di Mauro Carosio
Due volte genitori
“Due volte genitori è un documentario prodotto da AGEDO (Nota 1) con il finanziamento della Commissione Europea con il Progetto Daphne II “Family Matters – Sostenere le famiglie per prevenire la violenza contro giovani gay e lesbiche”. Il Film entra direttamente nel cuore delle famiglie nel momento critico della rivelazione dell’omosessualità di un figlio/a. Attraverso un delicato lavoro di ascolto, Due volte genitori indaga questo percorso tra le aspettative disilluse dai figli e l’accettazione, al di là dell’omosessualità in quanto tale, della propria rinascita come genitori. Dopo lo smarrimento, il senso di perdita e di colpa, poco alla volta si apre un nuovo percorso che porta queste famiglie a compiere un viaggio imprevisto, dai figli ai genitori, dai genitori ai nonni e poi di nuovo ai figli. Mentre si richiude il cerchio tra le generazioni vince l’amore, ma non basta. Bisogna mettersi in gioco. E questi genitori hanno saputo farlo fino in fondo, regalandoci un’esperienza intensa e limpida, che diventa preziosa per tutti” (Nota 2).
Così, nel 2009, AGEDO presentava un film che ancora oggi viene visto, discusso e citato in vari contesti. Due volte genitori (Nota 3) resta un punto di riferimento per le persone che hanno difficoltà a gestire l’incontro con una diversità. Nel corso del tempo molte cose sono cambiate. Abbiamo assistito a grandi passi avanti, dalle unioni civili al semplice fatto che oggi “essere gay”, per una fetta di umanità, non disturba come in passato. In ogni caso anche nel 2024 la comunità LGBT+ si trova ad affrontare non poche difficoltà. Nuovi scenari socio-politici e nuove diversità, nuove perché in passato non avevano un nome, ci mettono alla prova e ci costringono a riflettere sempre di più sulle infinite identità che contraddistinguono il genere umano. Stiamo parlando di un dibattito che coinvolge il mondo occidentale, dal momento che in gran parte del globo la sola omosessualità resta un reato, a volte punito con la pena capitale. Oggi parliamo di identità fluida, non binaria, cis o trans e altro ancora. Fenomeni che sono sempre esistiti, ma che oggi hanno, finalmente, un nome e se ne può discutere. Solo alcuni decenni fa persone che non si identificavano in un sistema binario, maschile/femminile, non trovavano una collocazione adeguata nella società di appartenenza. Quindi vent’anni dopo cosa significa essere “Due volte genitori”? Come si aggiorna un dibattito che solo pochi decenni fa era ad appannaggio di quella che si chiamava la “comunità gay”? A parlare sono di nuovo i genitori. Persone che inaspettatamente si trovano di fronte a figli/e/persone che costringono a riflessioni importanti, profonde e impegnative, figli/e che offrono l’occasione di intraprendere un percorso che richiede coraggio e determinazione. Figli e figlie transgender, persone che non si riconoscono nel genere attribuito loro, alla nascita, dalla scienza, o come qualcuno dice “dalla natura”. Tralasciamo, in questa sede, di aprire un dibattito su “cosa è naturale” o cosa non lo è dal momento che non c’è niente di più naturale dell’identificarsi in ciò che si sente di essere e diamo la parola ai genitori che hanno scelto di accompagnare la loro prole in una modalità fondata sull’ascolto e sull’accoglienza dei bisogni “dell’altro”. Modalità non condivisa all’unisono, esistono famiglie che si muovono in maniera completamente diversa, pensiamo ad esempio all’utilizzo della controversa “teoria gender” (neologismo coniato in ambienti conservatori cattolici negli anni ‘90 del XX secolo come appellativo per riferirsi in modo critico agli studi scientifici di genere) che in questa sede non tratteremo dal momento che non ne abbiamo ancora compreso il significato né la portata.
Nota 1 Associazione Genitori parenti e amici di persone lgbtq+, onlus nata nel 1993.
Nota 2 https://www.agedonazionale.org/due-volte-genitori/
Nota 3 Il documentario è stato girato tra il 2007 e il 2008 per la regia di Claudio Cipelletti e le consulenze psicologiche alla realizzazione e conduzione dei gruppi di incontro da parte di Lucia Bonuccelli e Francesco Pivetta.
Chiamami col mio nome, la parola ai genitori
ROSARIA RICCARDO
D- Quando hai capito che stavi diventando genitore per la seconda volta o comunque che la tua genitorialità avrebbe avuto un percorso particolare rispetto a quello più comune?
R- La mia rinascita come genitore ha una data precisa: il 27 ottobre 2021, il giorno in cui è stato bocciato il DDL Zan in un tripudio di entusiasmo ignobile e di applausi disgustosi. In quel momento ho ricevuto una scossa, come si mi avessero preso a schiaffi. In quel periodo mi stavo crogiolando nel dolore, quello di avere una figlia trans, mia figlia a luglio di quell’anno ha fatto coming out e mi ha detto di essere trans, l’aveva capito guardando una serie televisiva, aveva pensato: “ok il mio disagio ha un nome” e l’ha detto. A me è crollato il mondo addosso e ho iniziato a soffrire, non sapevo proprio come affrontare la cosa, viviamo in un paese piccolo e l’opinione della gente mi terrorizzava. Poi cercavo di capire quali fossero le mie responsabilità, cosa avevo sbagliato, come potevo aver condizionato la sua crescita. Non riuscivo a uscire di casa, pensavo a come affrontare il giudizio degli altri, mi piangevo addosso e non pensavo a mia figlia, che stava male, pensavo a me stessa. Il 27 ottobre ho smesso di piangere e ho pensato che era venuto il momento di stare a fianco di mia figlia Michelle e di cominciare a fare la madre. Il dovere di una madre è accompagnare i figli, sostenerli, stare loro accanto nel bene e nel male. Io credevo che mia figlia fosse gay. Da piccola si divertiva con giochi per bambine, era sensibile e dolcissima. A quattro anni ha chiesto una bambola a Babbo Natale e io non gliel’ho comprata, ho pensato che non era il caso di comprare una bambola ad un maschio, questo era il mio modo di ragionare allora. Ho anche pensato che avremmo risolto il problema più avanti, pensavo all’omosessualità, ma non avrei mai pensato che potesse essere una ragazza trans. Comunque tornando a quel 27 ottobre, mi rimbocco le maniche e agisco. Una settimana dopo ero a Lecce a sfilare contro il governo e ho cominciato a metterci la faccia, mi vergognavo un po’ comunque erano i primi passi che muovevo per sostenere mia figlia. Per la prima volta ho visto la bandiera Agedo, non mi sono avvicinata quella volta. Nel frattempo ho parlato con una psicoterapeuta che è stata molto chiara e mi ha detto: “Sua figlia è una ragazza, la sua identità è chiara, fatevene una ragione e fatevi aiutare voi genitori”.
