Corpi privati

di Sara Patrone *

Il lato “positivo” 

Oggi, ripensare alla pandemia – il modo un po’ confidenziale con cui abbiamo imparato a chiamare l’emergenza sanitaria globale di COVID-19 – mi risulta un esercizio dagli esiti sfocati e per nulla prevedibili. «Sembra di parlare di un’altra era», afferma una signora con cui ho uno scambio in un negozio di abbigliamento. E, mente sfodero un sorriso di circostanza, mi accorgo che in fondo lo penso anch’io, sebbene questa fase del Pandemicene sia cessata ufficialmente solo il 5 maggio 2023. «With great hope I declare COVID-19 over as a global health emergency», ha detto il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus soltanto una manciata di mesi fa. Note

Nota. Termine che designa il periodo successivo all’Antropocene, caratterizzato dal proliferare di pandemie ed emergenze sanitarie. L’era in cui non gli umani, ma i virus dettano le regole.

Nota. https://twitter.com/DrTedros/status/1654484522358939650, ultimo accesso 14 ottobre 2023.

Ma forse non è presto per parlare degli umani che siamo diventati, anche solo per un po’. 

Arrestati per truffa i copywriter degli slogan “andrà tutto bene”, “ne usciremo migliori”, “nulla sarà più come prima”, “insieme ce la faremo”, questo ha tutta l’aria di essere il tempo giusto per darsi alla ricerca di un senso umano in ciò che è avvenuto; per soffermarsi sul modo in cui quest’atmosfera traumatica, nel sopraffarci, ha ridefinito abitudini, socialità, lavoro, studio, mobilità; per perplimerci, una volta tanto, circa le nostre categorie culturali di forza e di vulnerabilità; per non tornare allo status quo ante. O almeno, non subito. 

Cose che noi umani… 

Le code ai supermercati, le penne lisce, il Papa da solo in Piazza San Pietro, i DPCM. E poi le macchine per il pane, la DAD, “scendere il cane”, le canzoni dai balconi, le serie tv. Ma anche i dispenser di gel disinfettante, le videochiamate, Clubhouse, i copriscarpe, le strette di mano che si trasformano in pugni e gomitate in un contatto fisico diffidente in cui, mentre si schiva il contagio, si è inconsciamente un po’ meno certi della benevolenza altrui. I webinar, le tinte fai-da-te, i guanti, le quarantene, gli assembramenti, la ginnastica in salotto, i look da smart working, almeno dalla vita in su. Il fuorionda di Sergio Mattarella che si sistema i capelli con la mano e dà ragione del suo ciuffo indomabile con un inatteso: <<Eh Giovanni, non vado dal barbiere neanche io>>. Nota

Nota. https://www.youtube.com/watch?v=uHMaE1Lm6fc, ultimo accesso 14 ottobre 2023.

Queste immagini di un tempo inquieto, a metà fra Squid Game e uno strano esperimento sociale, non sono solo i fotogrammi di una crisi, ma pure istantanee di corpi privati, isolati fra cinte murarie domestiche e lasciati viversi in solitudine, esclusi dalla scena pubblica. 

Corpi invisibili eppure protagonisti assoluti, segregati e minacciosi, traumatizzati tuttavia impossibilitati ad affiliarsi per provare a riparare a qualcuno degli effetti disfunzionali innescati dalla pandemia. Corpi che, mentre tossiscono, starnutiscono e non sentono i sapori, abbandonano ogni legame semantico con la base sicura diventando quanto più simili a isole di Alcatraz pericolanti. Corpi paradossali che, mentre si rivestono di strati protettivi, mettono a nudo tutta la loro deplorevole fragilità portando a un nuovo livello di insopportabilità il concetto di withness of the body del filosofo Alfred North Whitehead: 

<<L’essere-con del corpo”: il corpo non in quanto “me”, ma in quanto “con” me è al tempo stesso il corpo che è “con me” inevitabilmente. Come un fratello siamese, né me né separabile da me>>. 

Durante l’emergenza sanitaria, abbiamo assistito all’eclissi del corpo in qualità di (già indigesto) posto del sé e giudicato le nostre carni materia definitivamente invisa, desiderandoci fuori da noi stessi, pronti a varcare, almeno con la fantasia, i confini del fisico così da ovviare sia al problema della vicinanza, sia a quello della lontananza. Nella pratica, lo abbiamo fatto con Google Meet, Skype, Zoom, FaceTime, WhatsApp in un turbinio di videochiamate, webinar, conferenze, didattiche a distanza che, nell’offrirci una soluzione sicura per stare insieme, hanno contribuito a tracciare nuove mappe del corpo come modo della relazione, in un esito ambivalente. 

