Diritto alla conoscenza (oggi), diario minimo

Scrivo volentieri le mie riflessioni rispetto al diritto alla conoscenza, visto anche quello che da un anno stiamo vivendo…. È per me un modo per riordinare le idee, una speranza di una parziale catarsi e spero un omeopatico contributo ad una riflessione condivisa. Lavoro in Carcere come criminologo, collaboro con due scuole periferiche cittadine e svolgo un po’ di attività libero professionale. In realtà da anni lo strumento che maggiormente mi interessa per lavorare con le persone è la filosofia. L’abitare diversi contesti relazionali mi ha permesso di osservare da diversi punti di vista quello che stiamo vivendo e di cogliere quanto la pandemia leda il diritto alla conoscenza. Conoscere, vuol dire acquisire nuove competenze, attraverso delle esperienze. E’ il fare e la riflessione sul fare che mi permette di conoscere, potendo far poco….
 
Nello scorso anno scolastico, il lockdown, ha gettato l’istituzione scuola, le famiglie, i docenti e soprattutto gli allievi in una situazione emergenziale.
La parola d’ordine era il dover riuscire a tenere le relazioni con le famiglie e con i ragazzi, misurandosi con il proprio analfabetismo informatico. Ricordo con tenerezza la mia incapacità ad usare google meet o le altre piattaforme digitali.
 
In carcere il lockdown ha rappresentato, soprattutto alla Casa Circondariale di Marassi, la soppressione di molte attività trattamentali, il blocco dei colloqui con i familiari e l’ingresso delle video chiamate. Una sostanziale differenza ha connotato questa fase fra il dentro e il fuori. In carcere, la Direzione di allora e l’Ufficio Comando, incentivarono la dimensione relazionale che avevamo con i detenuti, garantendo la sicurezza, ma rifiutandosi di togliere soltanto, nella consapevolezza che le persone hanno bisogno di relazioni anche fisiche e non solo telefoniche.
Per “dare a Cesare…quello che è suo…” il Carcere di Marassi di Genova è uno dei pochi che non ha avuto grossi problemi di ribellioni dei detenuti.
 
L’estate è stata all’insegna della negazione, della speranza e anche della non programmazione… e a settembre ci siamo ritrovati nella situazione in cui stiamo vivendo tutt’ora. Oggi, con grandissima fatica le scuole fino alle Secondarie di II grado sono aperte in presenza, mentre dai quattordici anni in su si continua a stare davanti ad uno schermo e spesso anche contemporaneamente davanti ad una consolle. Fuori il vuoto. Non solo non c’è la scuola, ma non c’è neanche tutta quella rete sociale fatta di associazioni, piccole palestre, circoli, che permettevano ai ragazzi di sperimentare le relazioni con gli altri in contesti un pochino protetti. Alla mattina, spesso annoiati davanti ad un monitor e al pomeriggio, colori delle regioni permettendo, per i più arditi dei genitori, la strada come contenitore delle relazioni, completamente autogestite. Dalla prima fase di emergenza, si sta passando ad una tristissima rassegnazione.
 
I ragazzi, ma in qualche modo anche i “miei detenuti”, sono stati gettati, per parafrasare Heiddegger, in un deserto di relazioni ed opportunità, con una scuola, francamente demotivante.
E allora ritengo che sia necessario riflettere su questo. Lo scenario pandemico è desolante, non solo per il bollettino dei deceduti e dei negozi falliti, ma anche per la povertà educativa e relazionale che ha generato, e soprattutto perchè limitando la possibilità di esperire lede il diritto alla conoscenza. In questa desolazione è necessario ripartire dai bisogni, per restituire un senso ai giorni che trascorriamo.
Rispetto alla scuola, penso che i ragazzi necessitino di una continuità, di lezioni dal vivo, di stimolazioni, nonostante lo scenario. Credo che gli esperti di didattica, dovrebbero pensare ad un apprendimento come una caccia al tesoro, da fare insieme però, non da soli con un motore di ricerca.
Rispetto ai territori, di cui il carcere è un sottoinsieme peculiare, appena sarà possibile bisognerebbe riprendere tutte le possibili esperienze in presenza, in sicurezza, ma in presenza, per permettere di farci vivere quella condizione umana di attribuzione di senso ai giorni che viviamo e che ci permette di conoscere il mondo e noi stessi. Credo che si possa fare se si adotta come bussola della programmazione territoriale l’idea di essenzialità.
Prima di concludere vi invito a riflettere sul fastidio che si provoca se, collegati in “conference call”, la telecamera o il microfono non funziona……
Non scomoderò Aristotele e l’uomo come animale sociale, ma vorrei concludere queste piccole riflessioni, prendendo comunque in prestito il pensiero di un filosofo. G. Agamben spiega in un articolo che il tatto è l’unico dei nostri sensi che ci permettere consapevolezza del nostro corpo, perché la conoscenza del mondo in questo caso avviene direttamente e non mediata. Con il tatto, non solo conosciamo il mondo, ma anche la nostra corporeità. In breve bisognerà arrivare ad una socialità ritrovata, per evitare di trasformarsi in identità a due dimensioni, fatte solo di immagini e di suoni.
 
Andrea Giannichedda è criminologo nella Sezione a Custodia Attenuata per la Cooperativa Il Biscione; consulente Alpim per progetti di inclusione scolastica e libero professionista
 

Foto di Donald Tong da Pexels