Crisi ambientale: un nuovo linguaggio per nuove città

Noi abbiamo bisogno di una nuova 
coscienza ambientale su basi globali.
Per fare questo, abbiamo bisogno di educare le persone
.
Mikhail Sergeevich Gorbachev

Per introdurre il tema del presente articolo, si è deciso di iniziare da un estratto della grande opera letteraria di Italo Svevo La coscienza di Zeno (1923), ed in particolare si è tenuto conto di alcuni elementi che emergono nell’ultimo capitolo del libro intitolato Ordigni.

Nelle sue ultime confessioni al dottor S., Zeno Cosini dichiara di essere guarito. Non ha più bisogno della psicanalisi. Ammette di soffrire di alcuni dolori, ma questi, in confronto alla sua solida salute, non hanno troppa importanza. Per Zeno diventa chiaro di come l’esistenza umana, di per sé, assomigli ad una malattia con i suoi miglioramenti e i suoi peggioramenti.

In uno dei paragrafi finali, si legge:

“La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinato l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire il peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!”
Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.

Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. […] I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra creatrice.”[1]

In linea con il tema che si vuole introdurre citando quest’opera letteraria, è utile qui evidenziare come nel corso de La coscienza di Zeno venga utilizzata più volte la parola ordigno, da cui prende il titolo lo stesso capitolo analizzato. Tale parola, nel finale sopra riportato, raggiunge una valenza cruciale, di tono “apocalittico”. È Italo Svevo a precisare, in tal senso, cosa si deve intendere per ordigni. Per lo scrittore gli ordigni sono da intendersi come quegli utensili costruiti mano a mano dall’uomo nel corso della propria evoluzione. Essi possono rivelarsi utili e benigni, ma possono anche degenerare, rivelandosi prodotti temibili e portatori di violenza.

È plausibile pensare che la Grande Guerra, che fa da sfondo al monologo finale di Zeno, insieme alle alterazioni ambientali e tecnologiche che essa comportava, abbiano profondamente inciso sulla coscienza dell’autore. Se i primi ordigni inventati dall’uomo «parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso», ora essi non hanno più alcuna relazione con l’arto. Saranno loro, pertanto, a creare la malattia finale e a sconvolgere la legge creatrice che dominò su tutta la Terra: «Sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati».[2] Di fatto, quindi, Zeno non ritiene più necessario procedere nella propria autoanalisi e comprende che la malattia riguarda non solo lui come singolo, bensì la vita umana nel suo complesso. Nelle ultime righe, l’interesse non è rivolto all’individuo o, per meglio dire, a se stesso, ma all’umanità contemporanea nella sua interezza, alle conseguenze derivanti o che potrebbero derivare dal continuo progresso tecnologico e scientifico. L’opera si conclude, quindi, con un finale che ha un duplice significato. Da un lato, vi è la guarigione del protagonista; dall’altro lato, si trova la distruzione del mondo. Quest’ultima, a sua volta, può essere rappresentativa di due differenti fallimenti dell’umanità. In primo luogo, infatti, rappresenta un’anticipazione della catastrofe bellica. In secondo luogo, è espressione di una lettura di tipo sociale, economico e politico che vede nello sfrenato e irriducibile progresso scientifico e tecnologico, la potenziale rovina dell’umanità stessa.

La coscienza di Zeno, senz’altro, è considerato uno dei capolavori in assoluto del Novecento europeo. Da un punto di vista prettamente letterario, Italo Svevo è stato sicuramente influenzato dalle correnti precedenti del Verismo e del Naturalismo, ma nella sua opera emerge una sostanziale novità per quel che concerne l’attenzione rivolta al rapporto uomo – realtà. In particolare, Zeno Cosini è il rappresentante di una “malattia universale”, una crisi che riguarda non soltanto i valori dell’uomo, il nuovo modello economico e culturale emergenti, ma anche il rapporto uomo e natura, uomo e ambiente. Unitamente alla sua geniale capacità di interrogare e capire la complessa psicologia umana, è un’opera dalla sconcertante e rivoluzionaria modernità. In particolare, riproponendo qui una porzione delle ultime confessioni di Zeno Cosini, si vuole evidenziare l’emergere, già all’epoca dello scrittore, di preoccupazioni di tipo ecologico – ambientale di estrema attualità.

Si entra, a questo punto, nel vivo del tema che si vuole tentare di analizzare attraverso questa dissertazione, ovvero il rapporto dell’uomo con l’ambiente e l’emergente crisi ambientale. Le pagine finali dell’opera di Svevo, infatti, si sono prestate e si prestano tutt’oggi a nuove indagini critiche che vanno sotto la denominazione di ecolinguistica e di ecocritica, la cui metodologia sorta negli Stati Uniti in anni recenti, si propone di studiare, interdisciplinariamente, un testo letterario da un punto di vista ambientale.

