Consenso e dissenso. Per una psicoanalisi dal volto umano

di Paolo Chiappero

“Non le lotte o le discussioni devono impaurire,
ma la concordia ignava e l’unanimità dei consensi.”
(Luigi Einaudi, “Corriere della Sera”, 22 agosto 1948)

Consenso, assenso, accordo, adesione, benestare e, all’estremo opposto: dissenso, disapprovazione, divergenza, disaccordo. La lingua italiana ci offre molti significanti che, con poche differenze, rientrano nella stessa area semantica: accordo o disaccordo, a loro volta inerenti idee, giudizi, sentimenti, valori, ecc… Nell’enciclopedia Treccani il consenso è presentato come “un principio costitutivo dell’ordine sociale” e “un fattore di equilibrio e coesione” rilevando la sua presenza “alle origini stesse della scienza sociologica”. E nella storia del movimento psicoanalitico?

Una sera dell’autunno 1940 a New York. Un gruppetto di uomini e donne, vestiti con sobria eleganza, si tiene per mano lungo la Quinta Strada e canta inni libertari. Il piccolo corteo sembra quasi marciare e s’intonano canzoni come “Addio Lugano bella”, che parla di emigranti politici, di fughe ed espulsioni. Una donna in particolare, in testa al corteo, canta appassionatamente. Si chiama Karen. Una manifestazione anarchica? Religiosa? No. Sono tutti psicoanalisti, i componenti di questo sparuto, ma combattivo gruppetto. Da cosa fuggono? Da chi fuggono?

Un po’ di storia

Nella Psicoanalisi istituzionalizzata
c’è più un senso clerico che un senso clinico
(Giannakoulas, 2003)

La storia del movimento psicoanalitico è anche una storia di consenso e dissenso, unioni e scissioni, ortodossia ed eresia. Non è soltanto utile distinguere tra un campo e l’altro, lo è anche approfondire la continua dinamica di conflitto tra questi termini e fenomeni dai significati opposti. Parrebbe quasi la nemesi della psicoanalisi: così concentrata nella metapsicologia e nella clinica sulla concezione, analisi e risoluzioni dei conflitti e destinata a soccombere a causa di conflitti. Infatti, una criticità della psicoanalisi è sicuramente legata a questi avvenimenti che, rispetto ad altre scienze e discipline, favorisce il sopravvivere di concetti, modelli e teorie che si diversificano, modificano e spesso contrappongono tra loro. E’ ciò che, già nel 1990 aveva fatto scrivere a Wallerstein (1988), analista americano, che non c’è più una psicoanalisi, ma molte psicoanalisi. Chi scrive, però, ritiene che il proliferare di nuovi vertici di osservazione, teorie sulla mente e sulla psicopatologia e tecniche di trattamento, sia anche una ricchezza per una disciplina che continua, bene o male, a creare idee e pratiche cliniche e quindi a rinnovarsi e a sperimentare nuovi campi di riflessione e di azione. Il grave limite, che voglio evidenziare, è quanto queste teorie e metodologie vengano “usate” per edificare scuole che assomigliano a luoghi di culto.

In altre parole, qual è il rapporto istituzionale, scientifico e di colleganza tra le varie scuole e approcci teorici? Va bene la diversità, ma il problema è come gestirla! Non è nei fini di questo scritto esaminare le contrapposizioni o le integrazioni possibili, tra il pensiero di diversi autori psicoanalitici[1]. Il presente contributo vuole osservare, con la lente concettuale dell’antinomia consenso/dissenso, come questi due poli siano presenti nel movimento psicoanalitico, dai suoi livelli “istituzionali”, fino a quello delle pratiche individuali e dei rapporti personal-professionali tra i terapeuti stessi.

Ma dove eravamo rimasti? Già…a New York e alla sua celebre Quinta Strada. Karen Horney, Clara Thompson, Charles Robbins, Nora Ephron, Herman Kelman e altri erano gli psicoanalisti statunitensi “costretti a dimettersi”, come in ogni “purga” che si rispetti. Nel loro manifesto di protesta scriveranno che il New York Psychoanalytic Institute (aderente all’International Psychoanalytic Association) aveva sostituito la libertà di pensiero e di espressione con il dogma (Hoffman, 2011). Sono dei dissidenti, né i primi né gli unici nella storia del movimento psicoanalitico, ma con una particolarità (e anche in questo sono in buona compagnia…): fonderanno una nuova istituzione, l’American Institute of Psychoanalysis, che soltanto un anno dopo espellerà alcuni di loro con le stesse motivazioni di deviare dalla teoria e dal metodo psicoanalitico. Non sappiamo se anche questa volta ci fu una marcia per le vie di New York, ma sappiamo che questi nuovi transfughi fondarono il William Alanson White Institute, dove si produrranno altre espulsioni e così via…