D- Qual è la cosa più bella che hai fatto come genitore di una figlia trans e quale invece quella che ti è piaciuta di meno?
R- Quella che mi è piaciuta di meno è il fatto che inizialmente io mi vergognavo di lei, non volevo farmi veder in giro con lei, e oggi mi vergogno di quello che pensavo all’epoca. La cosa più bella è successa quando ho deciso di smettere di piangere e ho contattato Agedo, ho conosciuto altri genitori e altre famiglie con le loro esperienze. Ho ricevuto un grande aiuto perché mi sono sentita meno sola, io e il papà di Michelle siamo divorziati, e ho capito che non era successa una disgrazia. Certo il percorso è difficile a volte doloroso, ma non è la fine del mondo, non stiamo parlando di una malattia. La cosa ancora più bella è che oggi guardandomi indietro non vorrei tornare ad avere la vita piatta che avevo. Mia figlia oggi fa parte di una comunità arcobaleno e la sua vita è come un arcobaleno. Questa esperienza ha riempito la mia vita di tante cose nel bene e nel male, è come se avessi trovato un posto nel mondo che non avevo, mia figlia è stata un’opportunità.
D- C’è qualcuno che ti deve chieder scusa in questo percorso difficile, ma anche felice, oppure qualcuno a cui tu devi chieder scusa?
R- Io non devo chiedere scusa a nessuno. Sì, ci sono persone che mi devono chiedere scusa. In questo percorso io ho avuto il sostegno, di Agedo e di tante famiglie, ma fondamentalmente mi sento ancora sola. Questa è un’esperienza che difficilmente viene compresa da altri genitori forse devi viverla per capirla fino in fondo. Ci sono casi di famiglie che hanno cacciato di casa i loro figli anche minorenni. Queste persone, che non riescono a vedere il male che fanno ai loro figli, dovrebbero chiedere scusa. Nel mio caso ci sono persone che mi hanno fatto tanto male. L’affetto di persone care non può venire a mancare quando dici che hai una figlia trans. E a me è mancato.
FRANCESCO DE VITIS (padre di Michelle)
D- Quando hai capito che stavi diventando genitore per la seconda volta o comunque che la tua genitorialità avrebbe avuto un percorso particolare rispetto a quello più comune?
R- Che il mio percorso sarebbe stato diverso l’ho capito molto presto, quando mia figlia, all’epoca figlio, dai sei-sette anni, mostrava i segni di una sua “diversità”. Ai tempi della scuola elementare vedevo degli atteggiamenti che non erano propriamente tipici dei suoi coetanei maschi. Quindi già da allora avevo capito che mi aspettava un percorso difficile soprattutto a causa della società in cui viviamo. La mia è una storia particolare. Io e la mamma di Michelle siamo divorziati e la separazione ha aggiunto altri problemi a quello di Michelle. Abbiamo un’altra figlia gemella che all’epoca aveva difficoltà a scuola, sbalzi di umore e quindi ci siamo rivolti a un primo psicologo che non ci ha dato nessuna soddisfazione. Cambiamo, e andiamo da una psicologa del nostro paese che ha individuato meglio i disagi. A un certo punto ci ha convocato tutti e quattro e, tra le altre cose, ci ha informato di una sorta di fragilità che riguardava Michelle. Sono iniziati i loro colloqui privati e con la psicologa Michelle ha fatto coming out. La psicologa ci ha parlato di disforia di genere, Michelle aveva quattordici anni. In quel momento c’è stato, da parte di noi genitori, il momento critico, lo sbandamento. Io, sinceramente, pensavo che mio figlio fosse gay, questa era una cosa più grande di noi. Abbiamo capito che non si trattava di un fatto estemporaneo, io ho avuto paura e la mia ex moglie ancora più di me. Io avevo un’infarinatura rispetto alla questione, la mia ex moglie no, pensava che una persona trans fosse una sorta di pervertita, io sapevo che un’adolescente trans era eventualmente una persona fragile e da aiutare, non vedevo nessuna perversione. Non ho mai avuto vergogna, né allora né adesso. Ho anche polemizzato con i leoni da tastiera sui social esponendomi sull’argomento. Comunque da lì è iniziata la strada per Agedo, che ho contattato io, e il percorso terapeutico per arrivare a quello che quello che Michelle è oggi.
D- Qual è la cosa più bella che hai fatto come genitore di una figlia trans e quale invece quella che ti è piaciuta di meno?
R- Ti racconto una cosa brutta, che ho fatto l’estate scorsa. Sono stato malissimo, per una settimana non sono riuscito a parlare con mia figlia. Devi sapere che Michelle ha un carattere molto particolare, molto irruento, esplosivo a volte pretende troppo. Lei vorrebbe stare sempre a Lecce, noi abitiamo a 50 km di distanza e a diciassette anni non ha ancora la patente. A me tocca andarla a prendere tutte le volte. In poche parole, quella volta inizia un battibecco che è degenerato. Io l’ho insultata usando i peggiori stereotipi sui trans, ma proprio i peggiori, riesci a capire? Di cose belle invece ne ho fatte tante, credo di non essere male come padre, poi si vedrà.
D- C’è qualcuno che ti deve chieder scusa in questo percorso difficile, ma anche felice, oppure qualcuno a cui tu devi chieder scusa?
R- Non devo chiedere scusa a nessuno e nessuno mi deve scuse particolari: ci tengo solo a fare un appello. Un appello ai padri, molto più spesso sono le madri a prendere in mano la situazione. Cari padri, uscite allo scoperto e non abbiate paura, fatelo per voi e per i vostri figli, sarete persone più felici.
RAFFAELLA
D- Quando hai capito che stavi diventando genitore per la seconda volta o comunque che la tua genitorialità avrebbe avuto un percorso particolare rispetto a quello più comune?