L’ecocritica e l’ecolinguistica sono due branche di studi nate tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Non a caso, lo sviluppo di queste due discipline avviene in un momento in cui si stava già profilando la crisi ecologica e in cui gli studiosi cominciavano a prendere atto dei cambiamenti in atto. La domanda dalla quale si è partiti è stata: quali sono gli strumenti che può mettere a disposizione la cultura per contrastare la crisi ecologica e climatica in atto?

Nello specifico, l’ecocritica tenta di coinvolgere attivamente la letteratura, proponendo la lettura di opere quale veicolo di educazione e sviluppo di una critica militante. La lettura diventa così uno strumento atto a sensibilizzare l’uomo anche in materia di cambiamenti nella società contemporanea. Gli studiosi di ecologia letteraria, peraltro, non si limitano a studiare testi per definire come essi rappresentino la natura, i rapporti tra esseri umani e ambiente, ma cercano di sollecitare una presa di coscienza che induca al cambiamento rispetto alle questioni ecologiche.

L’ecolinguistica, invece, esplora il ruolo del linguaggio nelle interazioni che sostengono la vita degli esseri umani, delle altre specie e dell’ambiente fisico. Tale disciplina si pone come obiettivo quello di mettere l’individuo nella condizione di riconoscere e di resistere alle narrazioni che danneggiano il mondo e, per contro, di inventarne nuove ed alternative. L’ecologia linguistica, analizzando le narrazioni da un punto di vista ecologico, si pone un fine non solo teorico. Infatti, si tratta di comprendere in che modo una determinata cultura induce a pensare al rapporto uomo – ambiente e, di conseguenza, ad agire; agire non solo nel senso più stretto di tale parola, ma inteso anche come interazione linguistica che non solo dice qualcosa ma fa e produce degli effetti nella realtà.

In questa prospettiva, il professore e studioso Arran Stibbe nel suo manuale, Ecolinguistics: Language, ecology, and the stories we live by, New York 2015, ha evidenziato come alcune parole chiave hanno segnato il rapporto dell’uomo con l’ambiente. È il caso di parole come prosperità, che promuove l’arricchimento come acquisizione di beni e denaro; o di sicurezza, che ha contribuito allo sviluppo di relazioni di dominio e di strutture violente al loro servizio. Questi sono solo due esempi di un mondo di parole che hanno contribuito a promuovere, da sempre o quasi, la centralità dell’uomo e il suo assoluto dominio sulle altre specie. L’analisi e la comprensione delle parole comuni più utilizzate, secondo Stibbe, permette di rivelare quali ideologie sono presenti dietro alle nostre narrazioni, quanto queste influenzano la nostra visione della realtà e, soprattutto, quanto possono rivelarsi distruttive da un punto di vista ecologico.[3]

Ad oggi, bisogna evidenziare la scarsa attenzione riservata a questi ambiti di ricerca, tanto l’ecocritica quanto l’ecolinguistica. La lotta contro la crisi ambientale si ritiene debba essere affrontata, piuttosto e in primis, con iniziative ed interventi in campo economico, scientifico e tecnologico. Di sicuro, le misure per tutelare l’ambiente e per modificare il rapporto dell’uomo con esso, devono essere prese in una prospettiva globale, quindi attraverso azioni che coinvolgono ogni settore della società; tuttavia, il problema del linguaggio esiste, ha un’importanza fondamentale, ma non viene preso ancora abbastanza in considerazione. Non si è del tutto consapevoli che il linguaggio non è solo rappresentazione di una realtà, ma contribuisce a costruirla e a determinarne le caratteristiche. Ecco perché studiare quella “sindrome di caratteristiche grammaticali” sarebbe molto importante per liberare l’individuo da meccanismi culturali inconsci che influenzano le scelte, anche in campo ambientale.[4]

Arran Stibbe, nel manuale sopra citato, parla di analisi critica del discorso. Il linguaggio non rispecchia la realtà, ma contribuisce in larga parte a crearla, o quanto meno a determinarla. Questo vale anche per i discorsi relativi a questioni ambientali. Sottoporre tali discorsi all’analisi critica significa poter svelare i valori e le visioni della vita che influenzano le narrazioni in questo ambito e che contribuiscono a formare la cosiddetta opinione pubblica. Allo stesso tempo, in ambito filosofico, John L. Austin, sostiene che il linguaggio non serve solo per descrivere il mondo, anche se questa è una sua encomiabile caratteristica, ma serve anche per agire, per fare cose con le parole.[5] Le parole hanno un’importanza ed un peso enorme in ogni ambito, nel privato come nel pubblico, nelle relazioni interpersonali come nel rapporto Stato – cittadino. Il linguaggio può determinare cambiamenti importanti e radicali sulla realtà; questo può accadere, e di fatto accade, nella società, nell’economia, nella politica. Allora perché le parole e il linguaggio, ciò che viene narrato e detto, non dovrebbero avere lo stesso peso ed importanza anche per ciò che concerne la natura e il rapporto dell’uomo con l’ambiente?

