di Elisa Gaggero e Paolo Chiappero
“Abbiamo bisogno, dopo quella probabilistica,
di una seconda rivoluzione che prenda l’euristica sul serio e
dia finalmente al genere umano
la capacità di affrontare l’intera gamma dell’incertezza”
G. Gigerenzer (2014)
Introduzione
L’aspetto interessante del concetto di “rischio”, ovvero “l’eventualità di subire un danno connesso a circostanze più o meno prevedibili” (enciclopedia Treccani), risiede innanzitutto nel fatto che esso non è riconducibile ad una definizione unitaria, ma, assume significati differenti in relazione all’ambito a cui viene riferito, originariamente e principalmente l’ambito economico, ma riguarda anche altri campi, quello tecnologico, sanitario, ambientale, ecc. Tale concetto va inoltre distinto da quelli di pericolo e di incertezza. Inoltre è opportuno tenere a mente una differenziazione importante tra la nozione di “rischio vero e proprio” e quella di “pericolosità intrinseca o danno potenziale”. Mentre il primo denota, appunto, una caratteristica di potenziale pericolo o danno, la portata e l’intensità del rischio vero e proprio sono piuttosto date dalla probabilità e frequenza dell’esposizione a tale caratteristica. Il rischio è, infatti, un concetto probabilistico, è la probabilità che accada un certo evento capace di causare un danno alle persone. In questo senso occorre non trascurare un elemento particolarmente influente quando si ha che fare con il concetto di rischio, ovvero quello della percezione del rischio, la quale non necessariamente corrisponde all’entità effettiva del rischio stesso. Secondo Astrid (fondazione che riunisce accademici, ricercatori ed esperti, specializzati nell’analisi, progettazione e implementazione delle politiche pubbliche, delle riforme istituzionali e amministrative, della regolazione dell’economia e delle problematiche dell’Unione Europea):
1. Ogni individuo e collettività sono esposti a molteplici rischi.
2. Non è ragionevole supporre che sia sempre possibile eliminare tali rischi completamente e definitivamente.
3. Qualsiasi intervento mitigante comporta impatti positivi e negativi.
Tuttavia, come afferma Allio (2009), benché risulti semplice concordare con queste tre affermazioni, nella società moderna, in maniera sempre più netta, ci si rifiuta di accettare che non possa esistere un “rischio zero” e che, spesso, i rischi possono essere solo minimizzati, ma non eliminati completamente, se non ad altissimi costi. Il rischio viene poi cavalcato dalle diverse agenzie di comunicazione che non mancano di proporre titoli sensazionalistici “ad effetto”, per aumentare le visualizzazioni e le vendite, ma che hanno come risultato collaterale quello di generare un diffuso senso di incertezza, precarietà e sfiducia nei confronti delle istituzioni. Queste modalità di comunicazione del rischio non hanno un reale scopo informativo, che potrebbe garantire ai cittadini di mettere in pratica comportamenti realmente utili, sostenibili e responsabili. La comunicazione del rischio richiede, infatti, competenze molto specifiche proprio perché deve misurarsi con l’incertezza delle stime, con la difficoltà di esprimere concetti complessi quali, ad esempio, quelli di probabilità e variabilità (Cerase, 2018).
La rilevanza, sempre più attuale, del concetto di rischio, secondo la prospettiva sociologica, è da ricercarsi in una contraddizione della modernità: da una parte l’evoluzione del sapere scientifico in tutti campi (medico, tecnologico, ambientali, ecc.) ha permesso all’uomo di avere sempre maggior controllo sulla natura e sul mondo in generale, i cui fenomeni appaiono via via meno imprevedibili, tuttavia, dall’altra parte, proprio questa conoscenza, aggiorna costantemente la consapevolezza su nuovi potenziali pericoli, non ancora conosciuti, prevedili e controllabili.