Deprivati del valore relazionale della prossimità, del contatto, defraudati dei colori e delle forme della sensorialità, spettatori della diluizione dell’Altro, ci siamo dovuti scontrare con David Le Breton (2007) quando, in Antropologia del corpo e modernità, scrive che: <<Non esiste mondo se non di carne>> e descrive il nostro legame col corpo come qualcosa di più di una semplice concomitanza: è per noi la dimensione costitutiva, la modalità del nostro apparire, la realizzazione stessa della nostra esistenza. 

Faccia a faccia con la faccia 

Più che il corpo, la faccia. Più che la faccia, gli occhi. L’impossibilità di incontrarsi, così come l’uso quotidiano di software per comunicazioni da remoto, in tempo di pandemia hanno contribuito a disegnare specifiche geografie corporee. 

Orde di mezzibusti in modalità “gallery view” su interfacce non di rado caratterizzate da connessioni scadenti e audio in differita sono state la degna continuazione dei fugaci incontri reali con guanti, mascherine e occhiali appannati. Il corpo, luogo dell’incontro impossibile, ridotto a piccolo riquadro su uno schermo, è stato portato al mutismo e ha visto affievolirsi la possibilità stessa di manifestare e cogliere sospiri, pause, posture, smorfie, tamburellare di dita e tutti quei segnali non verbali dei quali ci serviamo per dipingere un quadro complessivo di cosa l’altro voglia dirci e si aspetti da noi. Che ne abbia guadagnato il viso, calamita di un contatto visivo prolungato e iper-focalizzato a caccia di microespressioni facciali (al netto di qualche paresi telematica da connessione lenta) è una possibilità. Quel che è certo è che le regole della prossemica teorizzate dall’antropologo americano Edward T. Hall (1996) sono tutte saltate: mentre tenevamo a distanza amici e parenti in nome di una specie di proporzionalità inversa secondo cui “più mi sta a cuore, meno gli sto vicino”, lasciavamo entrare nelle nostre case i volti allargati in 4K di capufficio, docenti, colleghi, terapeuti che non avevano mai varcato la soglia del nostro appartamento, offrendo loro non un caffè, ma direttamente un affaccio sulla nostra carta da parati, sulle foto appese, sui nostri coinquilini, sul nostro privato e ricevendo in cambio un punto di vista paritetico sul loro mondo, in modo del tutto inedito. 

Le interazioni in video-chat sono state quanto di più simile a un ripristino del corpo sociale, ma si è trattato di un corpo fatto a pezzi, smarrito nella sua interezza, che, proprio come nel XVI secolo, torna a far trionfare il “sopra” sul “sotto” e il “davanti” sul “dietro”, conferendo nuovamente al viso il titolo di unico depositario della comunicazione, dunque di unico destinatario delle attenzioni, secondo quella logica per cui ciò che agiamo sull’epidermide diventa componente decisiva delle nostre relazioni. 

Se trattare il corpo è un atto antropopoietico che ci umanizza oltre il mero dato biologico, durante il periodo di lockdown abbiamo processato culturalmente la nostra presenza fisica restringendo il campo di azione ai soli lotti carnei chiamati a far parte di quei brandelli di socialità. In pratica, pezzi di corpo per pezzi di socialità. Nota

Nota. Il concetto di “antropopoiesi” elaborato dall’antropologo Francesco Remotti e sta ad indicare i processi di costruzione dell’umano.

Il “sotto”, per inverso, si è ridotto a basamento da anonimizzare in pigiami, tute, bermuda e ciabatte; tagliato fuori dal campo visivo insieme a quei distretti fisici non direttamente chiamati a entrare in scena nel rettangolo di socialità concesso dalla webcam, non ha ricevuto trattamento preparatorio alla relazione. 

In quei casi in cui era delegato a sapienti tocchi professionali, il trattamento del volto è tornato nelle mani più prossime, le proprie, in un ricongiungimento goffo, intenso, inevitabile. La ripresa del corpo come di un luogo troppo naturale per poter essere abitato tale e quale, ma pure troppo ineludibile per essere abbandonato a se stesso, nell’avvicinarci allo specchio muniti di rasoi, pinzette e lozioni ci ha forse insegnato a chiederci come stiamo oltre il dato medico, in un ritorno a quelli che la filosofa ungherese Ágnes Heller  (2012) definiva “bisogni radicali”, attinenti alle sfere di convivialità, amicizia, amore e bellezza. Una sorta di quiet luxury che predilige il silenzio, il tempo a disposizione, la gratificazione, il gioco. I lunghi periodi trascorsi a casa, per alcuni di noi, hanno anche messo in pausa quell’ansia da immagine corporea innescata dall’interiorizzazione dello sguardo altrui, rendendo il nostro modo di guardare a noi stessi un po’ più indulgente verso peli, ricrescite e rotolini di grasso e trasformando i momenti passati in compagnia del corpo, prima intesi come spazi di all’allestimento estetico di sé, in tempo prezioso votato alla cura. 