La crisi climatica e ambientale è sempre più attuale, ma ha radici profonde. Il 22 aprile 2020 è stato il cinquantesimo anniversario della “Giornata della Terra”, una ricorrenza internazionale sulla sostenibilità e sulla salvaguardia dell’ambiente. Con questa giornata si vogliono ricordare i disastri ambientali avvenuti negli ultimi decenni e la necessità di attuare una rivoluzione ecologica per salvare il nostro pianeta da drammatiche conseguenze. L’idea americana è stata promossa da un senatore democratico del Wisconsin, Gaylord Nelson. Quest’ultimo, già nel 1969, affermava: «È l’economia che si deve adeguare alla biodiversità, non il contrario». Di crisi ambientale si discute quindi da decenni e, attraverso fenomeni sempre più estremi, è sempre più un’emergenza che richiede misure e azioni drastiche per affrontarla. Necessari sono reali interventi per la transizione ecologica, interventi politici, economici e sociali. Sempre più determinanti saranno una vera responsabilità collettiva e, di pari passo, una responsabilità del singolo individuo e il suo rapporto con l’ambiente. Allo stesso modo, però, al fianco dell’agire devono e dovranno esserci parole.

Le parole cambiano al mutare del mondo in cui viviamo. La nostra vita è influenzata da ciò che diciamo. «Chi parla male, pensa male», affermava Ludwig Wittgenstein. La crisi ambientale richiede anche un cambiamento lessicale per riflettere più accuratamente sulla natura di questa crisi.

Se il disagio psichico e relazionale del protagonista del capolavoro di Svevo esprime anche la nevrosi di una cultura e di una civiltà, e non solo dell’individuo, occorre indagare quale sia il palcoscenico in cui tale crisi si esplica, l’habitat che concausa e alimenta il malessere dell’uomo moderno. È opinione sempre più diffusa che occorra vedere nello spazio della città, e nella relazione che qui si esplica tra uomo e ambiente, il perimetro di indagine per comprendere le sfide epocali che si hanno di fronte, per rivedere completamente un sistema economico, sociale, culturale e relazionale non sostenibile e profondamente nocivo. 

La città è il luogo essenziale dei processi di trasformazione. Le grandi trasformazioni e i grandi processi si materializzano e operano prima di tutto sul piano locale, scontrandosi con i problemi reali, ed è qui che i grandi mutamenti si notano per primi. È importante, però, capire quali sono i cambiamenti globali in atto, saperli decodificare ed essere in grado di gestirli; se questo non viene fatto adeguatamente, ecco che le risposte, ossia le politiche pubbliche, non vanno nella direzione di una maggiore vivibilità della città per i cittadini, ma anzi provocano sradicamento e alienazione degli stessi dai territori, rendendoli talvolta dei non-luoghi, degli spazi non vissuti dalla cittadinanza.

Da anni ormai, il processo di de-industrializzazione e la globalizzazione hanno stravolto la morfologia sociale delle città; di fronte a questo destino comune, ciascuna ha reagito diversamente, chi cercando di contrastarlo, chi lasciandosi travolgere ed entrando in un lungo declino.

La crisi dell’urbano ha molte concause; una di queste è rappresentata dal passaggio, già intuito dal geografo britannico David Harvey, da un modello di città manageriale ad un modello di città imprenditoriale, dove cambiano radicalmente le politiche pubbliche: l’obiettivo non consta più nel costruire una serie di servizi tali da aumentare il benessere dei cittadini, ma nel costruire un sistema che sia in grado di attrarre investimenti e occupazione; questa sembra essere l’unica chiave per sopravvivere nei circuiti della società globale (Finocchiaro). La città diventa, quindi, diseguale non solo al suo interno e tra i suoi stessi cittadini, ma diventa fonte di disparità tra chi la abita e chi ne è solamente utilizzatore e consumatore; sono i city users (Martinotti), coloro che vivono attraverso la mobilità, turistica o lavorativa.