L’opera di Beck
Parlando della connessione tra rischio e società non si può non fare riferimento, all’interno dell’orizzonte sociologico, all’opera di Ulrich Beck che nel 1986 ha teorizzato la Risikogesellschaft o “società del rischio”, nella sua opera (tradotta da Carocci e pubblicata in Italia nel 2000) Beck descrive una seconda modernità in cui si è chiamati a prendere atto del fatto che tutti siamo esposti al rischio, come condizione ineliminabile. La società del rischio non è necessariamente legata ad una condizione fattuale di aumento della pericolosità e dei fattori di rischio, essa si configura, piuttosto, come una prospettiva osservativa sulla realtà in cui è necessario prendere atto che il rischio è, di fatto, ovunque e ovunque lo percepiamo. Beck afferma che, dalla fine del XX secolo, hanno cominciato a convergere due linee opposte di sviluppo storico, da una parte l’aumento dell’attenzione per il livello di sicurezza garantito basato sul perfezionamento di norme e controlli tecnico-burocratici sempre più sofisticati e, dall’altra, la nascita di “megarischi”, storicamente nuovi.
Proprio a partire dal ventesimo secolo si è incominciato ad incontrare la possibilità, mai contemplata prima, che con il suo stesso sviluppo il genere umano potesse provocare la distruzione di se stesso e del pianeta. Viviamo nell’era della tecnologia nucleare, chimica e genetica e questo pone ostacoli più complessi alla possibilità di assicurarsi contro ogni possibile conseguenza negativa. Nel pensiero di Beck il rischio deve porsi al centro del dibattito pubblico ma, perché ciò accada, è necessario sviluppare nuovi modi di intenderlo e fronteggiarlo, la società del rischio è infatti un prodotto della modernità caratterizzata da un’interdipendenza “transnazionale” sempre più accentuata e da una globalizzazione di tipo economico, culturale, politico e sociale. Secondo Beck, una volta sfumate le linee di demarcazione nazionali e culturali, ci si trova ad affrontare, non tanto nemici, quanto piuttosto “rischi”. Se dunque prima, nelle società industriali, i rischi venivano gestiti dalle amministrazioni nazionali, nell’epoca della seconda modernità il progresso tecnologico e la fitta rete di connessioni globali stanno indirizzando il rischio verso direzioni nuove e perlopiù impreviste, che, proprio in virtù della loro natura globale sfuggono al controllo nazionale, e come tali devono essere affrontate da istituzioni “transnazionali”.
Beck immaginava, inoltre, la nascita di “comunità del rischio”, ovvero, di gruppi di persone unite da un rischio condiviso, anche se separate da barriere di altro tipo (es. distanze geografiche o di classe sociale). Un’altra dimensione interessante dei megarischi sta nella loro natura “democratica” nella misura in cui, in ultima analisi, tutti sono potenzialmente parimenti vulnerabili. Il sociologo tedesco prevedeva inoltre la diffusione di un nuovo tipo di politica, in cui la società civile cerca di riaffermare i propri diritti sui rischi generati dal nuovo ordine globale attraverso un nuovo tipo di partecipazione politica “dal basso” in cui i soggetti direttamente coinvolti possono avere voce in capitolo nelle decisioni al fine di tornare ad assumere un certo controllo sui rischi che sempre più sono obbligati ad accettare.
L’opera di Beck suona, dunque, in qualche modo profetica: è infatti esperienza comune di ciascuno di noi, negli ultimi anni, ma ancora di più a seguito della pandemia da Covid-19, la percezione di un aumentato senso di minaccia e di pericolo che giunge dai media, così come dalla propaganda politica e da un certo filone della comunità scientifica. Viviamo, di fatto, in un clima in cui quotidianamente siamo esposti a nuove, appunto, “incertezze fabbricate” che possiamo anche facilmente incontrare, ad esempio, recandoci in qualsiasi luogo pubblico dove, di volta in volta, veniamo sottoposti a nuove norme e protocolli per proteggerci da rischi più o meno gravi e probabili, non solo di ammalarci o incorrere in qualche infortunio, ma anche di subire attacchi terroristici e violenze di ogni genere. Giungiamo, perfino, ad alcune estremizzazioni illogiche in conseguenza delle quali in uno stadio/teatro non è possibile entrare con una bottiglietta d’acqua ma, certamente, con una pesante ed ingombrate fotocamera, oppure un medico può rifiutarsi di visitarci per un grave dolore addominale per prevenire i contagi da Covid, intere corsie autostradali vengono chiuse, ma non aggiustate, per prevenire rischi dovuti all’incuria generando però code e traffico che aumentano le probabilità di incidenti, solo per citare alcuni esempi.
