Fulvia De Feo
Io, in lockdown ci sarei rimasta ancora un anno, dieci, tutta la vita. Sdraiata sul letto a ingozzarmi di cibo – quanto cibo, madonna – e serie tv – morti ammazzati, misteri, assassini – e libri, pure quando tutti dicevano che non riuscivano a leggere, in clausura, e invece io avevo i corrieri di Amazon che ormai quasi ci davamo del tu. Perché quando si cominciò a parlare di chiudere le scuole, il 28 febbraio, io ero in una città diversa a seppellire mia madre e, se in quel momento avessi avuto una fata disposta a esaudirmi un desiderio, io avrei chiesto quello: potermi chiudere in casa, per mesi, da sola, senza vedere nessuno. Solo cibo, Netflix, roba da leggere e birra, tutte quelle birre. Perché io sono bravissima a non pensare, quando sto da sola. Ed è che sono un tipo semplice: se nessuno mi chiede come sto, non me lo chiedo neanche io.
Che al funerale di mia madre ci fossero le fate ad ascoltarmi, sarebbe forse il dettaglio meno surreale di quella giornata. Avevo preso un aereo all’alba – mio fratello mi aveva avvisato della sua morte la sera prima – e lei era lì, in camicia da notte, coi calzettoni grossi che le avevo regalato io contro il freddo di casa, un livido in faccia malamente mascherato da qualche cerone che le avevano messo. Un’ora dopo, mio fratello aveva già chiamato il carro funebre per portarla al cimitero – (“Vi aiuto, forse la cassa non passa, tirate di là, spingete di qua”) – vestita come stava e coi calzettoni, e la bara che non si chiudeva del tutto – la più economica del catalogo, suppongo, se non addirittura di seconda mano, ammesso che le bare di seconda mano esistano – e noi dietro a seguire il carro sulla vistosissima Porsche coi sedili in pelle di lui – “sedili in pelle umana”, fu l’ovvio commento dell’amica che mi accompagnava – e quella benedizione volante fatta da un prete sconosciuto e svogliato sul vialetto del cimitero, coi portantini impazienti che la tenevano sulle spalle, io e lui dietro a fissare la bara senza rivolgerci la parola e poi dentro, nella tomba di famiglia, tra i suoi elegantissimi parenti defunti – chissà con che bei vestiti erano stati sepolti gli altri, e lei con quei calzerotti, la camicia da notte del mercatino, la parente povera, la figlia povera di tanta borghesia defunta. “Pareva una scena da storia sudamericana”, mi disse poi la mia amica, e nei romanzi sudamericani gli spiriti non mancano mai. Il mio venne sotto forma di fata a regalarmi il lockdown.
All’inizio non capii. Scuole chiuse per due giorni, poi una settimana, poi boh. Era come un’allerta meteo che si andava prolungando, i ragazzi a casa, noi prof pure, io che dormivo, poi mangiavo, poi dormivo ancora, poi stavo sveglia di notte a guardare Netflix e poi di nuovo uguale, in un limbo confuso, letargico, quasi indolore. Poi, il vecchio riflesso condizionato da prof mi spinse a mandare un po’ di compiti ai ragazzi, e un attimo dopo avevo dieci, cinquanta, cento compiti da correggere e Netflix era diventato una finestrella sulla barra delle applicazioni del mio pc e non avevo più il tempo di aprirla. Decidere di passare alle lezioni online fu un sollievo, non ne potevo più di correggere muri di testo sgrammaticato. Fu pure un ritorno a quel minimo di disciplina che assomiglia tanto alla decenza: mettersi la sveglia, fare la doccia, vestirsi, pettinarsi, offrire uno spettacolo dignitoso ai ragazzi e avere pure qualcosa da dire. Che non è scontato, quando cambi il setting a cui sei abituata, a cui sono abituati loro. Perché tu devi parlare ma, soprattutto, loro devono ascoltarti, avere voglia di farlo e fartelo capire, domandando, intervenendo, facendo in modo che tu non ti senta sola come una cretina, lì a parlare a uno schermo, al muro, al niente. Online, i ragazzi li devi sentire molto più che in classe, sennò esci pazza, sennò niente ha senso, e io non ero proprio nello stato d’animo di sopportarla, una solitudine forzata e non voluta che scardinava, sporcava la solitudine desiderata, volontaria, in cui ero stata così bene. Se dobbiamo stare insieme, ragazzi, vi voglio con me, ché sennò me ne stavo a letto a dormire.