Entra, allora, in gioco anche la mobilità come terreno di conflitto: da una parte tra persone, dall’altra tra cittadini e amministrazione, colpevole di modificare i servizi verso una popolazione che non vive e non abita la città, in funzione dei flussi economico-finanziari e turistici. I centri cittadini si assomigliano sempre di più, omologandosi verso quella che Bryman (The Disneyization of Society, 2004) ha definito la disneyzzazione, dove tutto è finto e funziona, in apparenza, perfettamente. Dietro la celebrazione della libertà di movimento, della mobilità, del rapido accesso ad ogni cosa soprattutto tramite la rete, quella contemporanea è una società che crea ancora più diseguaglianze, con forme ancor più radicali; la povertà non è solo economica ma anche culturale, di relazioni sempre più labili e precarie. Le nuove diseguaglianze hanno molto a che vedere con questa idea di città, una città che con la scusa di diventare più appetibile all’esterno, diventa sempre più escludente; una città per progetti, che va avanti senza un pensiero e senza un piano di futuro coerente, ma solamente per occasioni e per stimoli esterni.

La città cambia quando la società cambia nel suo insieme, scriveva il filosofo francese Henri Lefebvre nel 1968 in Il diritto alla città. Ecco perché lavorare sulle città è una sfida che implica delle responsabilità, collettive e individuali. Di fronte a queste dinamiche, per resistere e reagire, si può ritornare a un concetto teorizzato già nel 1967 da Lefebvre, il diritto alla città. Harvey nel 2012 (Città ribelli) attualizza tale concetto e lo definisce come un diritto a reinventare la città secondo le esigenze dei suoi cittadini, come un diritto collettivo, e non individuale, di accesso ad essa, a ricostruirla; di conseguenza, sostiene, ricostruiamo anche noi stessi, rendendo l’urbano adatto alla creazione di rapporti sociali. Il diritto alla città, come un qualcosa di ampio e collettivo, porta con sé altri diritti: quello alla partecipazione, all’appropriazione, all’abitazione, al gioco e alle opportunità.

Il tema della sostenibilità in città, della lotta alle crisi climatiche e ambientali, può avvenire tramite molteplici canali: vi è la questione del trasporto pubblico, del verde urbano, dei rifiuti, non ultima la questione della riconversione di spazi in luoghi vivibili per i cittadini. Sì, perché la qualità della vita è un fattore fondamentale e si ricollega al tema delle responsabilità: gli stili di vita sono importanti e fanno parte di una responsabilità nostra, sia del singolo sia della collettività, ma molto dipendono dalla realizzazione di un’idea di città differente. Il sociologo statunitense Robert Park, nel suo libro On social control and collective behaviour, scrive:

“La città è il tentativo più coerente e nel complesso più riuscito da parte dell’uomo di plasmare il mondo in cui vive in funzione dei propri desideri. E tuttavia, se da una parte la città è il mondo che l’uomo ha creato, dall’altra è anche il mondo in cui, da quel momento in poi, è stato condannato a vivere. Così, indirettamente e senza rendersi pienamente conto della natura del suo intervento, l’uomo costruendo la città ha costruito sé stesso.”[6]

Per tornare al concetto di disneyzzazione, rispondere alla crisi anche ambientale vuol dire ad esempio contrastare la sempre maggiore crescita di questo fenomeno in città come Venezia e Firenze, i cui centri storici sono votati quasi esclusivamente al turismo. Firenze rappresenta un caso limite: negli ultimi quindici anni il suo centro storico è passato dai 100mila residenti ai meno di 20mila del 2018. Come riportato dal sito Inside Airbnb, un portale indipendente fondato nel 2014 dal giornalista Murray Cox che contiene i dati degli annunci e la loro mappatura in molte città del mondo, le case in affitto sulla piattaforma Airbnb sono 11.262. «Incrociando i dati di Airbnb e quelli Istat, è emerso che nel centro storico di Firenze il 25% dell’intero stock immobiliare residenziale è attualmente sulla piattaforma».[7] Venezia è un ulteriore caso limite, con 5.625 appartamenti in affitto (l’81,6% del totale) destinati ad uso turistico sul solo sito Airbnb (il multihost, colui che possiede più di un annuncio, raggiunge qui il picco del 68,4%[8]). Venezia è una città che dipende in gran parte dal turismo, non solo per la sua conformazione geografica di piccola e attraente isola, ma anche per le scelte politiche che nel tempo si sono susseguite; un esempio è il lungo e mai risolto problema delle grandi navi che passano nella laguna e attraversano il canale della Giudecca, per poi far sbarcare i passeggeri al porto. Nel 2018 sono state 594 le navi da crociera arrivate in città, poco meno di due al giorno, causando un enorme inquinamento ambientale e, a volte, anche incidenti. Un progetto di città in cui ricade anche Roma, secondo Sarah Gainsforth, autrice dei libri Airbnb città merce. Storie di resistenza alla gentrificazione digitale (DeriveApprodi, 2019) e Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile? (Eris, 2020), fondato sullo sfruttamento del desiderio, «sulla produzione e distribuzione di beni immateriali e voluttuari».[9] 