Insomma, siamo sempre di più frequentemente sottoposti a pratiche di “messa in sicurezza” e politiche di minimizzazione dei rischi, in tutti gli ambiti, sanitario, lavorativo, tecnologico, ma tali pratiche dilagano facilmente in burocratizzazioni, formalismi, dispendi di tempo, energie e denaro non sempre correttamente proporzionati alla reale protezione che ne consegue. Queste prassi di prevenzione, in ultima analisi, non appaiono orientate tanto alla volontà di proteggere i cittadini da eventuali danni ma piuttosto sembrano legarsi alla controversa questione “dell’assunzione di responsabilità”, in ogni contesto le istituzioni nazionali, originariamente predisposte ad occuparsi dei rischi, proprio come aveva immaginato Beck, si scoprono impreparate di fronte ad una crescente richiesta di assoluta assicurazione di sicurezza rispetto ai nuovi rischi a cui tutti noi siamo democraticamente sottoposti (legati alla salute con le nuove malattie, alla protezione della privacy con le nuove tecnologie, al denaro con l’instabilità dei mercati, e così via) e, per tali motivi, instaurano pratiche pseudo-protettive, definendo rigidi setting di regolamenti e chiedono a ciascuno di noi di assumersi la responsabilità della propria sicurezza in ospedale per un intervento, in banca per un investimento, su internet per la gestione dei propri dati. Le istituzioni si scaricano così da una “responsabilità impossibile” mentre gruppi di cittadini, sempre più spesso, si aggregano per appellarsi alla giustizia e alle vie legali per richiedere a quest’ultime assunzioni di responsabilità verso i danni subiti, anche qualora le cause siano evidentemente incontrollabili. Le incertezze fabbricate e quelle reali hanno, infatti, generato una forte suddivisione tra diversi gruppi sociali in cui ci si identifica sulla base dei maggiori o minori pericoli che, a seconda della situazione, possiamo correre; così veniamo categorizzati e ci categorizziamo a seconda del potenziale livello di pericolo che corriamo in un determinato contesto, ciò genera ostilità crescenti tra i diversi gruppi più o meno fortunati, e dunque protetti, a seconda del caso.
Come sempre accade anche il linguaggio, e così i termini che entrano in uso o vengono coniati ex novo, rappresentano uno specchio di ciò che accade a livello sociale, possiamo così osservare che si stanno recentemente diffondendo termini che suggeriscono e facilitano la comprensione della realtà che ci circonda sulla base di categorie definite dal livello di esposizione a certi rischi (es. i soggetti fragili, i femminicidi, ecc.) dalla responsabilità nel aver generato pericoli (boomer) o dal grado di impegno e coinvolgimento nel combatterli e prevenirli (ecoterroristi) .
In ultima analisi, come osserva Cerase (2016) si può affermare che stiamo assistendo alla crescente tendenza ad utilizzare il discorso sul rischio per giustificare comportamenti individuali e scelte politiche giungendo così ad una radicalizzazione del concetto di “società del rischio” di Beck in base alla quale, la legittima aspirazione individuale alla sicurezza, può trasformarsi nell’irrealistica distopia di una società a rischio zero, anche a costo di mettere in discussione il godimento di beni comuni. E così, in uno scenario sociale complessivamente dominato dall’individualizzazione delle scelte in materia di rischio, assistiamo alle pressioni più o meno forti di certe “comunità del rischio” che, anche in mancanza di qualsiasi evidenza “scientifica” che giustifichi la pretesa pericolosità di una possibile fonte di rischio, ma in forza di una interpretazione estensiva (ed ambigua) del principio di precauzione, intervengono direttamente nei processi politici, anche alimentando conflittualità tra movimenti sociali e legittimando istanze e rivendicazioni di natura pseudoscientifica o anti-scientifica.
La narrativa a tema distopico
Il prodotto di questa radicalizzazione si riflette, naturalmente, anche nella letteratura e nel cinema, dove è facile riconoscere, negli ultimi anni, un aumento dell’interesse e, di conseguenza, delle pubblicazioni/produzioni di narrativa a tema “distopico” che fanno quindi riferimento a un mondo ideale al contrario, che si contrappone a quello della società perfetta rappresentato dall’utopia. Uno degli aspetti più interessanti della narrativa distopica è che spesso queste storie affrontano tematiche che rappresentano l’estremizzazione di problemi già esistenti nella società, non si tratta di premonizioni, ma della capacità dell’autore di leggere tra le righe della realtà che lo circonda e di cogliere aspetti già presenti attraverso la tecnica del “what if?”, ovvero di interrogarsi su che cosa succederebbe se questi stessi aspetti venissero portati alle estreme conseguenze.