Ce ne sarebbe a sufficienza per chiedere ad ogni collega che si conosce per la prima volta: “Da dove ti hanno cacciato?” oppure “Da dove sei fuggito?”. Ma anche: “Chi hai contribuito a fare espellere? A fare andare via?”. Vittorio Strada (1978), critico letterario e slavista, scrive: “Anche il portatore di dissenso si carica di una normatività negativa (contro-normatività) crescente fino ad un limite oltre il quale esso stesso si pone come fonte di una norma sociale diversa, a sua volta oggetto di consenso/dissenso”, più prosaicamente viene in mente il detto: “nascere incendiario e morire pompiere”. Il punto non è quale scegliere tra le due tendenze, ma il fatto che frequentemente ognuna delle due assuma a Verità il proprio pensiero e neghi dignità e diritti a chi sostiene opinioni o prassi differenti. In altre parole: il processo di produzione di consenso, i suoi mezzi e le sue conseguenze. Non ultima, come abbiamo visto, una sorta di “trasmissione del consenso transgenerazionale”.

Riavvolgiamo ancora un po’ il nastro della storia della psicoanalisi. Precisamente a poco più di un secolo fa. Esattamente nel 1910, quando si tenne a Norimberga il 2° Congresso Internazionale di Psicoanalisi. In esso Sigmund Freud fondò l’Associazione Psicoanalitica Internazionale. “L’anatema ufficiale contro la Psicoanalisi ebbe come conseguenza il rinsaldarsi dei legami che gli analisti avevano stabilito tra loro (…) fu costituita un’Associazione psicoanalitica internazionale, suddivisa in gruppi locali e guidata da un presidente”, scrive Freud nella sua “Autobiografia” (1924, il corsivo è mio). Come si può vedere dunque, dalle sue stesse parole, il padre della psicoanalisi non aveva solo ragioni scientifiche e di affiliazione per creare un organismo internazionale, ma doveva anche rafforzare un movimento continuamente sottoposto ad attacchi che provenivano tanto da parte del mondo scientifico di quegli anni, quanto da settori culturali, politici e religiosi.

La parola-chiave del passo citata, a nostro parere, è “anatema” e fa il paio con quest’ulteriore citazione, tratta dallo stesso scritto: “Non posso sapere oggi quale sarà il giudizio definitivo dei posteri sul valore della psicoanalisi (…) Sono però convinto che un giorno lo storico di questo periodo che abbiamo attraversato, dovrà ammettere che la condotta dei suoi antenati non è certo tornata ad onore della scienza tedesca. Non mi riferisco con ciò al fatto che la psicoanalisi è stata respinta, né alla risolutezza con cui tale decisione è stata presa (…) non ci sono scusanti invece per l’estrema arroganza e il disprezzo assoluto di ogni logica, per la grossolanità e il cattivo gusto con cui la nostra disciplina è stata attaccata” (il corsivo è mio).

Dopo il Congresso di Norimberga confluirono nella Società Internazionale i gruppi psicoanalitici già esistenti giacché Società affiliate, ed in breve tempo accanto a loro se ne formarono altre. Il movimento psicoanalitico, accerchiato da quelli che oggi chiameremmo i poteri forti, aveva bisogno di un “capo superiore” (Jones, 1953, II). Tre settori della psicoanalisi diventarono i maggiori campi di battaglia, ma di una guerra interna, una guerra civile. Battaglie in cui truppe maggioritarie e minoritarie, ortodosse ed eterodosse, istituzionali e non, combatteranno per la colonizzazione della teoria psicoanalitica, della tecnica analitica e per la formazione dei candidati.