Lavorare in quei mesi è stato questo: cercare i modi per dare un senso a quelle ore da passare assieme attraverso uno schermo, perché la mancanza di senso era qualcosa che non potevo permettermi, soprattutto non in quel momento. Un horror vacui contro cui mi sono attrezzata lavorando come una matta, preparando lezioni con i dubbi di una prof alle prime armi, andando a tentativi per trovare il metodo migliore – spoiler: la flipped classroom, buttatevi su quella – per ottenere ciò che, alla fine, serviva di più a me: non sentirmi sola nel tempo che trascorrevo con loro. Che è un modo come un altro per descrivere la ricerca di senso a scuola, credo. Perché se io non mi sento sola, vuol dire che la comunicazione sta funzionando. Tutto qua.
Non ha funzionato con tutti, non succede mai. Per ogni classe il cui “Salve, prof!” ti mette allegria e ti dà la carica, ce n’è un’altra in cui non trovi la chiave e devi fare battaglie stupide, e accendete la videocamera, e perché Tizio non risponde, e come mai metà di voi non ha guardato il video che avevo cercato per ore, e adesso vi strozzo o, meglio, la videocamera la spengo io e me ne torno a dormire. Ma per me che ero fragile, in quel periodo – stanca come mai nella vita, con tutto represso e tutto in carne viva allo stesso tempo – è stato ciò che ha funzionato, a tenermi in piedi in quei mesi. Quel conversare di romanzi, poesia, episodi storici emozionanti, e la ricerca della loro colonna sonora, degli aneddoti, di ciò che rimane di un passato, di una guerra, di un percorso dell’umanità, mi accompagnava nella mia personale ricerca di ciò che rimaneva del mio passato e della mia guerra. O di quello che il futuro teneva in serbo per loro, di ciò che avrebbero voluto diventare, di come avrebbero affrontato domani le loro guerre. Quando ha funzionato – e ha funzionato – è stato bello, più che in classe. Perché online è tutto più compresso, più denso. Mancano i corpi e tutto si fa parola, e non è detto che sia un male. Del resto, è il bello della rete e il motivo del suo successo: tutte quelle parole, quelle musiche, quelle immagini, senza i corpi a fare da filtro.
Poi, però, ci sono anche i corpi, i ragazzi tutti interi. Quelli che amavo di più – quelli che avevo da più tempo, da cinque anni – li ho rivisti in carne, ossa ed evidente emozione a giugno, alla maturità. Dove si sono coperti di gloria – cinque voti massimi su ventiquattro ragazzi, più una lode e scusate se è poco – ma ci hanno spiazzato in parecchi, alla fine. Perché noi siamo abituati ai ragazzi che piangono durante l’esame. I più accorti, tra noi prof, si presentano alla maturità con i fazzolettini in borsa, con le bustine di zucchero per gli svenimenti. Succede. Questa volta, invece, durante l’esame non ha pianto nessuno. Ma tanti, troppi, lo hanno fatto alla fine, quando si è trattato di rispondere alla domanda più stupida: “E cosa pensi di fare, a partire da adesso?” Lì hanno pianto. In tanti. Non lo avevo mai visto succedere. Perché era la domanda che segnava la fine di tutto, in quest’anno bizzarro senza feste dell’ultimo giorno, senza saluti finali e accorati, senza uno straccio di cena di classe. Era un addio, non una domanda. E spalancava un futuro che ancora adesso non riusciamo a immaginare, figuriamoci a giugno scorso. Per forza, hanno pianto. È un miracolo se non gli siamo andati dietro pure noi.