La relazione tra uomo e ambiente va evidentemente riformulata a partire anche dagli spazi urbani, da quei luoghi che si decide di restituire e riplasmare, seguendo il ragionamento di Harvey, a misura di cittadino. Barcellona è un valido esempio di città che da anni ci sta provando; già nel 1987 l’urbanista catalano Salvador Rueda aveva concepito un progetto visionario, la superilla (in catalano “superblocco”); un’idea rivoluzionaria di concezione della città, dove determinati quartieri sarebbero stati rimodellati in blocchi di nove isolati, al cui interno la circolazione è vietata alle auto delle persone non residenti e, in ogni caso, con un limite di velocità di 10 km/h e permesso solo a pedoni e ciclisti; mentre, lungo le vie esterne del blocco, la circolazione consentita al traffico pubblico e privato con limite di 50 km/h. In questo modo, il 70% dello spazio sarebbe liberato e donato alla vita sociale. Nel 2015 viene inserito nel Plan de Movilidad Urbana Sostenibile (PMUS) del Comune e, a fine 2020, viene inaugurato il progetto Superilla Barcelona, un salto di scala notevole che, da progetti singoli e di quartiere, fa di tutta la città una superilla. Come sostiene proprio Rueda:

“La città inizia a essere tale quando c’è spazio pubblico, ossia è la “casa di tutti”, il luogo di incontro per lo scambio, l’intrattenimento e la permanenza, la cultura, l’espressione e la democrazia e, anche, lo spostamento. Lo spazio pubblico ci rende cittadini e lo siamo quando abbiamo la possibilità di occuparlo per l’esercizio di tutti i diritti citati. Oggi, l’impossibilità di esaudire i diritti di cittadini ci relega ad essere pedoni che […] non smette di essere una modalità di trasporto.”[10]

La città diventa un luogo più sano e sostenibile dove vivere, con la creazione di strade senza traffico, di nuove piazze e la piantagione di spazi verdi. Proprio su quest’ultimo punto, facendo un’analisi sulla città di Genova, si può notare come essa ne sia carente. Secondo Ecosistema Urbano, il rapporto 2020 di Legambiente sulle performance ambientali delle città, Genova si trova al quart’ultimo posto per verde fruibile in area urbana con un rapporto di 6,3 mq per abitante11. Un numero davvero esiguo, unito ad altri dati: il numero di vittime della strada (8,3 ogni 1000 abitanti, seconda tasso più alto d’Italia), al netto del più alto tasso di numero di viaggi per abitante all’anno su trasporto pubblico, dietro solo a Milano, e, ancora, una esigua estensione di superficie stradale pedonalizzata se confrontata con quelle di altre città simile per dimensioni e popolazione. 

Questi numeri parlano e raccontano una Genova non a misura di cittadino; eppure, basterebbe guardare ai validi esempi di città simili a Genova, sia per il loro passato industriale sia per la loro grandezza e densità abitativa, che sono riuscite a convertire la loro storia industriale in un’opportunità, diventando più vivibili e attrattive, segno che il destino di una città non è solo governato da fattori più grandi, ma lo si può gestire: mentre una città si è abbandonata al declino, altre si sono riconvertite. Lipsia ne è un esempio; città della Sassonia che conta poco meno di 600.000 abitanti come Genova, grazie ad una politica del riuso degli spazi abbandonati e delle case sfitte, è riuscita a invertire il trend demografico che negli anni Novanta era sceso a 440.000 abitanti. Parte del recupero di questi edifici non ristrutturati e sfitti (che ammontavano a circa 35.000 case) sono stati rimessi in circolo attraverso un piano di riqualificazione urbana definito dal comune con associazioni, cooperative, gruppi di cittadini. Essen è un secondo esempio: ex città industriale e sede della ThyssenKrupp, è riuscita a trasformare i gravi problemi di inquinamento e a diventare, nel 2017, la Capitale Green d’Europa. Oltre a creare 376 km di piste ciclabili, sono stati impiantati 128.000 m𝑞2 di asfalto a basso impatto sonoro, integrati 3.100 ettari di spazi verdi (il 95% della popolazione vive a non più di 300 metri da un parco o da un giardino) ed è stata riconvertita l’ex miniera di carbone Zollverein, simbolo della città, in un parco e museo. 