Gli shibboleth[2]

Ho bisogno di teorie che muovano la mente,
come può fare l’arte, non di teorie che sistemino le nostre menti.
E la validità di una teoria psicologica sta nella sua capacità
di aprire la mente, di toglierci il coperchio dalla testa,
come fa una buona poesia o una voce che canta
(Hillman, 1992)

“Freud stesso cercò, con la fondazione di “gruppi locali” (…) i cui leader dovevano essere da lui personalmente analizzati, di assicurare l’eternità della sua opera: li chiamò i “colonialisti” (…) Egli parlava significativamente di shibboleth, dalla pronuncia delle quali si potesse distinguere l’amico dal nemico” scrive lo psicoanalista tedesco Cremerius (2000) rifacendosi al passaggio in cui Sigmund Freud dichiara che, rispetto ai postulati teorici psicoanalitici, “chi non sappia accettarli tutti non dovrebbe annoverarsi tra gli psicoanalisti” (Freud, 1922).

Che cosa vuol dire shibboleth? Ecco la domanda, per altro giustificabilissima, che non si deve fare. Spieghiamo perché e qual è il collegamento con il tema del presente scritto. Nell’Antico Testamento shibboleth è un termine che compare nel libro dei Giudici. Lì vi si narra che gli Efraimiti (durante la guerra con la popolazione dei Galaaditi, tribù in quell’epoca dominante tra quelle che formarono il regno di Israele) chiedessero agli sconosciuti che si avvicinavano al fiume Giordano, confine dei loro domini, di pronunciare questa parola. Sulla base dell’esattezza della pronuncia dello sconosciuto si determinava il suo destino: sei dei nostri o no, in parole povere. E se non sei dei nostri, farai una brutta fine.

Tornando alla psicoanalisi è questo il non trascurabile dettaglio di questo quiz, in cui il premio è nel migliore dei casi l’anatema (vero Sigmund?), nel peggiore l’ostracismo perpetuo. La parola – ghigliottina, basata sulla sua sola pronuncia per altro, diventa la discriminate tra i “provati” (cioè i veri credenti, come li chiamava San Paolo, tanto per rimanere nel tracciato testamentario) e gli eretici. Non conta il significato della parola o del concetto teorico, e non si tratta neppure di una parola d’ordine. L’uso è molto più sottile. La parola, il semplice significante, diventa il crudo mezzo per determinare inclusione o esclusione. Fuor di metafora: tutto questo riguarda sia i concetti teorici sia tecnico-metodologici, ignorando (in realtà facendo finta) che una progressione della scienza non può ritenere che dei concetti, dei modelli e delle teorie assumano la funzione di variabili indipendenti. Sarebbe come sostenere che se gli assiomi della fisica newtoniana (che hanno costituito la base della fisica classica) sono stati modificati o soppiantati da altri concetti ritenuti più attuali, non si tratti più di teoria della fisica! Anziché, semplicemente, non chiamarla più fisica newtoniana.

Il discorso sul consenso/dissenso si sposta, quindi, sul piano scientifico e la scienza non fa sconti. E stupisce che proprio la psicoanalisi che nasce, inevitabilmente, dal contesto culturale illuminista e da quello scientifico di stampo positivista (pur con tutti i suoi limiti), non riconosca i rischi della verità dogmatica e quelli conseguenti della repressione e persecuzione di altre “verità”[3]. Freud è figlio dell’Illuminismo e per questo motivo sostiene l’indissolubile rapporto tra conoscenza di sé e cura di sé. La Weltanschauung freudiana individua nell’insight (ottenuto attraverso l’interpretazione fornita dal terapeuta al paziente) la via verso la conoscenza della propria persona.

Se è vero che la “via regia” per conoscere l’inconscio è il sogno, è altrettanto veritiero che la via è per definizione un mezzo, l’obiettivo è sempre la conoscenza. Eppure questa conoscenza, che risente del suo stampo ancora positivista quando si erge a “Verità assoluta”, è frutto di un pensiero, di una costante riflessione e di una continua ricerca di validazione dei concetti, dei modelli e delle prassi cliniche. Per non parlare dello junktim freudiano: il legame strettissimo e imprescindibile tra terapia e ricerca.