Io non so di cosa sia morta mia madre o, forse, fingo di non saperlo. Erano settimane che mi diceva che faceva fatica a camminare e che aveva bisogno di aiuto. Ed erano settimane che mio fratello mi assicurava che mentiva, che voleva solo farsi notare, che erano tutte bugie e camminava benissimo. L’ultima volta che ci eravamo sentite, io e lei, mi aveva detto di non preoccuparmi se non rispondeva al telefono, ché a volte lo teneva in carica e non se la sentiva di raggiungerlo per rispondere. Mio fratello l’ha trovata morta a terra, dopo giorni che non rispondeva alle chiamate. Non so quanto tempo sia rimasta a terra, viva. Quanti giorni. Non so, soprattutto, perché non sono andata da lei quando mi ha chiesto aiuto. Perché spostarsi era già complicato per il Covid, perché mio fratello mi aveva assicurato che stava benissimo. Ma io lo sapevo, che non stava bene. Questo è ciò che è successo, e con questo devo fare i conti. Certo che lo so, di cosa è morta mia madre.
Fare la prof è una scelta nevrotica, mi diceva qualcuno tanti anni fa. C’è chi lo fa proiettata sui ragazzi – per accudire o per farsi amare, il confine è labile – e chi lo fa proiettata sulla materia. Io appartengo alla seconda categoria: mi pagano per parlare di cose che amo. Sono consapevole dei limiti che questo comporta: molti ragazzi mi trovano scostante, alcuni mi temono, tutti capiscono che ciò che dico – la materia – si impone su ciò che vedo – loro. È sempre stato il mio problema, come prof. Però mi hanno scritto, i ragazzi, dopo la maturità. E mi hanno detto un sacco di cose belle. Fondamentalmente, mi hanno scritto che, tanto, si capiva benissimo che ero umana. Che era inutile che lo negassi, loro lo sapevano. Se mi avessero visto la faccia, mentre li leggevo, lo avrebbero saputo anche di più. Grazie al cielo ero da sola.
Il lockdown mi ha protetto come una copertina calda, durante un periodo che non avrei voluto vivere e che mi toccava vivere a forza, e che non è ancora finito. E lavorare così, a distanza, in un mondo fatto solo di parole, musica, immagini, senza corpi a intralciarti – soprattutto il mio – mi ha regalato la possibilità di avere gli scambi, i rapporti umani che potevo permettermi mentre la pelle mi faceva talmente male da non poterla sfiorare. E adesso ho le colleghe che protestano, vanno a riunioni, firmano petizioni per potere tornare in classe quanto prima. Io le guardo e non dico niente ma non lo so mica, se sono pronta.
Il lockdown mi ha protetto ma mi ha devastato. Quando esco mi stanco subito, camminare mi costa fatica. Sono invecchiata e il corpo mi si impone, si ribella al mio volerlo dimenticare. È il suo mestiere, del resto. La sua essenza. Il corpo è lì per ucciderci, e questi mesi di morbido, ingannevole lockdown – in cui sembrava che bastasse rimanere fermi e chiusi in casa, fermi e da soli, fermi e fatti di sole parole – per salvarci la vita e non morire più, non morire mai, alla fine si sono rivelati per ciò che erano: un’ingenuità, un’illusione. Ti fai male anche se stai ferma.
E quindi, lo so: è assai probabile che le colleghe che protestano per tornare in classe finiscano col farmi del bene, così come mi hanno fatto del bene i ragazzi durante i mesi della DAD. Forse è arrivato il momento di tornarci davvero, nel mondo. Tra i vivi. Ma che fatica. Come quando ti svegliano dopo un lungo sonno di cui avevi tanto bisogno. E come fai a non pensarlo, che in fondo non ti sarebbe dispiaciuto continuare a dormire.
Fulvia De Feo: Insegnante, Genova