Cos’ha frenato e cosa frena Genova dal direzionare le proprie energie, risorse e parole verso una riconversione sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale? Quali gli ostacoli che impediscono di non subire, ma di regolare gli effetti della globalizzazione, della de-industrializzazione, del cambiamento climatico? Genova è una città che sa bene quanto la quasi totale impermeabilizzazione del suolo, la cementificazione selvaggia, l’abbandono dell’entroterra, uniti a fenomeni climatici sempre più intensi, possano sgretolare interi quartieri.

Genova, sotto diversi aspetti, sembra rimanere ancorata ad un passato industriale che non ha avuto il coraggio di riconvertire e adeguare. Le attività portuali risultano di gran lunga le principali fonti emissive di inquinamento dell’aria sui totali registrati in città: ogni anno dalle banchine del porto, mai completamente elettrificate, arrivano dieci volte gli ossidi di azoto del traffico urbano e ventisette volte le polveri sottili (rapporto Apice 2013); i quartieri popolari, dove sono concentrate a fianco delle abitazioni fabbriche altamente inquinanti e discariche, continuano a pagare tutte le servitù ambientali della città..

Genova, d’altro canto, è una città che come altre città italiane, se non più di altre, dovrebbe essere proiettata alla sua sostenibilità futura e avere come priorità quella di essere attrattiva per i giovani, per studiare, fare famiglia, lavorare e vivere, ma i numeri prospettano tutt’altro scenario. Passata da 848mila abitanti nel 1965 a circa 580mila nel 2020, è una città lasciata da circa 5mila giovani l’anno, provenienti principalmente dai quartieri benestanti. Negli ultimi quarant’anni Genova, nel complesso, ha perso 185mila under35. Il dato dell’emigrazione, combinato con la denatalità e la mancata venuta di giovani da altre parti d’Italia e del mondo, racconta di un progressivo impoverimento generazionale: i giovani che possono permetterselo scappano altrove, mentre gli altri rimangono intrappolati in contesti privi di opportunità. Dall’altro lato, a governare sembrano rimanere coloro che intendono la politica principalmente come strumento per realizzare i propri interessi, con uno sguardo corto, senza generosità e senza progettualità. Emerge una politica che sa vivere il tempo presente e si mangia il futuro in un egoismo bulimico collettivo che lascia solo macerie alle nuove generazioni, a cui si consegna un mondo più iniquo, più inquinato e più invivibile. Ed è qui che si sente il bisogno di una politica diversa, una politica che sogni, osi e crei futuro. Una politica generativa che sappia attivare il cambiamento e incidere sul corso degli eventi con il coinvolgimento delle comunità e che sia in grado di fare scelte radicali sul tema ambientale e sociale, superando il riduzionismo della persona visto come Homo Economicus, quello che il Nobel Amartya Sen definisce “l’idiota sociale”, ovvero paralizzato dalla diffidenza e dal cinismo,  incapace di attivare i benefici della cooperazione. Forse, è davvero necessaria una nuova politica, capace di superare il riduzionismo sull’impresa, vista come una mera “massimizzatrice” di profitto a scapito dell’ambiente, delle comunità locali e dei lavoratori.

Alle responsabilità di una classe dirigente, figlia di un modello economico capitalistico non sostenibile, si affiancano quelle individuali, intelligentemente dirottate. Di fronte alla crisi come minaccia o opportunità, il coro mediatico, se e quando ne parla, come lo fa? In tal senso, riprendendo le parole di Guglielmo Minervini (2016), un ex governatore illuminato:

“Il pessimismo, alimentato spesso da generose dosi di nostalgia per il passato, è il vestito nuovo del conformismo italico e quello a cui assistiamo è quanto il rischio dell’apocalisse, quando evocato, sia funzionale a radicare il senso dell’ineluttabilità e mai per maturare una nuova coscienza del limite in grado di attivare idee ed energie, pensieri e sperimentazioni. Il rifiuto del cambiamento climatico fa parte di noi: lo consideriamo per una frazione di secondo per poi distogliere subito lo sguardo”.