R- Mia figlia, nata maschio, ha manifestato una doppia natura quando era molto piccola, alla scuola materna. Già da allora io e mio marito avevamo intuito una doppiezza tra il maschile e il femminile, molto ben equilibrata, lui voleva i capelli lunghi e andava in giro con una maglietta in testa, il primo giorno delle elementari non voleva essere identificato come il bambino con la tuta e ci è andato vestito da mago. Di conseguenza noi, che devo premettere siamo due genitori come si direbbe in un romanzo di Irving “sessualmente sospetti” quindi molto aperti, eravamo pronti. Facevamo parte dell’ambiente LGBT per amicizie o esperienze personali, quindi eravamo molto sereni e tranquilli. Il grande nodo è accaduto quando mia figlia, all’epoca ancora figlio, a sette anni ci ha detto: “Da una parte ci sono i maschi, dall’altra le femmine, in mezzo ci sono io e io non sono niente”, aggiungendo “dentro di me c’è un fiore bellissimo, ma è ghiacciato e non so come scongelarlo”. Al che col padre ci siamo guardati e abbiamo pensato: “Ok noi siamo gente evoluta, ma forse dobbiamo farci aiutare”. Quindi mia figlia ha iniziato un percorso psicologico all’ospedale Gaslini dove c’era allora una primaria esperta in quello che si chiamava ancora disforia di genere, ora si chiama incongruenza di genere. Lì ha fatto un percorso dai sette agli undici anni. Siamo usciti con una diagnosi di disforia di genere che però non era probante di nulla. Questa creatura ha avuto poi il “momento gay”: undici anni, prima media: “Sono un ragazzo gay”, basta psicologi e arrivederci a tutti. Con il lock down la cosa è tornata. Noi siamo sempre stati attenti perché la storia del ragazzo gay non ci tornava tanto. Infatti a un certo punto è stata lei, e a questo punto dico lei, che ha detto, a tredici anni, “Io sto mentendo, sono una ragazza”. Da lì il percorso è stato veloce e incredibile e mia figlia ha fatto l’intervento a diciassette anni. Io mi sono sentita “due volte genitore” quando mia figlia ha fatto la vagino plastica. A quel punto nel mio corpo è successo qualcosa e ho ricordato il parto. Lei levava la componente maschile e entrava nel mio mondo in modo ufficiale. Il fatto che lei in quella parte del corpo avesse quella ferita mi ha ricordato la mia ferita, diciannove punti dopo il parto. Anche se già prima era mia figlia lì ho sentito un nuovo mio parto, per il padre la cosa è stata simile in qualche modo. Ho pensato: “Adesso è fatta, ho una figlia femmina per sempre”.
D- C’è stato qualcosa che non ha funzionato durante il cammino o è andato sempre tutto bene?
R- Ha funzionato tutto, noi siamo stati molto fortunati come famiglia. Le discriminazioni mia figlia le ha subite prima della transizione. Era un ragazzino particolare, sono accaduti episodi antipatici che l’hanno fatta soffrire, ma è sempre comunque stata una persona molto lucida e con la risposta pronta. Non mi ha provocato grosse sofferenze.
D- Qual è la cosa più bella che hai fatto come genitore di una figlia trans e quale invece quella che ti è piaciuta di meno?
R- Io ho fatto tante cose belle nel corso del tempo. Appena finito il lock down l’ho presa per mano e portata all’AIED dove c’è una psicologa esperta in adolescenti con incongruenza di genere. E’ stata la prima cosa che ho fatto, poi c’è stato un susseguirsi di azioni che ho compiuto. Su Facebook ho trovato una donna transgender con cui ho parlato e mi ha aiutato molto, una persona incredibile, la chiamiamo la fata madrina, ha voluto incontrare me e mia figlia, mi ha messo in contatto con un’altra mamma che aveva un figlio transgender che mi ha dato tutti i contatti per prendere appuntamenti in psichiatria, endocrinologia e tutto ciò che serviva. Quei mesi sono stati dedicati al trovare la soluzione. In tre mesi la mia creatura ha avuto accesso alla terapia ormonale, a quattordici anni, qui a Genova. E’ stato un momento molto emozionante, lei ha voluto chiamare la nonna, piangevamo tutti. Sai cosa ho voluto fare a quel punto? Ho fatto il giro dei negozianti del centro storico dove vivo e lavoro e sai che il centro storico è un po’ un paesone, una big family. Queste persone avevano visto crescere mia figlia come maschio, allora io sono stata dall’edicolante, dal tabacchino, dalla verduraia e ho detto: “Ragazzi succede questo; adesso lui diventa lei”. Nessuno ha manifestato problemi, l’edicolante mi ha detto: “Ecco ora ne ho un’altra da controllare, dille di non scollarsi troppo perché io con tutte ‘ste ragazzine con le tette di fuori’…” Così! C’è stata un’accoglienza pazzesca da parte di tutti. Una cosa, invece, a cui all’inizio non ho fatto abbastanza attenzione è stata un’eccessiva esposizione, quando aveva tra i quattordici e i sedici anni. Essendo io una persona abituata a parlare in pubblico l’ho fatto anche in quel frangente, ho parlato pubblicamente anche ai Pride e questo le ha dato un po’ fastidio. Da allora chiedo sempre il suo parere prima di parlare di noi. Forse lei pensa di avere una mamma molto famosa… (ridiamo n.d.a.).
D- C’è qualcuno che ti deve chiedere scusa in tutto questo o qualcuno a cui tu devi chiedere scusa?
R- Devo dire di no, è andato tutto abbastanza liscio. Sia io che mio marito abbiamo due caratterini per cui è difficile contrastarci e io ho sempre raccontato la cosa con una tale forza che l’eventuale interlocutore con qualche dubbio “morale” non ha mai osato contrastarmi. Una cosa che però mi preme dire, che forse non ha a che fare con le scuse, ma merita una riflessione. A volte, tra noi genitori di persone transgender, c’è una narrazione troppo poetica del tipo: “Ma sì, ma cosa importa, dobbiamo amarli così come sono, ma wow!” a me viene da dire “wow” anche no. Nel senso, io sono super felice di mia figlia, ma trovo che come genitori dovremmo confrontarci un po’ di più su quello che proviamo noi. Il rischio è che ci concentriamo talmente tanto sul benessere delle nostre creature e sul loro futuro, che perdiamo di vista quel momento in cui abbiamo capito che, per esempio, mio figlio non era più maschio o viceversa. Trascuriamo un dolore che abbiamo provato e in qualche modo portiamo ancora dentro, trascuriamo la nostalgia che riguarda la nostra creatura, quella di prima, e quello che poteva diventare. Ecco io non ho problemi a dire che a volte quando guardo le foto di mia figlia da piccola provo un’emozione pazzesca e mi chiedo dov’è.
ANNA MARIA FISICHELLA
D- Quando hai capito che stavi diventando genitore per la seconda volta o comunque che la tua genitorialità avrebbe avuto un percorso particolare rispetto a quello più comune?