Paradossalmente Freud stesso è stato spesso accusato di non averci lasciato un patrimonio teorico e pratico sistematico, proprio perché il fondatore della psicoanalisi riteneva doveroso rivedere e correggere continuamente le proprie concezioni sia si trattasse della sua concezione della mente, della psicopatologia o del trattamento analitico. Freud non era freudiano, si dice a volte. E’ vero se, al di là della battuta ad effetto, intendiamo la volontà di revisionare il suo stesso pensiero psicoanalitico. Freud non mirava al consenso di e con se stesso, ma era dissidente con le proprie idee. Cioè il rapporto che instaurava con le sue ipotesi era aperto. La sua è, infatti, un’opera aperta, secondo la concezione di Umberto Eco. La teoria freudiana stessa (attraverso tutte le sue rivisitazioni a partire da Freud stesso) non necessiterebbe né obbligherebbe a modi definitivi di organizzazione del pensiero, ma a promuovere, nelle teorizzazioni e pratiche psicoanalitiche, la libertà di ricerca.

Scrivendo questo ricordo la vignetta del celebre fumettista italiano Altan, in cui uno dei suoi noti ometti nasuti dice: “A volte mi vengono in mente pensieri che non condivido”. Forse l’avrà pensato anche lo psicoanalista viennese. Di sicuro se, dagli scritti freudiani, si sono diramate infinite linee interpretative e nuovi apporti di altri psicoanalisti, ciò è dovuto proprio al suo lascito. Non unicamente i modelli teorici in sé, ma il loro essere riveduti, integrati, ampliati e in alcuni casi confutati. Allora, come mettere insieme tutto questo con la ricerca del consenso, da parte delle istituzioni psicoanalitiche, e la conseguente persecuzione del dissenso? La risposta non sta nelle argomentazioni in sé e neppure nel fatto che esse siano intangibile ed eterne, ma nel desiderio di potere. In parole povere, estremizzando: io posso anche cambiare idea ogni giorno, ma quel che conta è che ogni idea la imponga o meno come un dogma, quasi si trattasse di un’idea abitante l’iperspazio psicoanalitico, un postulato che (fino a quando lo ritengo tale) debba essere imposto a tutti, pena la messa al bando.

Queste ultime riflessioni ci conducono, quindi, all’essenza stessa della dinamica del consenso e della dialettica tra esso e il potere. Vale a dire: non si tratta (in molti casi) di conservare la stessa idea, ma di quale uso fare delle nostre idee e concezioni. Il politico, ad esempio, che ricerca il consenso e disprezza e perseguita il dissenso, lo farà sia quando assume una posizione sia nel caso, anche soltanto il giorno dopo, in cui ne assume una opposta. Il problema, su invito alla riflessione, è il mezzo non il contenuto. E’ proprio vero che “il mezzo è il messaggio” (Marshall McLuhan). La vicenda citata in precedenza dei dissidenti americani con a capo Karen Horney lo dimostra, come ce ne forniscono prova tutti quei casi in cui i dissidenti sono diventati i nuovi raccoglitori di consenso, ma ancora una volta mediante la repressione del dissenso interno e l’esclusione di chi non si allinea al pensiero dominante.

Prigioni, monasteri, fabbriche[4]

Ricordatevi sempre: quando c’è una scintilla
si può sviluppare un fuoco, soprattutto quando
questa scintilla compare nel bel mezzo
di un bosco secco: estinguetela prima
che sia troppo tardi!
(O. Kernberg, 1996, frase conclusiva in chiave ironica del suo articolo: “Trenta metodi per distruggere la creatività degli allievi degli istituti di psicoanalisi”) 

Tuttavia è nell’ambito della formazione che si produce con maggior insistenza la dinamica del consenso/dissenso. Non deve stupire, dato che si tratta del “formare” i nuovi psicoanalisti. Coloro che avranno il compito di perpetuare l’esistenza dell’istituzione e del Verbo. E quindi spesso il training è organizzato in modo coerente con il tipo di affiliazione e consenso che si ricerca. Perché l’istituzione sopravviva, con le stesse caratteristiche di base e gli stessi riferimenti in termini di “maestri” che compongono il Pantheon psicoanalitico, è necessaria la doverosa attenzione al processo di formazione/selezione. Come esso avviene e quali siano le variabili da esplorare/valutare nel candidato è purtroppo molto chiaro se studiamo la storia stessa del training. E ne parleremo tra poco.

Da quando, nel 1925, all’Istituto Psicoanalitico di Berlino si istituzionalizza l’iter del training psicoanalitico, si chiariscono gli elementi fondanti il processo di selezione, i programmi teorici delle scuole e in molti casi l’affaire dell’analisi didattica. Il fatto che i riferimenti storici ed alcune questioni aperte si sovrappongono con la nascita e lo sviluppo dell’IPA (la già citata associazione internazionale fondata da Sigmund Freud) non significa che la nostra critica sia indirizzata soltanto a questa organizzazione e alle sue diramazioni nazionali. Come abbiamo visto nel caso degli psicoanalisti transfughi, sospinti in corteo a New York dalla loro legittima ed esplicita contestazione, i dissenzienti di oggi possono trasformarsi nei censori di domani.