Le tematiche a sfondo distopico seguono, dunque, il corso dei fenomeni geopolitici e, non a caso, proprio negli ultimissimi anni le opere che fanno riferimento a questo genere mostrano un cambiamento radicale e così, la protezione del genere umano dai rischi connessi al suo potere e alla sua audacia diventa l’argomento più ricorrente delle visioni distopiche nella letteratura del terzo millennio, dalla deriva politica autoritaristica, passando per l’ibridazione tra phýsis e téchne ed infine la diffusione di nuove malattie (Pogonska-BaranowsKa, 2019). Un aspetto particolare nelle distopie del ventunesimo secolo è quello di affidare ai ragazzi, alle nuove generazioni, il compito di un nuovo atto fondativo. In questi libri, film e serie TV (da Hunger Games a Stranger Things) gli adulti rappresentano l’elemento negativo, il limite da superare. Antoniazzi, (2018) in un interessante articolo in cui traccia un’analisi della diffusione della narrativa distopica nell’editoria per ragazzi, osserva come il filo conduttore che sembra collegare le produzioni, ed in particolare i romanzi di questo genere, pare essere il bisogno di disegnare nuova umanità e modelli alternativi di mondi possibili all’interno di un mondo devastato a causa delle scelte di adulti accecati da un orizzonte limitato ed orientato esclusivamente al soddisfacimento dei propri immediati bisogni personali (benessere, potere, ricchezza, ecc.). Secondo l’autrice la narrativa per ragazzi offre, non a caso, l’opportunità di osservare la quotidianità da nuovi e originali punti di vista e viene capovolta, deformata, fino quasi a perderne i confini, proprio da lì, dai bordi del presente, esplorata attraverso una pluralità di generi – dal fantasy all’horror, al giallo, alla fantascienza – spesso mescolati tra loro, per offrire ai protagonisti inedite occasioni di riscatto ed impensabili opportunità.
Ciò è possibile perché, in effetti, la teoria psicologica dell’adolescenza ci insegna come gli adolescenti stessi, nell’età di mezzo, si percepiscano ai bordi dell’esistenza, impegnati nel difficile compito di separazione e definizione di Sé. Quello che cambia sarebbero dunque le possibilità che ogni epoca offre a quanti non hanno ancora oltrepassato la soglia dell’età adulta; possibilità che, secondo l’autrice possono essere stimolate, scoperte, esplorate, anche e soprattutto, attraverso la lettura e la narrativa.
Rischio e psicologia
Viene naturale domandarsi come mai l’essere umano sia così fortemente “allergico al rischio”, quali siano le motivazioni profonde, radicate all’interno del funzionamento psichico, che ci rendono così difficile il compito di accettare che la natura stessa della nostra esistenza, in quanto esseri umani, è permeata di rischi conoscibili e prevenibili solo in parte e che non è possibile, né legittimo, aspettarsi e pretendere, in ogni situazione e contesto, un’assicurazione contro ogni possibile danno. Il timore dell’ignoto, dell’incerto, dell’imprevedibile ha, infatti, a che fare con quelle angosce ancestrali da cui, come umani, siamo abituati a difenderci così rigidamente al punto da riuscire a distorcere, talvolta, il dato di realtà, arrivando a costruire e sostenere, come descritto poco prima, rivendicazioni, pratiche, stili di vita faticosi distopici e a pagare costi altissimi pur di garantirci un’illusione di sicurezza.
Per provare a spiegare il “timore del rischio” dobbiamo fare innanzitutto riferimento all’evoluzione neurobiologica del cervello, in particolare della corteccia frontale, che ha permesso all’uomo di divenire cosciente e consapevole dei suoi pensieri e dell’ambiente che lo circonda. La natura del funzionamento celebrale umano ci rende gli unici esseri viventi ad essere consapevoli di non poter dominare completamente l’ambiente e di essere soggetti alle sue mutazioni, soprattutto a quelle impreviste. Per far fronte a ciò, la psiche umana ha sviluppato vari autoinganni e varie illusioni di certezza, Sigmund Freud, in alcuni suoi articoli aveva identificato queste strategie definendole “meccanismi di difesa”, ovvero strumenti mentali attuati per difendere l’equilibrio psichico da pensieri legati al dolore e alla morte.