R- Io sono genitore di tre figli, ho un figlio di ventotto anni, una figlia di ventidue e Alessandro, mio figlio transgender, che ne ha diciannove oggi. Non sono diventata genitore due volte, siamo genitori punto. Genitore è colui che cresce educa e insegna ai propri figli e a chi sta loro accanto, qualunque bisogno abbiano. Ed è arte dei genitori, o dovrebbe esserlo, quella di calarsi nei loro panni e aiutarli nel modo migliore, quindi in qualunque occasione della vita i figli abbiano bisogno di aiuto il genitore deve imparare a darlo, con gli strumenti giusti e nel modo migliore. Io non sono rinata come genitore quando Alessandro mi ha detto di essere Alessandro, ho semplicemente imparato nuovi strumenti per essere il genitore che sono sempre stata, cioè un genitore attento, presente, non oppressivo, e un genitore che ha dato, spero, la libertà di essere quello che era. Cosa che ho fatto anche con gli altri miei figli. Con Alessandro ho avuto l’opportunità di dimostrarlo. Quello che ho sempre detto ai miei figli: “siate sempre quello che siete, lottate per le vostre idee, per i vostri diritti e per quello che credete giusto” ho continuato a farlo anche come genitore di una persona transgender. Ovviamente mi mancavano gli strumenti, quindi ho imparato ad acquisirli per accompagnare Alessandro nel suo percorso nel miglior modo possibile. Per questo non mi sento un nuovo genitore. Mi sento di aver fatto un percorso nuovo, sono cresciuta, ho acquisito nuove libertà, sono diventata, credo, una mamma migliore anche per gli altri figli. Ho conosciuto una comunità, ho conosciuto nuove modalità per essere sé stessi che non conoscevo.
D- Quali sono state le difficoltà, o momenti di dolore o dispiacere, in questo percorso?
Le difficoltà ci sono state. Comprendere, per me, è stato difficile perché per una persona nata e cresciuta negli anni ’60 in Sicilia, in un mondo molto tradizionale dove i maschi facevano cose e le femmine altre, dove il giudizio della gente era importante, dove appartenere a un certo ceto sociale comportava doveri maggiori rispetto ad altri ceti sociali, è stato difficile comprendere proprio il concetto di identità di genere, un problema che non mi ero mai posta. E’ stato difficile entrare in questo mondo e capire la naturalità che c’è. All’inizio mi sembrava tutto strano. Ho avuto il classico lutto nei confronti della mia bambina che non c’era più, poi ho imparato e ho liberato la mia mente. Le paure ci sono state come, in quanto genitore, hai sempre paura delle difficoltà che incontrano i tuoi figli. Una volta che ho studiato e che ho capito che quello che stava accadendo a mio figlio era una cosa naturale, di cui io non avevo nessuna colpa e nessun merito, che lui non faceva una scelta, ma rispondeva a una necessità della sua esistenza per provare a essere una persona felice, io e mio marito ci siamo rimboccati le maniche per aiutarlo a essere ciò che voleva. Non mi sono chiesta troppo cosa ne penserà la gente. Tutti i figli incontrano difficoltà prima o poi, certo questa era più grossa di altre, ma sia io che mio figlio siamo due combattenti. Ho capito subito che aveva la forza, il coraggio e la capacità per farcela nel modo migliore.
D- Quindi cosa ne hai fatto delle difficoltà che questo combattimento, per usare il termine che hai usato tu, ha comportato?
R- Le ho trasformate in opportunità. Assolutamente. Alessandro è stato un’occasione per la nostra famiglia. Grazie a lui abbiamo scoperto di essere ancora più uniti, forti e capaci di affrontare le difficoltà insieme. E’ stato un mezzo per migliorare tutti, anche mia madre e mio fratello hanno imparato cose che trent’anni fa sarebbero state impensabili
D- Nessuno quindi, nella vostra cerchia famigliare, ha manifestato disagio?
R- No, e qui aprirei una piccola parentesi. Io credo che tutto dipende da come tu poni una qualunque cosa. Se tu presenti un fatto con convinzione, con coraggio e sicurezza la persona che ti sta di fronte questo avverte. Se io te la racconto con sofferenza, disagio o paura tu quello assorbi e quello tiri fuori: la tua paura per le mie paure. Per mio figlio scoprire di essere una persona transgender non è stata una tragedia, è stato difficile dal momento in cui il suo corpo è cominciato a cambiare fino a quando non ha capito di essere una persona normale, cioè una persona transgender. Per anni ha tenuto dentro il suo disagio e non ci ha raccontato niente, non sapeva perché si guardava allo specchio e non si riconosceva e pensava quella ragazzina non sono io. Non capiva e ha avuto paura, una paura che ha pensato che fosse troppo anche per noi. Quindi ha nascosto tutto fino al momento in cui ha capito chi era. In quel momento mi ha detto: “Mamma tu non devi aver paura perché io adesso sono una persona vera, adesso mi riconosco, ho il mio nome vero, il mio pronome vero e sono una persona vera, ho solo bisogno di aiuto per dire al mondo chi sono”. Quindi per lui scoprire di essere una persona transgender è stata una rivelazione e non una disgrazia. Quando tuo figlio ti racconta questo, e le problematiche che questo comporta a livello sociale, non a livello umano, tu cosa fai? Pensi che non hai gli strumenti ma che ti devi attrezzare per sostenerlo, e le tue energie le incanali per questo scopo. Sentirai altri genitori che ti racconteranno di insicurezze anche da parte dei loro figli, sul non sapere di cosa si stava parlando. Io non ho mai dubitato che quello che mi stava dicendo mio figlio non fosse la sua verità. Alessandro aveva quindici anni.
D- Qual è la cosa più bella che hai fatto come mamma di Alessandro e quale quella che invece ti è piaciuta di meno?
R- La cosa più bella è stata aver dimostrato che la libertà, la forza e il coraggio che io e mio marito gli abbiamo insegnato sono cose che oggi permettono ad Alessandro di muoversi per il mondo con una leggerezza che io gli invidio. Quella più brutta sono alcune domande che ho fatto ad Alessandro e che lo hanno disturbato. Per me era importante sapere e capire.
D- C’è qualcuno che ti deve chiedere scusa in tutto questo o qualcuno a cui tu devi chiedere scusa?
R- Direi di no. Né io né Alessandro abbiamo subito, fino a questo momento, nessun tipo di discriminazione oggettiva. Poi se qualcuno mi ha dimostrato in maniera ipocrita solidarietà e ammirazione non è un problema mio.
CINZIA MESSINA
D- Quando hai capito che stavi diventando genitore per la seconda volta o comunque che la tua genitorialità avrebbe avuto un percorso particolare rispetto a quello più comune?