E non c’è bisogno di conquistare il potere e issare nuove bandiere (sempre psicoanalitiche ovviamente!) per creare istituzioni che basano il loro funzionamento sull’adesione pressoché incondizionata al leader. Anche nella fase di “opposizione”, le organizzazioni di psicoanalisti (come del resto avviene in altri ambiti, ad esempio quello politico) creano il conformismo dell’anticonformismo. Un conformismo che ha come ingredienti principali, oltre alla professione del Verbo, fenomeni quali: fede, fascinazione, imitazione, adesione ideologica, obbedienza ed accettazione delle regole senza se e senza ma. Tutto questo nel rapporto orizzontale tra i membri e in quello verticale tra essi e il/i leader. Sovente le relazioni con l’esterno della comunità psicoanalitica sono caratterizzati da chiusura e critica spietata, perché aborrendo ogni confronto critico e possibilità di contaminazione, il “dialogo” con altre scuole, teorie e scienze parte da antinomie che non ammettono sfumature di grigio. Relegando per altro queste stesse istituzioni e scuole ad un ruolo isolato nella collettività scientifica, non solo psicoanalitica, anche perché tutto ciò ha a che fare più con la religione che con la scienza è per sua natura prescientifico.

Vale la pena di insistere che se l’espressione “psicoanalisi” è assoggettata all’istituzione, qualunque essa sia, si blocca sul nascere qualunque ipotesi di sviluppo e ricerca e se ciò apparentemente avviene, è perchè (eccezione che conferma la regola) si tratta di correzioni o modifiche dell’apparato teorico o tecnico che nascono sempre dall’interno dell’organizzazione ed in genere da qualcuno tra i suoi leader. A questo proposito nell’estate del 1957 si svolse un panel sulle “Variazioni nella tecnica psicoanalitica classica” al XX Congresso Internazionale dell’IPA a Parigi in cui erano distinte, nettamente: correzioni, distorsioni e deviazioni dalla tecnica psicoanalitica classica. La scelta dei termini e il loro ordine denuncia una chiara progressione tra ciò che può essere tollerato dopo opportune valutazioni e approfondimenti (la correzione), da ciò che è in “odore di eresia” (distorsioni) a ciò che si situa al di fuori del campo della psicoanalisi (deviazioni).

Ça va sans dire che: “L’intropressione, sostanza psicologica dell’insegnamento autoritario, non può essere evitata senza il concorso del vissuto di chi la subisce, magari in silenzio o senza neppure rendersene conto” (Guasto, 2016)[5]. Infatti, se è vero che ci stiamo concentrando sul binomio consenso/dissenso, è anche innegabile che tutto ciò va inscritto in più ampie dinamiche di potere intraistituzionali ed interistituzionali. Di cui fanno parte gli atteggiamenti di compiacenza, consenso formale e opportunismo dei candidati alla formazione psicoanalitica.

In questo stesso paragrafo abbiamo citato l’analisi didattica. Il doversi sottoporre ad un’analisi, durante il training, e quindi nei tempi e modi (compresa a volte la stessa scelta dell’analista con cui svolgerla) sanciti dall’Istituzione psicoanalitica (non importa di quale Associazione o Scuola si tratti) comporta conseguenze negative sia sulla formazione del futuro analista in senso stretto, sia relativamente al proprio percorso identitario professionale. “L’analisi didattica non può risolvere l’identificazione [quindi la disidentificazione] con l’istituzione e la sua struttura di potere, poiché è essa stessa prodotto dell’istituzione, alla cui stabilizzazione inoltre contribuisce. Attraverso l’analisi didattica [come in altre pratiche formative, ma in misura più incisiva] passa la tradizione autoritaria e si conserva la dottrina” (Cremerius, 1989, le annotazioni tra parentesi sono le mie)[6].

Nello stesso scritto Cremerius ci ricorda come sia molto frequente che i giovani psicoanalisti, alla fine del loro training, si sottopongano ad una seconda analisi, attraverso una scelta libera dall’istituzione di riferimento. Io preferisco sostenere lo stesso concetto con una battuta (in realtà una frase sentita veramente da una collega): “Ho concluso l’analisi didattica, ora finalmente posso iniziare un’analisi”!

