro o uno slum di Rio de Janeiro poco importa dal punto di vista geografico, perché ci si sente e racconta come parte di un movimento che, dai margini, prende spazi di visibilità e diffonde linguaggi codificati per proteggere i confini della propria sottocultura. In questo senso il verlan – la pratica linguistica tipica della banlieue che prevede la creazione di neologismi attraverso l’inversione delle sillabe delle parole del francese comune – trova una sua perfetta corrispondenza nel riocontra (Nota 9) italiano. Per fare un esempio, divers3 artist3 drill scelgono il proprio nome d’arte scambiano le sillabe del proprio nome anagrafico. Nel loro complesso, e insieme al largo uso che la trap italiana fa delle onomatopee (Nota 10), questi giochi linguistici accentuano la connotazione di esotismo che l’orecchio non allenato ricava dall’ascolto della trap/drill italiana.
Nota 9 La stessa etichetta di “riocontra” deriva dall’inversione delle sillabe che compongono la parola “contrario”.
Nota 10 Soprattutto le prime produzioni trap italiane hanno utilizzato in modo estensivo una serie di onomatopee (vedi in particolare “Skrt”, “Brr”, “Pew-pew” per rimandare ai suoni della strada; per un approfondimento: https://rapteratura.it/prospettive/skrt-brr-pew-pew-le-sporche-onomatopee-2-0/
E dal punto di vista di chi invece maneggia i codici per comprenderli, modificarli e diffonderli, rappresentano una forma di rivendicazioni infra-politica (Scott 2008) di quote di potere culturale, aspetto che diventa ancora più interessante se consideriamo il fatto che, molto spesso, gli/le artist3 drill siano come minimo bilingui e abbiano bassi livello di scolarizzazione. Il multilinguismo della canzone trap/drill riflette dunque pienamente lo stile linguistico della periferia, che della questione della purezza della e delle lingue non si interessa, e vibra di potenziale espressivo.
A titolo puramente esemplificativo, possiamo ascoltare il modo con cui Helmi Sa7bi e Sayf, due componenti del collettivo trap/drill Genovarabe, descrivono le notti di una città come Genova. È un’atmosfera che si distacca radicalmente dalla narrazione ufficiale che le istituzioni locali promuovono per la città, in coerenza con le logiche del city-branding e della turistizzazione,
Andiamo vas-y / Masri, Jaezir, Tunsi, Belgique / Maghreb, achiri / Libi, taliani, rital, Mexique / Siamo felici, nostre madri vestiranno chic / Santa la banda, la clique / Noti 2-2Pac e Big / Siamo settat / Nadie se coma l’equipe / Erj3-zekomok l bit / Merci la zone, la cité / Omri ma omri ma nsit / Ommi, si ommi la prima / Soldi più soldi, una pila / Sogni più belli di prima / Oui c’est nous / Genova Arab / Genova street / Genova dhab / Genova kyf / Genova Sayf / Genova vis / Genova bastard / Genova season / Quelle notti nella giungla / Fino a Sampi un’ora e mezza / Qua gli sbirri fan l’appello / Quella Gucci in oro e pelle / Quella piazza sembra il Berghaim / Berlin, Jackie, Beckham / Khoya, Zena, flus / Zatla sulla pesa / Gramsci, Pre, Darsena, Maddalena / Begato, CEP, Corni, Sampierdarena / Poto a Marassi con due anni la pena / Genovarabe tira su la bandiera / Che veniamo dal basso / Il suo rimorso non ti comprerà casa / Soffitto pacchiano in piastrelle di marmo / A cartelle di Tyson, ancora i pezzi di nylon / Bagni pieni del taglio, merce nuova nei cargo (Helmi Sa7bi e Sayf, Genovarabe Freestyle, 2024)
Allora nella nuova canzone italiana, una canzone che oggi include quasi sempre anche qualche parola di arabo, di francese e di spagnolo, possiamo forse rintracciare i connotati di una forma di agency giovanile, e senza dubbio il segno di un’Italia diversa da quella raccontata dal potere.
BIBLIOGRAFIA
Attimonelli, C. e Forte, G. (2024), “L’internazionale drill. media, suoni e immaginario di una scena dai tratti sfuggenti: Rondo, Baby Gang, Tedua e Massimo Pericolo” in Benasso, S. e Benvenga L. (a cura di), Trap! suoni, segni e soggettività nella scena italiana. Novalogos, Roma, pp. 92-117.
Belotti, E. (2021), Birds in the trap. Classi subalterne e industria culturale in Italia. Bordeaux Edizioni, Roma.
Benasso, S. e Benvenga, L. (a cura di) (2024), Trap! suoni, segni e soggettività nella scena italiana. Novalogos, Roma.
Bouteldja, H. (2024), Maranza di tutto il mondo unitevi! Per un’alleanza dei barbari delle periferie. DeriveApprodi, Roma.
Cuzzocrea, V. e Benasso, S. “Fatti strada e fatti furbo: generazione Z, musica trap e influencer”, in Studi culturali, XVII, 3, 2020.
De Angelis, R. (2021), Territori di rap/trap tra devianza spettacolarizzata, gangsta tragico e antagonismo di cura, in «Tracce Urbane. Rivista Italiana Transdisciplinare Di Studi Urbani»,10, pp. 231-252;
Di Giovanni, A. e Paglino, V. (2021), La città, le politiche, i progetti e la musica trap, in «Tracce Urbane. Rivista Italiana Transdisciplinare Di Studi Urbani»,10, pp. 208-230.
Filippi D. (2024), “A me fra non mi stava bene, cheio non avevo e tu avevi. la musica trap delle seconde generazion tra autodeterminazione e identità liminali” in Benasso, S. e Benvenga L. (a cura di), Trap! suoni, segni e soggettività nella scena italiana. Novalogos, Roma, pp. 144-169.
Frisina, A., e Kyeremeh, S. A. (2022), Music and words against racism: a qualitative study with racialized artists in Italy. Ethnic and Racial Studies, 45(15), 2913–2933
Kaluža, J. (2018), Reality of Trap: Trap Music and its Emancipatory Potential, in «IAFOR Journa of Media, Communication & Film», 5 (1), pp. 23-42.
Santoro, M. e Solaroli, M. (2007), Authors and Rappers: Italian Hip Hop and the Shifting Boundaries of Canzone d’Autore, in «Popular Music», 26 (3), pp. 463-488.
Sarti, T. (2024), Quel legame tra Islam e hip-hop: un urlo di rivalsa e di resistenza in “MONDI MIGRANTI” 1, pp. 195-210.
Scott, J.C. (2008), “Chapter Seven: The Infrapolitics of Subordinate Groups”. Domination and the Arts of Resistance: Hidden Transcripts, New Haven: Yale University Press, pp. 183-201.
* Sebastiano Benasso è professore associato di Sociologia Generale all’Università di Genova. Si occupa principalmente di generazioni, culture giovanili, stili di vita e significati culturali del cibo.