A spiegare ulteriormente bene quest’ultimo passaggio, vi è una giornalista professionista che con la sua attività di inchiesta porta avanti da decenni battaglie per un cambiamento economico e sociale che metta al primo posto la tutela ambientale e ripensi il nostro modello di vita: Naomi Klein. Nel suo libro Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile (2015), la Klein prova a spiegare come mai l’uomo faccia così fatica a prendere atto della crisi ambientale:

Con il cambiamento climatico è così: riusciamo a stento a trattenerlo a mente. I motivi per cui siamo soggetti a questa sorta di amnesia ecologica intermittente sono del tutto razionali: neghiamo la realtà della crisi in tutta la sua forza perché temiamo che finirebbe per cambiare tutto. Ed è proprio così. Come sappiamo, continuando a permettere che le emissioni aumentino di anno in anno, il cambiamento climatico trasformerà tutto il nostro mondo: è probabile che diverse grandi città finiscano sommerse, che antiche culture vengano ingoiate dai mari, che i nostri figli debbano passare gran parte delle loro vite a fuggire e passare da violente tempeste a siccità estreme. E non occorre fare nulla di particolare affinché si concretizzi un futuro simile: ci basta proseguire sulla strada che stiamo percorrendo ora, che sia quella di riproporre le nostre speranze in qualche prodigio tecnologico, di preoccuparci solo del nostro orticello, o di dirci che siamo troppo impegnati per pensare a queste cose.

 Secondo Klein, tanto la tendenza ad ignorare il problema quanto quella di concentrarsi solamente sulle proprie scelte individuali sono fallimentari. In entrambi i casi, si accantona l’idea che sia possibile cambiare quei sistemi che stanno rendendo inevitabile la crisi. Ovviamente, prevenire il tetro futuro prospettato da qualsiasi previsione scientifica sul surriscaldamento globale, implicherà anche il cambiamento dei propri stili di vita, all’interno di una trasformazione economica e sociale generale. La buona notizia, dice Klein, è che molti di questi cambiamenti potrebbero essere entusiasmanti:

“Potrebbe essere il miglior argomento mai avuto dai progressisti per chiedere la ricostruzione e il rilancio delle economie locali, per bonificare le nostre democrazie dall’influenza corrosiva delle corporation; per bloccare sul nascere nuovi accordi di libero scambio che risultino dannosi e riscrivere quelli vecchi; per investire nelle infrastrutture pubbliche che oggi languono nell’assenza di fondi, come i trasporti di massa e l’edilizia popolare; per riprenderci la proprietà di servizi essenziali come l’energia e l’acqua; per trasformare il nostro sistema agricolo malato in qualcosa di molto più sano; per aprire i confini ai migranti in fuga a causa dei cambiamenti climatici; per rispettare i diritti degli indigeni sulle loro terre. Tutto questo ci aiuterebbe a porre fine ai grotteschi livelli di diseguaglianza che riscontriamo fra le nostre nazioni e all’interno di esse.

L’urgenza della crisi ambientale potrebbe essere in grado di unire grandi questioni solo apparentemente sconnesse, in unico discorso coerente su come proteggere l’umanità da un sistema economico ferocemente ingiusto quanto da un sistema climatico destabilizzato”.

Quello che suggerisce la Klein, da sempre convinta che la critica al sistema debba essere accompagnata da proposte alternative, è senza dubbio la strada più vitale ed entusiasmante che abbiamo di fronte e non è un caso che a tracciarla sia una donna: infatti, sono spesso donne le attiviste e le governatrici che stanno animando le grandi battaglie ambientaliste nel mondo, dimostrando plasticamente e fattivamente quanto sia importante non relegare la cura e la generatività alla dimensione intimistica e domestica, ma che occorra che essa diventi pratica e priorità politica. Peculiarità da sempre attribuite, in maniera spesso stereotipata, al femminile devono diventare proprie del genere umano: relazione, partecipazione, empatia, generatività, cura degli altri e dell’ambiente in cui viviamo. Su questi temi, le giovani generazioni, esodate dalla politica tradizionale, hanno riempito piazze e strade di tutto il mondo occidentale in contrapposizione ad un mondo di adulti che si è abbandonato troppo spesso alla peggiore rassegnazione.

Se è evidente che i leader mondiali non hanno mai concesso al cambiamento climatico lo stesso trattamento riservato alle crisi economiche, benché il rischio da esso comportato sia infinitamente superiore, occorre lavorare per il consolidamento di un cambiamento culturale nelle comunità. Scrive sempre la Klein:

“Per le elité britanniche e americane, la schiavitù non fu una crisi finché l’abolizionismo non la rese tale. La discriminazione razziale non fu una crisi fino a quando non fu resa tale dal movimento per i diritti civili e la discriminazione sessuale non una crisi fino all’arrivo del femminismo. Analogamente se un numero sufficiente di persone smettesse di voltarsi dall’altra parte e decidesse che il cambiamento climatico è una crisi degna di risposta a livello di un piano Marshall, esso diventerebbe davvero una crisi e la classe politica dovrebbe rispondere in modo adeguato, sia rendendo disponibile le risorse per affrontarla, sia piegando le regole del mercato che si sono dimostrando così flessibili quando in gioco c’erano gli interessi delle caste”.