Il discente si trova nella scomoda posizione, per usare un eufemismo, di sottomissione ad una doppia autorità: l’analista personale e l’analista didatta della Società tal dei tali. Ma riuniti nella stessa persona. Se poi, come ci accade spesso di osservare, si sommano i ruoli di: analista, analista didatta, conduttore di seminari clinici, ruolo istituzionale dell’analista e supervisore…abbiamo una scuola psicoanalitica con al suo vertice tanti Zelig, pronti a ricoprire sempre nuovi e strategici ruoli nella formazione dei futuri terapeuti. Battute a parte, con la somma di questi ruoli in un’unica persona si rischia seriamente di congegnare una più robusta asimmetria delle posizioni interpersonali tra docente e discente, con pericolose derive paternalistiche, vissuti persecutori del candidato e tendenze infantilizzanti. Per altro, quanto all’infantilizzazione, già messe in rilievo anche nella tecnica analitica classica dal noto e pionieristico lavoro della psicoanalista Ida Macalpine nel 1950 e, in termini operativi, dal lavoro di Peterfreund (1983) che differenzia tra tecnica psicoanalitica “euristica” e tecnica “stereotipata”.

In ambienti formativi con le caratteristiche succitate si creano anche relazioni patologiche e perverse tra gli stessi allievi. I rapporti di colleganza si saturano di competitività, conflitti edipici tra fratelli, identificazioni con il capo, squalifica degli avversari e conseguenti cacciate dall’Eden.

Gli allievi del training psicoanalitico: tra consenso e compiacenza

A crollare sarà invece la psicoanalisi che non pensa,
quella che non esce dall’ambito ristretto di una clinica che tende
al benessere di coloro [psicoanalisti compresi] che Nietzsche
chiama “gli ultimi uomini”, le cui aspirazioni si risolvono
in “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte,
fermo restando la salute”
(Galimberti, 2005, il contenuto tra parentesi è il nostro)

Il contesto in cui si studia e si dovrebbe formare non solo una competenza teorica e tecnica, ma una competenza di sé, si caratterizza, in molte scuole di formazione, come un sistema gerarchico che può ricalcare il modello della famiglia allargata oppure dell’esercito, come sostiene ancora lo psicoanalista Otto Kernberg (citato all’inizio del paragrafo precedente). Lo stesso celebre analista americano ritiene che siano preferiti candidati “dull-normal” (letteralmente: di una normalità un po’ ottusa) anziché soggetti creativi.

In molte associazioni di minor rilevanza numerica e diffusione la situazione può essere ancora peggiore.  Quanto più si tratta di “piccoli gruppi”, tanto più gli aspetti carismatici che sottendono la leadership del leader hanno una forte influenza sugli associati e sugli studenti. In Italia la, seppur tardiva, Legge 156/89 sugli psicologi e la psicoterapia ha disciplinato la formazione psicoterapeutica con l’obbligo della frequenza di una scuola quadriennale riconosciuta dallo Stato, attraverso il Ministero competente (MIUR). Questa legge a “maglie larghe” (non cita l’importanza dell’analisi personale, così come le differenze tra gli approcci presenti in psicoterapia, per non dire il porre sullo stesso piano medici e psicologi ed escludendo altri percorsi di studio, ecc….) ha avuto il potere di ridurre la portata e a volte la stessa esistenza di piccoli gruppi, numerosissimi fino agli anni ’90, di “comunità psicoanalitiche” dove, attorno al leader maximo, sedevano pochi seguaci pronti a tutto per difenderlo, tutelare se stessi e proteggere la Verità dagli attacchi di altri gruppi o associazioni (ritenuti ovviamente “infedeli” alla tradizione psicoanalitica). “Tu non sei uno psicoanalista!” o “Questa non è psicoanalisi!” sono le accuse più impietose e castranti (anche nel senso del “complesso di castrazione”).  La prima è in genere associata ad un dito puntato verso il reo, che se accompagnato anche dal braccio teso in avanti, assomiglia ad un gesto dei rituali massonici più primitivi (nell’interpretazione dell’occultista Aleister Crowley, non a caso soprannominato “la Bestia”), tanto per rimanere in tema di società segrete. La seconda è ancora più sprezzante, perché sempre associata ad una smorfia di disprezzo. Se poi pensiamo, e chi scrive ne è persuaso, che il disprezzo è anche conseguente ad una precedente idealizzazione (come messo in luce da Searles, 1965) si assiste al fatto che a volte ad essere spodestati con queste frasi sono allievi che inizialmente sembravano promettenti, fedeli, disciplinati magari anche “semplicemente degli esseri umani orribili” (Masson, 1990, cit. in Meneguz 2011), ma che importa!