Gerd Gigerenzer (2014), scienziato cognitivo e direttore del Max Planck Institute for Human Development di Berlino sostiene che una di queste “illusioni” sia quella del “rischio zero” e consiste nel negare qualsiasi elemento di rischio in una particolare situazione che, invece, ne comporta il fattore, autoconvincendosi così di vivere in una situazione completamente certa e dominata. Uno dei maggiori ostacoli a una gestione intelligente del rischio da parte dell’uomo starebbe dunque nella ricerca, spasmodica e illusoria, della conoscenza certa.
Secondo l’autore sono tante le ragioni per cui cadiamo vittime di questa illusione: da un lato, un bisogno psicologico di sentirci padroni e comandanti della nostra vita in tutto e per tutto, dall’altra anche una certa “ignoranza” in materia di rischio a cui propone come soluzione una alfabetizzazione del rischio. Innanzitutto l’autore spiega che è corretto parlare di rischi solo quando abbiamo a che fare con contesti in cui «tutto è noto con certezza, probabilità comprese». È il caso, ad esempio, delle lotterie o delle slot-machine. E qui sta il punto (e il fraintendimento) fondamentale, per Gigerenzer: laddove c’è rischio non potrà mai esserci incertezza. Se nel mondo del rischio, infatti, sono note tutte le alternative possibili e le probabilità di ciascuna di esse, ed è quindi possibile (e sensato) impegnarsi a fare calcoli e stime, nel mondo dell’incertezza – che è quello, ad esempio, delle relazioni tra persone, della salute, o della speculazione in borsa – accade esattamente l’opposto: non sappiamo quali sono le alternative, né conosciamo le relative probabilità. È chiaro allora che, in questo caso, la logica non ci aiuta e per fare una buona scelta ci serviranno altri strumenti; in particolare, ci occorrono buone intuizioni (Arcieri, 2019).
Per concludere è indubbio che questa illusione sia rassicurante e comoda e ci garantisce un senso temporaneo di sicurezza, tuttavia, perseverare nel diffondere una idea “Utopistica-Distopica” di una “società a rischio zero” può portare a conseguenze molto gravi derivanti innanzitutto dal non ammettere, ed anzi temere, la frustrazione derivata dalla esposizione ai fatti del mondo che, invece, rappresenta un elemento sano e imprescindibile per la crescita personale di ciascuno di noi, in quanto permette all’individuo di avere a che fare con le sfide offerte dall’ambiente e dalla stessa società, accompagnandolo in un percorso di maturazione psichica e fisica. Il confronto con gli errori, l’incertezza e la frustrazione permettono cambi di prospettiva funzionale e favoriscono lo sviluppo del carattere, mentre il rifiuto a prescindere di avere a che fare con delle conseguenze negative può alimentare una scarsa gestione dell’emotività, dell’impulsività legata alla ricerca di gratificazione immediata, fino a comportamenti oppositivi e di rifiuto nei confronti dell’ambiente sociale. La proposta di Gigerenzer si trova in accordo con quella di altri studiosi del campo dell’incertezza e tende a richiamare l’attenzione sul fatto che sia fondamentale avere sempre una componente di “risk-taking” per non essere soggetti passivi di forze esterne.
Rischio e psicoterapia
Riprendendo il pensiero di Gigerenzer e quanto esposto in precedenza, dobbiamo affermare che anche in psicoterapia è presente il “rischio”, in altre parole non abbiamo una”no-risk psychotherapy”. Non ci riferiamo in questa sede a possibili effetti iatrogeni della stessa, ma alla percezione (conscia e inconscia) del rischio, da parte del paziente, come elemento imprescindibile del percorso terapeutico.
Proviamo a riflettere a partire dal termine antitetico al rischio: la sicurezza. H.S. Sullivan e A. Sandler, eminenti terapeuti, tra i più noti del secolo scorso, si sono occupati della ricerca di sicurezza psicologica da parte dell’essere umano.
Per il primo, psichiatra statunitense e “padre” della psichiatria interpersonale, la vita emozionale dell’essere umano si caratterizzerebbe, tra gli altri aspetti, come contrassegnata da uno stimolo all’auto-soddisfazione (o gratificazione) e da una alla sicurezza. La dialettica tra le due motivazioni rappresenterebbe un fenomeno fondante lo sviluppo stesso della specie umana. Le cui scelte di vita sarebbero una continua ricerca di mediazione tra le due “spinte” (Sullivan non utilizza il termine pulsione, come Freud, ma quello di bisogni primari).