R- Che la mia genitorialità non sarebbe stata comune l’ho sempre saputo dal momento che Greta si è sempre identificata come una femmina. Da quando aveva tre anni, lo diceva con tutti e la cosa mi destabilizzava parecchio. Poi all’asilo e a scuola sono iniziati i problemi perché non rappresentava quello che tutti noi ci aspettavamo da lei. Greta ha un fratello gemello, io vedevo le differenze, fosse stata figlia unica forse sarebbe stato diverso, non avrei avuto altri esempi. In quel momento io seguivo quello che la società imponeva e il “giusto” era Paolo (il fratello). Come aggiusto il figlio sbagliato? Non mi facevo proprio la domanda così, ma vivevo un grosso disagio. Io non sapevo nulla e non conoscevo nessuno che potesse spiegarmi cosa stava succedendo. Ho scoperto che stavo diventando di nuovo genitore quando sono venuta a conoscenza del fatto che esiste la varianza di genere, che esistevano anche bambine e bambini transgender e mia figlia era uno di quelli/e. Abbiamo scelto il nome insieme. Greta aveva dodici anni quando io l’ho accolta per la prima volta. Stava male, era infelice e io non sapevo come aiutarla. Io e il padre di Greta ci sentivamo tutti i giorni. A lui non interessava cos’era Greta, lui voleva che lei fosse felice a prescindere dalla gonna o dagli orecchini. Io no, Greta era un bambino e io ero un ostacolo. Però la amavo. Quindi, col papà, Greta ha fatto un secondo coming out quando gli ha detto: “Papà io non mi sento una femmina, io sono una femmina”. Ho pensato a cosa fare e proprio in quel periodo ho letto “Mio figlio in rosa” di Camilla Vivian. Le ho scritto su Messenger e dopo un’ora eravamo al telefono. E’ stata un faro, disponibilissima, mi ha spiegato un sacco di cose e poi mi ha chiesto se per me era un problema. Ho risposto che il problema era che non sapevo come aiutarla, avevo bisogno di conoscere e di capire. Lei aveva una rete, mi ha consigliato l’ospedale Careggi e mi ha fatto conoscere altre persone che vivevano quello che stavo vivendo io. Ho capito che mia figlia non era malata e di questo ero felice, dovevo solo trovare i mezzi per fare qualcosa per lei. Ricordo che mi sono messa a piangere quando Greta ha visto che non avevo ancora cambiato il suo nome sul mio cellulare e mi ha chiesto perché. Poi le cose sono andate avanti, ha iniziato subito ad assumere il farmaco che sospende la pubertà e abbiamo avviato le pratiche per il cambio anagrafico. Tanti genitori pensano o gli fa comodo pensare di dover aspettare i diciotto anni. Greta a quattordici anni è ufficialmente diventata Greta.
D- Qual è la cosa più bella che hai fatto come genitore di una figlia trans e quale invece quella che ti è piaciuta di meno?
R- La cosa più brutta è stata quella di non aver accettato mia figlia fino a dodici anni, quella più bella è di essermi sforzata a livelli estremi per riuscire a capire al massimo questa realtà per poter lottare per i suoi diritti e per poterla difendere.
D- C’è qualcuno che ti deve chiedere scusa in tutto questo o qualcuno a cui tu devi chiedere scusa?
R- Io chiedo scusa a mia figlia per quello che le ho detto prima. Grazie al percorso con Greta io sono cresciuta tantissimo, ho capito non solo cos’è la varianza di genere, ma ho capito anche cosa è il patriarcato, cosa sono gli stereotipi e cosa sono le discriminazioni. Ho fatto parte di quella massa di persone che vivono di luoghi comuni e usano parole che feriscono le persone diverse. Devo scusarmi in assoluto anche per questo. A me non deve chieder scusa nessuno. A mia figlia e a tutte le persone come mia figlia devono chiedere scusa le istituzioni, la politica, anche quella che votiamo, che non ci sostiene e tutte le persone che fanno domande stupide, solo per curiosità e non per capire e arricchirsi eventualmente.
LUIGI BERARDI (padre di Greta)
D- Quando hai capito che stavi diventando genitore per la seconda volta o comunque che la tua genitorialità avrebbe avuto un percorso particolare rispetto a quello più comune?
R- Io non ho pensato che stavo diventando genitore per la seconda volta perché Greta è sempre stata diversa, ha cominciato a dire di essere una femmina quando aveva tre anni. Tra dubbi, incertezze, speranze e delusioni (ho avuto la speranza che fosse gay…) l’ho sempre accompagnata. A differenza della mamma, che in un certo senso l’ha rifiutata fino a dodici anni, io ho sempre cercato di capire. Non avevo le idee chiare, ma quello che mi interessava era la felicità di mia figlia, per esempio se voleva i giochi da bambina a casa mia c’erano, se voleva lo zaino delle Winx lo aveva. Quando a dodici anni ha detto di essere una femmina da un certo punto di vista mi sono anche rilassato perché ho capito di cosa stavamo realmente parlando. A quel punto è iniziato il percorso che continua ancora oggi. Io l’ho vissuto come una grande occasione, l’esperienza con mia figlia mi ha ripulito il cervello di tanti luoghi comuni e di tante credenze che non avevano basi. Quando sentivo parlare delle persone trans io pensavo alle brasiliane sull’Adriatico, sulla statale dove ci sono le prostitute. All’inizio sia io che Cinzia eravamo spaesati poi abbiamo trovato le persone giuste che ci hanno aiutato a capire e a fare i conti con una società che non accetta le persone transgender, l’abbiamo vissuto con nostra figlia. Io però non ho mai avuto vergogna. Ho avuto paura che potesse succederle qualcosa vista la società in cui viviamo.
D- Qual è la cosa più bella che hai fatto come genitore di una figlia trans e quale invece quella che ti è piaciuta di meno?
R- Tutto l’insieme è stato positivo e bello. Ti racconto un po’ di aneddoti sparsi. Mi ricordo che la prima volta che siamo andati a comprare abiti femminili per Greta, ci sono andato io e non Cinzia. Bene, si vergognava mia figlia e mi divertivo io. Certe volte avrei voluto avere più pazienza nei riguardi di certe persone con cui sono sbottato in maniera pesante. Io sono del parere che la maggioranza della gente non sia transfobica, è pigra e ignorante, sono convinto che uno dei più importanti lavori da fare sia quello di uscire dalla nostra bolla e parlare di più con la gente. L’ho visto quando siamo stati nelle scuole con l’Associazione (Affetti oltre il genere n.d.a), non abbiamo fatto miracoli, ma qualche risultato lo abbiamo notato. C’è stato un momento in cui Greta stava molto male e io le ho proposto di vestirci entrambi da femmina e uscire che se qualcuno aveva qualcosa da ridire gli avrei spaccato la faccia. Una cosa veramente brutta, e cha ha fatto male ai miei figli, l’ho fatta. Ho tentato il suicidio, per vari motivi personali, due anni fa. Greta è stata l’unica persona che mi ha capito perché sa cosa si prova quando si sta per commettere un gesto estremo.
D- C’è qualcuno che ti deve chiedere scusa in tutto questo o qualcuno a cui tu devi chiedere scusa?