L’importante è essere: “Uno di noi” e saper pronunciare bene “shibboleth”, tutte le altre variabili, a cominciare da quelle etiche, vengono poste in secondo piano. Importante è credere nello stesso Dio (Freud, Klein, Lacan, Bion, ecc…) o come si dice più prosaicamente negli Stati Uniti: “Sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana!”. Quindi: prima l’appartenenza e poi, caso mai fosse proprio necessario, le caratteristiche del singolo. Del resto lo stesso processo di selezione dei candidati è un compito impossibile, secondo noi, tranne che in alcune rare ed eclatanti eccezioni. Meglio parlare di colloqui di ammissione ad una scuola di psicoterapia, piuttosto che di selezione, per valutare in itinere, insieme al candidato stesso, la fattibilità del percorso analitico. Questa valutazione in progress può, inoltre, avvalersi anche di più pareri nel momento in cui l’allievo è inserito in un dispositivo formativo che prevede più docenti, più supervisori e i contesti gruppali stessi in cui l’apprendimento psicoanalitico vi si concretizza.

Come sosteneva uno psicoanalista della prima ora qual era Siegfried Bernfeld (1962, cit. in Castiello d’Antonio, 2008): “Per dirla in breve, noi prediciamo il futuro. Ci formiamo un’opinione su ciò che il candidato presumibilmente sarà dopo aver terminato l’analisi. Non è ancora stato inventato un sistema diagnostico che consenta previsioni di questo genere”. E altri eminenti psicoanalisti (Anna Freud, Maxwell Gitelson, Hanns Sachs e perfino l’ortodosso biografo di Freud Ernest Jones) sostennero a più riprese che il rischio è che si selezionino solo futuri allievi apparentemente normali, ma il cui equilibrio mentale può rivelarsi: “Insospettatamente precario” pur essendo “candidati apparentemente normali (…) si rimane stupefatti osservando come un funzionamento relativamente buono della personalità possa coesistere con un’estesa nevrosi, o addirittura una psicosi non manifesta” (Jones, 1931, cit. in Gitelson, 1973).

Non si tratta soltanto di equilibrio mentale. Il punto che vorrei mettere maggiormente in risalto è che, se è vero che il diavolo si nasconde nei dettagli, in numerosi casi si crea un combinato disposto di reciproche idealizzazioni tra insegnanti/supervisori e allievi, non alieno da reciproche convenienze. In questo gioco di specchi, ricorrono fenomeni illusori che assomigliano a folie a deux. Oppure fenomeni gruppali contrassegnati dalla mitizzazione della comunità di appartenenza (e demonizzazione degli “altri”), dalla illusione gruppale, dal pensiero unico. A volte rispetto agli altri approcci teorici e scuole di pensiero, ci si definisce con l’essere contro qualcosa o qualcuno. E’ più facile aggregare il consenso contro qualcosa che per qualcosa. In questo caso parliamo di identità negativa. Fenomeno più frequente in gruppi minoritari, ma al loro interno altrettanto allineati alla teoria dominante e gerarchizzati. Lo abbiamo visto citando la psicoanalista Karen Horney, in apertura dell’articolo. Uno dei molti esempi di gruppi che dalla dissidenza passeranno a loro volta alla ricerca del consenso con metodi autoritari e impropri e all’allontanamento sia di chi dissente sia di chi (situazione diversa) è stato sconfitto nella lotta al potere.

L’uguaglianza ha la meglio sulla differenza, l’omogeneità sull’eterogeneità, il pensiero dogmatico sulla pluralità dei punti di vista. Il contesto, però, non è egualitario e democratico dal punto di vista dei rapporti di potere, quindi l’omogeneità di pensiero (con tutti i suoi limiti) non è onesta, ma è un mezzo per potersi accreditare alle gerarchie superiori. E nell’attesa di entrare nella stanza dei bottoni si cercano i mezzi più efficaci per ottenere prebende e favori (pazienti, pubblicazioni, ecc…).