In Sandler, psicoanalista inglese, ritroviamo il termine sicurezza, associato al concetto di “background di sicurezza”. Una nozione più ristretta, rispetto a quella di Sullivan, ma altrettanto rilevante. Lo psicoanalista postula che tutti i meccanismi di difesa dell’Io abbiano come obiettivo la prevenzione e/o la gestione di situazioni “traumatiche”, e all’origine di questa funzione, è la percezione stessa che ci aiuta a discriminare la realtà circostante, e quella interiore, per valutare i “fattori di rischio” presenti e potenziali. <<L’Io cercherà di controbilanciare l’angoscia [derivante dai possibili rischi e pericoli] innalzando il livello di sicurezza tramite tutte le tecniche a sua disposizione>> e più avanti nello stesso scritto:<< (…) L’Io compie ogni sforzo per mantenere un minimo livello di sentimento di sicurezza>> (Sandler, 1963-72). Nota 1
Nota 1. Dobbiamo rammentare che i meccanismi di difesa, nella misura in cui si palesano durante il processo terapeutico, assumono il nome di resistenze. Ne parleremo più avanti.
Nella seduta analitica abbiamo un articolarsi di momenti di sicurezza, caratterizzati dalla prevedibilità di ciò che sta avvenendo nel dialogo analitico, collegato alla presenza di un analista “sicuro” (che in condizioni ottimali viene percepito come “base sicura”). Il terapeuta deve essere avvertito, anche in termini di costanza oggettuale, come un riferimento invariante, prevedibile, coerente e congruo (Rogers, 1951) con la situazione concreta. Nota 2
Nota 2. Nel pensiero dello psicoterapeuta Carl Rogers congruità e autenticità sono le caratteristiche che fondano la presenza del terapeuta nel setting psicoterapeutico. La prima concerne l’essere in contatto, con consapevolezza, con i propri sentimenti ed emozioni durante il lavoro con il paziente.
Contemporaneamente, però, esiste un analista-Altro che, poiché essere umano, è intrinsecamente imprevedibile, nei comportamenti, negli interventi verbali e in quelli non verbali.
Al netto delle differenti caratteristiche di personalità del paziente (tutt’altro che ininfluenti in questo discorso) in un lavoro analitico avviato e dando per scontata una sufficiente alleanza terapeutica tra terapeuta e paziente per permetterne la continuità, il vissuto di “insicurezza” (e quindi di “rischio”) da parte del paziente è comunque sempre presente a livello Preconscio.
Potremmo aggiungere che il rischio è ciò che da luogo alla resistenza.
Il fenomeno della resistenza, come si palesa durante il lavoro psicoterapeutico, è uno dei concetti cardine del pensiero freudiano. Tanto che alcuni autori hanno ritenuto che si tratti della più grande scoperta freudiana. In effetti, si tratta di un fatto contro intuitivo. Lasciamo allo stesso Freud il compito di chiarirlo con parole semplici ed efficaci: <<Pensate un po’: l’ammalato, che soffre tanto per i suoi sintomi, facendo soffrire nel contempo le persone che gli sono vicine, che è disposto a sostenere tanti sacrifici di tempo, denaro, fatica e autodisciplina per esserne liberato, proprio lui, l’ammalato, opporrebbe resistenza al suo soccorritore, quasi facesse l’interesse della sua malattia. Come suona inverosimile quest’affermazione! Eppure è così; e se qualcuno ci fa osservare questa inverosimiglianza, non abbiamo che da rispondere che non mancano analogie in proposito, e che chiunque si sia recato dal dentista in preda a un insopportabile mal di denti sa di avergli trattenuto il braccio quando vedeva avvicinare la tenaglia al dente malato>>. (Freud, 1915-1917).
E così il paziente, o come suol dirsi “una parte di sé”, si “difende”, una “legittima difesa” per altro. Da cosa si difende? Dal rischio, dal pericolo, dall’angoscia.