Occorre, quindi, orientare il dibattito pubblico sui problemi del nostro tempo e non sull’individuazione di capri espiatori e false questioni, costruiti ad hoc per distogliere l’attenzione dei cittadini. Bisogna richiedere e costruire pensieri proiettati nel lungo periodo, che traghettino i prossimi trent’anni. In definitiva, e per tornare all’inizio di questo articolo, sono necessarie nuove parole e l’abbandonarne di vecchie parole, quali sicurezza, progresso e, addirittura, la tanto inflazionata resilienza.

La filosofa Maura Gancitano, a tal proposito, afferma:

“Ci sono espressioni che entrano nel linguaggio comune e che iniziamo a usare senza domandarci quale sia il loro reale significato e quanto, di conseguenza, ci influenzino. Si tratta, infatti, di un termine mutuato inizialmente dall’ingegneria che ha attraversato la biologia, l’informatica, l’ecologia, la psicologia e che negli ultimi anni è finito con il descrivere la capacità di resistere agli urti, di tornare a se stessi dopo aver vissuto un trauma o una deformazione. Come i metalli che subiscono urti e manipolazioni ma poi tornano uguali a come erano prima, così siamo invitati a fare noi. […] Essere resilienti significa, quindi, aspettare passivamente che le cose spiacevoli passino e che i tempi ridiventino floridi. Rappresenta il desiderio che tutto ritorni com’era nel passato e non offre azioni da compiere per cambiare le cose nel presente. Nella resilienza non c’è l’idea di agire attivamente per affermare qualcosa in cui si crede, non c’è visione del futuro. Bisogna godersi edonisticamente la vita, subirne gli impatti momentanei e tornare poi identici a prima. […] Se la resilienza è desiderio di mantenere lo status quo, la resistenza è correre il rischio della trasformazione. In questo senso, il filosofo Nassim Nicholas Taleb propone l’espressione “antifragile” in riferimento a tutto ciò che trae vantaggio dagli scossoni, che prospera e cresce quando è esposto all’avventura, al rischio e all’incertezza. L’antifragile migliora di fronte alle difficoltà, non si limita a riprendere la forma precedente. L’antifragilità implica il misurarsi con l’ignoto, affrontare l’incertezza, spingersi più in là”.

BIBLIOGRAFIA

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NOTE

[1]  Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Giunti Editore, Milano 2017, pp. 405-406.

[2]  Ibidem, p. 23.

[3] www.ermetespeacebook.blog, Ecolinguistica: un campo inesplorato da coltivare, 30 dicembre 2020.

[4] Ibidem.

[5] Filippo Domaneschi, Carlo Penco, Come non detto. Usi e abusi dei sottintesi, Laterza Editori, Bari 2016,  p. 98.

[6] R. Park, On Social Control and Collective Behaviour, Chicago University Press, Chicago 1967, p. 3. 

[7] Stefano Galeotti, Airbnb, da Bologna a Napoli gli affitti brevi “sfrattano” famiglie e studenti. “Il padrone di casa triplica il canone, andiamo in periferia”, Il Fatto quotidiano, 21 febbraio 2020.

[8] www.insideairbnb.com.

[9] Francesco Erbani, Come riportare gli abitanti nelle città svuotate di turisti, Internazionale, 14 maggio 2020.

[10] S. Rueda, La Supermanzana. Nueva célula urbana para la construcción de un nuevo modelo funcional y urbanistico de Barcelona, Barcelona, noviembre de 2016, p. 29 [trad. mia]. 

[11] Legambiente (a cura di Mirco Laurenti, Lorenzo Bono), Ecosistema urbano: rapporto sulle performance ambientali delle città 2020, Roma, p. 192.

*Valentina Trinchero è laureata in Società e Sviluppo Locale presso l’Università di Alessandria e in Informazione ed Editoria presso l’Università di Genova.

*Marianna Pederzolli è laureata in Psicologia Clinica e di Comunità, operatrice sociale, si sta abilitando all’insegnamento del Sostegno e delle materie di Scienze Umane e Filosofia nelle scuole superiori.

*Pietro Ciuffardi è educatore laureato in Scienze Internazionali e della Cooperazione.

Pietro Ciuffardi, Valentina Trinchero e Marianna Pederzolli sono attivisti dell’associazione culturale Genova che osa.

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