Altre volte, il “faccia a faccia con la faccia” ha espresso tutto il suo carico di esperienza destabilizzante e insostenibile, in una sorta di fase dello specchio lacaniana non ancora superata che riafferma quanto il nostro rapporto col corpo sia irrisolto e antibanale. Note

Nota. Secondo Jacques Lacan, nel periodo di vita fra i sei e diciotto mesi, il bambino riconosce la propria immagine riflessa allo specchio dando forma a un io unitario ma alienato per via della specularità.

Nota. Un rapporto che l’antropologo David Le Breton definisce comunque ontologicamente problematico e mai del tutto disteso.

I tempi infiniti e gli spazi finiti ci hanno fatto riscoprire quanti significati si affastellano nel termine “cura”: mentre i media insistevano sul “to cure” nell’accezione di erogazione dell’attività sanitaria, di sommatoria di trattamenti e somministrazioni rivolti all’oggetto-paziente e sul corpo come insieme di sintomi da monitorare, ci è stato possibile sperimentare anche la cura del verbo inglese “to care”, quella che importa, riguarda, preoccupa e che si protende nell’ascolto di sé e degli altri. 

Oltre che curarci il corpo, è curarci del corpo che ci ha tenuti in vita: parafrasando Umberto Galimberti, se la salute consiste nel rapporto fra essere umano e mondo, quando si sta bene il corpo è ignorato, quando si teme di essere malati il corpo torna al centro, più che per la sua malattia, per timore della dissoluzione del legame corpo-mondo. Nota

Nota. https://www.youtube.com/watch?v=zQy_dpq3QCg, ultimo accesso 14 ottobre 2023.

E la pandemia, minacciando la dissoluzione di ogni legame, ci ha in realtà permesso di esperire una connessione planetaria fra ambiente, politica, economia, scelte individuali e collettive. Ha reso lampante l’insostenibilità del pensiero antropocentrico e maschilista che dipinge l’umano come un individuo indipendente, sovrano e come un io pensante il cui corpo è solo un gravame gerarchicamente inferiore. E ha anche riconfermato l’interdipendenza fra natura e cultura permettendoci, nel segreto dei nostri appartamenti, di diventare teatri e spettatori di come la natura gestisce il corpo quando i nostri interventi bonificatori arrivano tardi, arrivano “male” o non arrivano affatto. 

La materia del corpo (che lungi dall’essere un attributo della nostra preziosa interiorità è il nostro modo di stare al mondo) è la sostanza stessa del flusso di relazioni umane e non umane che intessiamo e la sua finitudine ontologica rende le cure dell’altro non solo possibili, ma necessarie. 

Dunque Socrate è mortale 

Uno dei ricordi più vividi che conservo dei miei anni universitari ha a che fare con il corso di logica e le proposizioni che a lezione impiegavamo per comprendere cosa fosse un sillogismo: “Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Dunque Socrate è mortale”. 

Il legame che unisce l’essere umani e l’essere destinati a morire, quella: <<Imminenza sovrastante […] incondizionata e insuperabile>> di cui parlava Heidegger in Essere e tempo tragicamente chiara agli antichi greci che pur disponendo di due termini per dire “umano” – le parole aner e anthropos – hanno quasi sempre preferito brotos e thnetos, traducibili come “mortale” (come a dire che noi Sapiens non possiamo che rispondere ai nostri perché tenendo gli occhi puntati sulla fine) mi hanno sempre incuriosita. Così come, forse per ragioni analoghe, mi hanno sempre eccitata le catastrofi e le atmosfere da fine del mondo. Nota.

Nota. https://www.youtube.com/watch?v=zQy_dpq3QCg, ultimo accesso 14 ottobre 2023.