R- Prendi l’elenco dei politici italiani, da sinistra a destra sono pochissimi quelli che non devono chiedere scusa non solo a me, ma a tutte le persone trans, per tutti i provvedimenti che stanno prendendo. Sono stanco della sinistra che ci sta prendendo in giro.
SONIA GRASSO
D- Quando hai capito che stavi diventando genitore per la seconda volta o comunque che la tua genitorialità avrebbe avuto un percorso particolare rispetto a quello più comune?
R- Io mi sento quasi tre volte genitore. Nel senso che Jo ha fatto due coming out. Il primo a dodici anni, nel 2019, come persona bisessuale. Avevo avuto qualche sentore nel periodo precedente quindi non mi ha colto totalmente impreparata, ma ho avuto paura. Paura per lei pensando alla nostra società, pensando che le potesse succedere qualcosa di brutto quando lo avrebbe detto agli altri. Era una bimba come tante non c’erano grossi segnali che potessero farmi pensare a qualcosa di atipico. Mi ha destabilizzato l’età e il fatto che pensasse già alla sessualità, per me era una bimba fino al giorno prima. Poi mi ha colpito la sua sicurezza, non ho mai messo in dubbio il suo sentire. Mi sono rivolta ad Agedo quasi subito perché sentivo di dover fare qualcosa per rendere il mondo più a misura anche di persone come lei. In questo cammino Jo a tredici anni arriva di nuovo, con una consapevolezza che non ammetteva dubbi, quelli li ho avuti su di me, e mi dice che non era solo bisessuale ma anche gender fluid, ha usato questo termine. Io le ho chiesto di spiegarmi cosa volesse dire. Lei è partita in maniera molto immediata, come lo sono gli adolescenti a quell’età, dicendo: “Non mi sento di identificarmi totalmente come uomo né totalmente come donna, io sento di avere degli aspetti di entrambi, certi mi fanno stare meglio altri peggio”. La cosa variava c’erano periodi in cui si identificava in caratteristiche più femminili e altri maschili, però senza mai sentirsi di dire solamente io sono donna o io sono uomo. Questa cosa mi ha destabilizzato perché non capivo, non avevo mai sentito parlare di persone non binarie. Ecco la mia terza genitorialità, mi sono dovuta chiedere cosa significasse essere madre di una persona non binaria. Subito ho dovuto lavorare su me stessa e fare i conti con le mie fatiche e con la mia cultura etero-cis-normativa, il mondo in cui sono cresciuta è quello. Per me esistevano i cisgender, e i transgender erano i travestiti, perlopiù esagerati che facevano film o si prostituivano. Questo era, al massimo c’erano Eva Robbin’s o Amanda Lear, ma stiamo parlando del mondo dello spettacolo e non certo della vicina di casa. Ho iniziato a pensare senza sovraccaricare lei con le mie elucubrazioni.
D- Da quel momento hai percepito una sorta di cambiamento? voglio dire come veniva agito il suo essere non binario?
R- Per me Jo era sempre Jo, le ho sempre parlato e chiesto molto. Per esempio sui pronomi, come voleva essere identificata, chiamata, lei mi ha risposto che le sarebbe piaciuto se in italiano esistesse il neutro, non c’è. “Voi mi avete sempre chiamato al femminile, continuate così”. Molti suoi amici la chiamano al maschile, infatti a me fa strano quando siamo insieme ad altri/e quando io la chiamo in un modo e l’amico o l’amica si rivolgono a Jo al maschile. Per quanto riguarda l’orientamento è bisessuale. Per quanto riguarda l’aspetto fisico, il suo modo di presentarsi al mondo, è stato ed è un continuo divenire. A dodici anni, quando ha fatto il coming out, era molto mascolina, quindi capelli corti, camicioni larghi che coprivano il seno. Il suo look è sempre in continua evoluzione, ha sempre usato molto la sua esteriorità per comunicare, trucco molto marcato a seconda dei momenti. Non ha mai manifestato l’intenzione di intervenire in maniera più drastica sul proprio corpo. Gliel’ho chiesto perché avevo pensato che il suo essere non binario fosse una sorta di preparazione a una transizione, al cambiamento di sesso. Lei mi ha risposto che al momento andava bene così, qualche problema col seno ma: Per fortuna ce l’ho piccolo quindi va bene così”. Era il 2020, un periodo faticoso, il Covid ha appesantito tutto amplificando malesseri soprattutto tra gli adolescenti.
D- Oggi Jo è una persona felice?
R- Diciamo che è una persona complicata, a tratti felice, a tratti inquieta, sta ancora cercando la sua strada e il suo equilibrio come spesso succede a diciassette anni. E’ anche una persona neuro divergente, ha l’ADHD, disturbo (o meglio sindrome) da deficit di attenzione e iperattività, anche questo influisce sulla sua personalità e di conseguenza ha influito sui suoi studi. Comunque: coming out, Covid e post Covid hanno condizionato non solo la sua stabilità, ma quella di molte persone giovani a cui è stato tolto tanto. Giovani chiusi in casa nel momento in cui avevano più bisogno di stare fuori. E’ stata dura per tutti, ma i giovani hanno avuto la sfida più difficile. Anche Francy (la mia creatura più piccola) ha sofferto molto sia della situazione Covid sia per gli echi della sofferenza della “fratella”, termine che ha inventato lei per definire la non binarietà di Jo. Ad oggi però penso che per lei sia diventata una risorsa per leggere il mondo con un livello di complessità maggiore. Ti racconto un aneddoto divertente, una volta Francy è andata a scuola con una felpa LGBT+. Torna a casa e mi racconta che qualcuno aveva sussurrato che fosse lesbica. La cosa non l’ha turbata e poi mi dice: “Mamma devo dirti una cosa, mi sa che sono etero”. Mi ha fatto ridere, la classica frase: “Mamma ti devo dire una cosa” stavolta aveva un altro significato. Lei sa tutto della sorella, come tutta la mia famiglia. Abbiamo riso e mi ha aperto il cuore.
D- Qual è la cosa più bella che hai fatto come genitore di una persona non binaria e quale invece quella che ti è piaciuta di meno?
R-La cosa più bella è una foto, un’istantanea scattata a un Pride in cui ci siamo io, Jo, Francesca e mia mamma, la mitica nonna Paola. Per me quella foto rappresenta le nostre generazioni, ogni tanto la guardo e mi fa sentire felice. Non mi sono piaciuta in vari momenti. Nelle sue varie esperienze di scoperta a un certo punto mi rivela anche di esser poliamorosa. Ecco lì ho scoperto di avere una rigidità inaspettata, un’altra novità… le ho chiesto: “Adesso spiegami la differenza tra essere poliamorosa e un po’ bagascia”. Questa cosa gliel’ho chiesta in un momento in cui il clima era rilassato e c’era un’apertura totale. Lei mi ha dato le sue spiegazioni, abbiamo riso, ma lì mi sono vista proprio bacchettona. Non ero così moderna come pensavo, per me la monogamia era importante.