Ancora Freud (1920): <<L’inconscio, cioè il rimosso, non oppone agli sforzi della cura alcun tipo di resistenza; anzi esso in realtà non tende ad altro che a vincere la pressione che pesa su di esso per aprirsi un sentiero verso la coscienza o verso la scarica mediante l’azione reale. La resistenza nella cura proviene dagli stessi strati e sistemi superiori della vita psichica che avevano a suo tempo prodotto la rimozione>> e, in uno scritto successivo: <<La guarigione stessa è considerata dall’Io come un nuovo pericolo>> (Freud, 1937). [il corsivo è nostro]
Questa visione della cura analitica è stata recepita nel tempo anche da approcci psicoterapeutici che si discostano in maggiore o minor misura da quello psicodinamico (si veda tra gli altri Bara, 2007).
Gli ostacoli al cambiamento sono interrelati con l’angoscia emotiva legata al cambiamento stesso.
Non considereremo fattori culturali, linguistici e socio-economici che possano rendere oggettivamente più difficoltoso un percorso psicoterapeutico. Allo stesso tempo, considerare ogni ostacolo alla psicoterapia come una resistenza del paziente significa non riconoscere sia aspetti oggettivi del suo ambiente di vita, sia ignorare il contributo del terapeuta alle resistenze in primis, i suoi inevitabili errori tecnici e il suo controtransfert. Nota 3
Nota 3. Soprattutto nella psicoterapia psicodinamica contemporanea in cui, la maggior parte della comunità scientifica, concettualizza il lavoro analitico come “co-costruito” tra paziente e terapeuta, all’interno di una dimensione intersoggettiva.
Prendendo in considerazione il contributo del paziente, dobbiamo ricordare alcune manifestazioni interiori, che troviamo a monte sottoforma di resistenza alla cura e, a valle, sotto forma di aumento dell’ansia, quanto più si raggiungono dei “risultati” analitici.
E’ il caso della sindrome del sopravvissuto oppure del senso di abbandono (procurato all’altro con la nostra autonomia, decisioni, benessere). Si tratta di sensi di colpa (approfonditi in particolare dalla Control Master Theory, vedi ad es. Weiss, 1993) che rendono “rischioso” il procedere del percorso analitico del paziente.
In base alle sue “credenze patogene” il soggetto percepisce il rischio di danneggiare gli altri e, di riflesso, se stesso se perderà l’affetto altrui a causa del dolore procurato oppure (è il caso del “sopravvissuto”) il rischio di una forte angoscia che mescola la solitudine con il vantaggio di essere vivo, considerandosi fortunato, oppure non meritevole della buona sorte, ecc……O ancora il fenomeno del “burdening” (gravare, opprimere), in cui il rischio che correrebbe il soggetto è che, se confida le proprie problematiche, l’Altro (nel caso della psicoterapia lo stesso analista) potrebbe allontanarsi. In questo caso il paziente non vuole correre rischi e cercherà di minimizzare la portata dei suoi problemi, in modi più o meno espliciti. Ricordo a tale proposito una mia paziente che continuava a ripetere, non a caso nei momenti più difficili della propria vita: <<Chissà quante altre persone vengono qua con problemi maggiori dei miei”.
Lo stesso processo di cambiamento è vissuto come una minaccia. Dal noto all’ignoto. Ancora un ricordo di un mio paziente: <<Con tutti i miei problemi però fino a qui ci sono arrivato, vorrei soffrire meno ma….se cambio cosa sarò? Chi diventerò? Gli altri cosa penseranno di me?>>. Qui il rischio in gioco è la discontinuità nel senso di sé, fondamentale per un Sé coeso e integrato. E, ancora una volta, il diverso sguardo degli Altri: mi accetteranno o no?
Quante speranze e quante paure anche nella stanza d’analisi. Per questo motivo è fondamentale la costruzione di una solida alleanza terapeutica tra analista e paziente, monitorando lo status emotivo del paziente in seduta e “a causa della” seduta.
“Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, e non sa quel che trova”. L’aforisma è tanto noto, abusato, quanto esplicativo delle paure e dei rischi che immagina l’essere umano di fronte alla prospettiva del cambiamento, soprattutto quando ne vorrebbe essere egli stesso il promotore; da cui la possibilità che ciò determini un combinato disposto formato dal rischio più il senso di colpa per averlo corso. In definitiva una frase intimidatoria, liberticida, che ingabbia in un eterno e immutabile presente.
La paura del rischio, la percezione onnipresente dei pericoli, il sentirsi assediati dagli imprevisti della nostra quotidianità (sovente addebitati agli altri e alla società in generale) celano, in verità, la paura della libertà. Libertà nei comportamenti, nelle scelte e, non ultimo, nel pensiero.
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