Ma un’apocalisse da salotto, dove le segrete hanno il wi-fi, le catene sono giuridiche e i mostri hanno un corpo, il proprio, quello degli amici, dei familiari, dei vicini, dei passanti, è qualcosa a cui non eravamo preparati. La casa-corpo, “accessorio portatile di presenza” (Le Breton, 2007)  in tempo di pandemia è diventata un corpo in casa, monitorato, ritirato, esiliato, immobilizzato come si confà agli esplosivi e, una volta morto, trafugato in fretta e furia senza il conforto del contatto. Un corpo senza lutto. 

Grande assente della società occidentale, pornografica secondo la riflessione che ne fa l’antropologo Geoffrey Gorer (1955), la morte durante il periodo di COVID-19 è stata privata delle sue indispensabili ritualità funebri che da sempre accompagnano i dolenti come forme di elaborazione del lutto e di catarsi. Il corpo morto, negato alla vista dei suoi cari, è diventato pura assenza priva di storia, numero di un bollettino giornaliero; le narrazioni istituzionali, come epitaffi ridotti all’osso, non hanno saputo celebrare il corpo vivo né confezionare l’identità di quello defunto. 

Privati dell’accesso tattile, olfattivo, visivo al corpo morto, i vivi non hanno potuto presenziare alla cerimonia che, mentre sancisce lo strappo, crea lo spazio per la vivificazione dell’assenza e getta un ponte di corda fra chi resta e l’inesprimibile della morte. 

Forse il COVID-19 ci ha insegnato come vorremmo morire, quanto corpo c’è nel trapasso e che stare al cospetto dell’orribile del corpo morto è comunque meglio di non starci affatto, ma soprattutto ci ha ricordato che, proprio come Socrate, siamo mortali.

C’è dell’oro 

Il “ritorno alla normalità” non è auspicabile se scambia la pandemia per un tempo vano, se non si sforza di concepire la solitudine come una condizione abitabile, come lo spazio per una frequentazione inedita di sé; ma anche se dimentica di raccontare il fallimento del soggetto inteso come monade, se non propone una nuova concezione di comunità che abbracci tutto ciò che vive (e che muore), se non celebra il valore catartico della vicinanza. 

E non è auspicabile nemmeno se non si dà l’occasione di pensare, come scrive la poetessa Mariangela Gualtieri in Nove marzo duemilaventi, che “È portentoso quello che succede. E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano. Forse ci sono doni. Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo”. 

Il COVID-19 ha tolto ogni dubbio residuo sulla nostra vulnerabilità ricordandoci, come scrive Salvatore Veca: <<Quanto sia miope e filosoficamente ottuso sottovalutare l’importanza del nostro essere, in quanto esseri umani, corpi in carne e ossa, corpi e menti di animali umani esposti alla sorte e all’inaspettato. Noi non abbiamo corpi. Noi siamo corpi>>. 

Il COVID-19, dopo avercene privato, ci ha restituito il corpo.

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA

Bordo, S. (1997). Il peso del corpo. Feltrinelli Editore.

Gorer, G. (1955). The Pornography of Death, in “Encounter”. Vol 5 (4).

Hall, E. T. (1996). La dimensione nascosta. Bompiani Editore.

Heller, Á. (2012). Sociologia della vita quotidiana. PGreco Editore

Le Breton, D. (2007). Antropologia del corpo e modernità. Giuffrè Editore.

Remotti, F. (2000). Prima lezione di antropologia. Laterza Editore

SITOGRAFIA

Feltrinelli Editore. “Umberto Galimberti “Il corpo in Occidente”. YouTube, 31 gennaio 2013, durata 56:20. https://www.youtube.com/watch?v=zQy_dpq3QCg – ultima consultazione 14 ottobre 2023.

Gualtieri, M. (9 marzo 2020). Ci dovevamo fermare / Nove marzo duemilaventi. Doppiozero.com, https://www.doppiozero.com/nove-marzo-duemilaventi – ultima consultazione 14 ottobre 2023.

La Repubblica. “Il ciuffo fuori posto di Mattarella: “Giovanni, non vado dal barbiere nemmeno io”. YouTube, 28 marzo 2020, durata 1:00. https://www.youtube.com/watch?v=uHMaE1Lm6fc – ultima consultazione 14 ottobre 2023.

Veca, S. (30 aprile 2020). Riflettendo ai tempi del Coronavirus. Sei brevi riflessioni sulla pandemia. Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. https://fondazionefeltrinelli.it/riflettendo-ai-tempi-del-coronavirus-sei-brevi-riflessioni-sulla-pandemia/ – ultima consultazione 14 ottobre 2023.

* Sara Patrone è autrice del saggio “Il malinteso della bellezza. Per un’antropologia del corpo”.