D- C’è qualcuno che ti deve chiedere scusa in tutto questo o qualcuno a cui tu devi chiedere scusa?
R- Devo chiedere scusa sicuramente a Jo, ma per la prima volta in cui sono stata genitore. Ho fatto più sbagli prima del suo primo coming out che dopo, per la mia rigidità, e per la mia severità. Dopo, avendo dovuto fare i conti con qualcosa che non avevo previsto, mi sono messa in discussione e penso di essere migliorata. Mi devono chiedere scusa tutte le persone che hanno minimizzato la cosa parlandomi di “fasi”. Questa storia delle “fasi” mi mandava in bestia, non mi sentivo capita. Io avevo chiaro che non si trattava di “fasi”, ma dell’identità di Jo, che poi fosse, come peraltro quella di tutti, in divenire, è tutt’altro discorso.
ANTONELLA MURACA
D- Quando hai capito che stavi diventando genitore per la seconda volta o comunque che la tua genitorialità avrebbe avuto un percorso particolare rispetto a quello più comune?
R- La mia seconda volta come genitore è stata sicuramente quando mio figlio ha fatto coming out come ragazzo trans. Precedentemente c’era stato quello come lesbica, per me era stato un sollievo perché temevo molto peggio. Il primo coming out quando aveva diciotto anni e il secondo a trenta, era in Spagna e l’ha fatto con una video chiamata in cui mi ha detto che aveva definitivamente capito che non poteva più vivere nei panni di una donna, era il 2016. Mi sono chiesta come mai non ci avevo pensato prima. Mi ritenevo una persona aperta e abbastanza informata. Devo dire che col senno di poi, mio figlio, aveva tentato di comunicarlo in qualche modo, che io avevo completamente ignorato. La fatica è stata quella di lasciare andare un’immagine che avevo avuto per trent’anni e a cui ero molto affezionata. L’immagine della mia bambina. La mia parte razionale capiva tutto, sapeva che mio figlio non sarebbe morto anzi sarebbe stato più felice, ma la parte emotiva continuava a pensare che stavo perdendo la mia bambina. E’ stato un anno faticoso e a tratti triste. Poi sono entrata in Agedo. Sono stata comunque fortunata perché con mio figlio si è instaurato un rapporto più intimo e adulto.
D- Qual è la cosa più bella che hai fatto come genitore di un figlio trans e quale invece quella che ti è piaciuta di meno?
R- La cosa che mi rimprovero è il non essere riuscita a pensare al dolore di mio figlio e alle sue difficoltà per tutta la sua vita precedente al coming out, per un anno, quando ho dovuto pensare al mio dolore. E mi vengono in mente due cose belle: la prima è stata vedere negli occhi di mio figlio ricomparire il sorriso che aveva perso all’età di tre anni, l’altra è stata diventare attivista per difendere i diritti delle persone transgender. Mirko mi ringrazia sempre per questo e al primo Pride a cui ho partecipato tante amiche di mio figlio sono venute ad abbracciarmi e a ringraziarmi. Lì ho capito quanto sia importante, per loro, la presenza di genitori orgogliosi.
D- C’è qualcuno che ti deve chiedere scusa in tutto questo o qualcuno a cui tu devi chiedere scusa?
R- Se devo chiedere scusa a qualcuno quello è mio figlio per non essere stata capace di rispondere subito ai suoi bisogni. Non mi viene in mente di qualcuno che mi deve delle scuse.
D- Questa domanda la faccio a te in quanto mamma e attivista, presidente di Agedo Genova, dal momento che i genitori che non hanno accettato i loro figli transgender non hanno nemmeno accettato di parlare con me. Tu hai incontrato qualche genitore per cui il figlio o la figlia transgender costituisce un problema a volte molto grave? Di seguito avremo la testimonianza della psicoterapeuta Margherita Dolcino
R- A me è capitato di incontrare delle famiglie che hanno una grossa difficoltà ad accettare, ci provano per amore della prole, ma fanno veramente una gran fatica per motivi diversi. In alcuni casi la ragione è che i figli o le figlie non corrispondono all’idea di normalità dei genitori. Sicuramente tradiscono le loro aspettative non aderendo a determinati modelli sociali o espressioni di genere. Ho sentito discorsi del tipo: “Non solo dà fastidio a me il tuo modo di vestire o di atteggiarti, ma mi dà fastidio che anche gli altri lo vedano, e che io debba rispondere, in qualche modo, agli altri”. Un grosso ostacolo poi è la religione per le persone che fanno parte di un movimento cattolico integralista. La maggior parte di questi ultimi da noi non arriva e quei pochi che ho visto era come se avessero dentro un qualcosa che gli impediva di accettare questo evento, questo cambiamento. Tutto ciò è molto doloroso per i figli/e che si barcamenano tra il desiderio di mantenere la relazione con la famiglia, di non far soffrire troppo i genitori e la necessità di essere sé stessi. Le ragazze e i ragazzi transgender alla fine quasi sempre se ne vanno da casa appena possono permetterselo. Finché sono piccoli/e, undici dodici anni, è tutto un compromesso doloroso tanto per i genitori quanto loro. Un vero calvario. Questa è la mia esperienza.
Epilogo
“Sono due i principali ostacoli alla conoscenza delle cose: la vergogna che offusca l’animo, e la paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto: pochissimi sanno quale messi di vantaggi ne derivi” (Erasmo da Rotterdam, 1509).
Che tedio la norma e che impiccio la normopatia, ovvero la tendenza a conformarsi eccessivamente alle norme sociali di comportamento senza osare esprimere la propria soggettività (McDougall, 1978). Quanta bellezza c’è in un’imperfezione, in un inciampo, quanto può essere emozionante uno scherzo del destino in agguato dietro l’angolo, inaspettato come un figlio transgender che si trasforma in opportunità per chi la sa cogliere. Questi genitori hanno superato vergogne e paure, hanno osato e per tutte/i c’è stato un meritato tornaconto. Questi genitori rappresentano una fetta di quella società civile che combatte per rendere migliore il luogo che noi tutti abitiamo. Perché non proviamo anche noi a “essere loro”? Essere loro significa anche sbagliare, essere appunto imperfetti, cadere e rialzarsi e dov’è il problema? Ad oggi la scienza non è ancora in grado di dirci se un figlio atteso sarà cis, trans, etero, gay o non binario. Sappiamo solo se sarà maschio o femmina, un’informazione troppo parziale per definire l’identità di una persona. Il concetto d’identità, nella sociologia, nelle scienze etno-antropologiche e nelle altre scienze sociali riguarda la concezione che un individuo ha di sé stesso come singolo e nella società, quindi l’identità è l’insieme di caratteristiche specifiche che rendono l’individuo unico, irripetibile, e diverso da ogni “altro”. L’identità non è immutabile, ma si trasforma con la crescita e i cambiamenti sociali. L’identità è anche un percorso per cui ognuno si definisce attraverso varie modalità. L’identità non è mai perfetta, è un divenire continuo che può avere esiti felici se siamo in grado di liberarla dai vincoli e dagli stereotipi intrinsechi al contesto culturale a cui apparteniamo.