Indubbiamente queste dinamiche di potere, processi di affiliazione, caratteristiche della leadership e condizione oggettiva e soggettiva degli allievi caratterizzano, oggi più di un tempo, la nostra società odierna nella sua interezza. Basta pensare, per fare un parallelo tutt’altro che ardito, alla selezione e formazione dell’attuale classe politica italiana, e non solo, in cui in molte occasioni prevalgono l’appartenenza e la fede nel Capo ai contenuti espressi, alla professionalità posseduta e alla dimensione valoriale. Quest’ultima, per altro, sembra la Cenerentola della situazione, ogni qual volta trattiamo di consenso e di ricerca di esso, indipendentemente dagli ambiti e dalle fasi storiche.

Ma questa volta non si tratta di trovare un principe. Ce ne sono già tanti e ancora più numerosi sono quelli che aspirano a diventarlo. Il futuro della psicoanalisi, come di altre scuole di psicoterapia, è nel confronto, nell’apertura a nuove idee e nuovi saperi, nel rigore che deve appartenere a ogni teorizzazione e prassi e nell’etica che deve costituirne il presupposto.

E poi…che ognuno pronunci shibboleth come gli pare. L’importante è che proviamo a capirci e farci capire.


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[1]  Da questo punto di vista un testo recente e molto approfondito è quello di Morris Eagle (2011), cui rimando.

[2] Sostantivo femminile che in ebraico ha molteplici significati. I più diffusi sono: spiga di frumento o ruscello. In realtà il termine è noto per il suo uso: tracciare un confine profondo tra noi e gli altri, con funzione irrefutabilmente discriminante.

[3] Nota 3. A questo proposito Franz Alexander, psicoanalista ungherese naturalizzato americano, sosteneva che “(…) il principio di Freud del “tutto o niente” potrà essere necessario per sette religiose e partiti politici ma è dannoso per la scienza” (Alexander, Seleneski, 1965).

[4] Traggo il titolo di questo paragrafo dal libro omonimo di Guido Contessa (1988), psicosociologo, che è stato tra i principali riferimenti teorici, relativamente all’analisi istituzionale, di chi scrive e di tanti altri colleghi nell’ambito della formazione aziendale italiana.

[5] Il concetto di intropressione rimanda al pensiero dello psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi (1920-1932). Si tratta di un neologismo attraverso il quale Ferenczi offre uno dei tanti paralleli, nella sua opera, tra il rapporto genitore-bambino, quello analista-paziente e analista/maestro-allievo. Così come per il bambino l’intropressione dell’adulto significa la squalifica e il diniego dei suoi pensieri e bisogni, nel caso del paziente e dell’allievo (al netto dei diversi obiettivi e forme dello specifico rapporto asimmetrico tra i due) si tratterà di una mera sostituzione del pensiero dell’altro, all’interno di una logica di sottomissione e colpa. In questo modo, nel caso ad esempio dell’allievo, non ci potrà essere la normale e sana risoluzione delle altrettanto normali e sane, se temporanee, idealizzazioni ed identificazioni, ma una perenne sottomissione cognitivo-affettiva che non permetterà la fisiologica disidentificazione da parte dell’analista in formazione nei confronti del “maestro”.

[6] In un altro suo contributo Cremerius (2000) cita gli psicoanalisti Graf e Sachs, contemporanei di Sigmund Freud, come coloro che avevano definito il sistema di formazione psicoanalitico un “sistema chiuso” e una “chiesa”. In particolare Max Graf (1942) sostenne che “In pochi anni vissi l’intera storia della Chiesa” e Hanns Sachs (1945) rincara la dose in modo più esplicito: “Tutto era stabilito dagli ordini di Freud dai minimi dettagli della vita quotidiana fino alle decisioni più importanti” in quanto la dottrina psicoanalitica doveva essere difesa “da precoci fusioni e da cosiddette sintesi con altri ambiti e altri metodi di lavoro e di ricerca di diversa formazione”. Altro che certe lodevoli iniziative attuali che hanno come titolo, per esempio: “Psicoanalisi e neuroscienze”, piuttosto che la stessa dicitura di “psicoterapia psicoanalitica”, il primo esempio sarebbe motivo di ostracismo il secondo, ad essere ottimisti, sarebbe trattato alla stregua di un ossimoro!