“L’imperfezione ha da sempre consentito continue mutazioni di quel meraviglioso e quanto mai imperfetto meccanismo che è il cervello dell’uomo. Ritengo che l’imperfezione sia più consona alla natura umana che non la perfezione. L’imperfezione è dunque una componente fondamentale dell’evoluzione. Dagli anfibi all’Homo Sapiens, il cervello dei vertebrati si è sempre prestato a un miglioramento, a un cambiamento, mentre negli invertebrati è nato così perfetto da non entrare nel gioco delle mutazioni, tanto è vero che i trilobiti vissuti centinaia di milioni di anni fa non sono essenzialmente diversi dagli insetti, dagli artropodi di oggi. Ecco perché l’imperfezione merita un elogio” (Rita Levi Montalcini, 1987).
C’è chi dice no
Un’integrazione della psicoterapeuta Margherita Dolcino
Non può venire a tavola vestita così, deve rispettare i miei tempi… prima devo fare il funerale a mio figlio, solo dopo potrò gioire per la nascita di una figlia. Non so quanto tempo ci metterò, magari tutta la vita…
Non lo accetto e non lo accetterò mai. Io ho partorito una figlia… i gay non li sopporto figuriamoci mia figlia che vuole pure cambiare sesso… per me è come se fosse morta.
L’ho visto per caso… lui non mi ha visto… era vestito da donna… scendeva le scale, aveva una gonna ed era truccato, rideva e io avrei voluto morire.
Io non ho nulla contro i trans, ci mancherebbe ma perché proprio a me? Io sono aperta, comunista ma non poteva capitare ad altri?… Adesso ci penso io, quest’estate lo circondo di ragazze, voglio vedere se non inverte la rotta. E’ colpa nostra, siamo stati genitori troppo aperti.
Io lo accetto per carità, è sempre mio figlio, ma quando usciamo insieme vedo come ci guarda la gente… Gli ho chiesto più volte di mettere cose meno femminili, non è per me, lo dico per lui…
Genitori che non vogliono apparire ma piuttosto scomparire, genitori che non capiscono, non comprendono, saldamente ancorati (tanti a loro insaputa) a gerarchie tradizionali dove: “Vige prevalentemente il solo maschile eterosessuale, misura di tutte le cose, dato per scontato, definito ed identificato per differenza dal suo complemento ossia il femminile eterosessuale” (Rigliano, Ferrari, Ragaglia, 2020). E in tale gerarchia predefinita e consolidata, le soggettività considerate eccentriche e sovversive sono quelle che sfidano il potere, il potere dei ruoli di genere all’interno delle famiglie “tradizionali” che mai come in questi tempi sono al centro di un interesse e disputa preminentemente politica. Attacco quindi non solo alla famiglia, ma anche a tutto il sistema, tanto più che: “Il genere non implica semplicemente relazioni a due tra singoli corpi, ma tutto un ordine culturale istituzionale ampio e complicato. Ed è quest’ordine nel suo complesso a mettersi in relazione con i corpi e a dar loro significati di genere”(Connell, 2009). Ecco che la difesa dell’ordine precostituito diventa una sorta di dovere non solo per mantenere la chiarezza all’interno del proprio nucleo ma una sorta di obbligo morale all’interno della società allargata. Così tanti genitori si professano falsamente progressisti “accettando” l’identità di genere, ma non fuori dai propri confini familiari: purché non si sappia in giro! Ma non è tutto: “Possiamo dire soltanto che ciò che è inconsueto può benissimo diventare spaventoso e inquietante; certe novità sono spaventose, però assolutamente non lo sono tutte le novità. Perché un fatto inconsueto e nuovo diventi perturbante occorre che vi si aggiunga qualche altro elemento.” (Freud, 1919). E questo elemento altro non è che il venir meno dell’idealizzazione che il genitore perpetua nei confronti del figlio. Aspettative, progettualità che si frantumano di fronte ad un cambiamento vissuto come magico, impossibile da pensare e da pronunciare perché le parole rischiano di rappresentare “la casa della verità dell’essere” (Heidegger, 1927).
E per finire…
Donatella Siringo – Presidente nazionale Agedo
Scrivo queste poche righe dopo aver letto la bozza di questo articolo. Sono emozionata, tanto emozionata! E spero che questo accada a tutte le persone che lo leggeranno. Sì, perché è a questo che servono le nostre testimonianze: a bypassare i pregiudizi, le false credenze, le ideologie e la paura del cambiamento. Cambiamento di prospettiva e di mentalità, che sono così difficili come appunto testimoniano anche le storie dei genitori che mi hanno preceduto. Poi, però, la vita ci regala opportunità: di scoperta, di apertura e di comprensione. La nostra mappa del mondo si amplia se sappiamo cogliere le tante occasioni che incontriamo nel nostro percorso. In queste pagine trovate la storia di vita di genitori e di figlie/i, di persone, non la difesa di una teoria, tantomeno della “teoria del gender”. Questi temi hanno bisogno, per essere affrontati, di uno sguardo limpido e di un genuino interesse a comprendere anche ciò che ci è ancora estraneo e/o lontano, non di rigide ideologie e dottrine. Ed è questo l’augurio che io faccio alle lettrici ed ai lettori: lo dobbiamo alle giovani persone di cui siamo responsabili e lo dobbiamo a noi stesse/i.
BIBLIOGRAFIA
Connell R, (2009) Questioni di genere, Il Mulino Editore
Erasmo da Rotterdam (1509) Elogio della follia
Freud S., (1919) Il perturbante, Bollati Boringhieri Editore
Heidegger M., (1927) Essere e Tempo, Longanesi Editore
Levi Montalcini R., (1987) Elogio dell’imperfezione, Garzanti Editore, Milano
McDougall J., (1978) Plea for a measure of abnormality, International University Press, New York,
Rigliano P., Ferrari F., Ragaglia E., (2020) Il genere e le sue storie Riv.“Ricerca psicanalitica” anno XXXI n.2.