Congiunti disgiunti

IMPRESSION, SOLEIL COUCHANT

Marco Cassini

Abbiamo festeggiato l’8 marzo al ristorante. Ci siamo rivisti dopo 77 giorni (anniversari vari, Pasqua, Pasquetta, onomastico, compleanno, Primo maggio: in solitudine). Certo molti pensieri, telefonate, WhatsApp, sms, invocazioni, eppoi isolamento, ossessioni, paranoie, angosce, pigrizia. Mi mette in imbarazzo parlarne, non trovo parole appropriate. Non mi hanno aiutato i mezzi di comunicazione. Mi davano fastidio i flash mob, “restate a casa” “andrà tutto bene”.

Ma mi sono adeguato, ho apprezzato il rimanere nel mio studio a scartabellare fra le mie stampe e libri antichi, potevo gioire e contemporaneamente mugugnare: i cani sì gli umani no, il buio sì il sole no, il chiuso sì l’aria aperta no: orrori!

Ho registrato anche strani e positivi accadimenti. Prima ogni tanto avevo qualche incubo notturno, niente di grave, i soliti: esame di maturità da rifare; esami universitari mancanti; treni persi; liti in famiglia; precipizi; nudità imbarazzanti. Durante la clausura sogni splendidi e variopinti: amici d’infanzia; successi sportivi; antichi amori; parenti sorridenti; viaggi in luoghi sconosciuti e affascinanti; marcette con bande musicali e majorette. Inspiegabile, autocompensazione? Un aiuto stupendo e inestimabile.

L’incubo erano i risvegli, allungare una mano e non trovare nulla, e, al mattino, ritornare alla cruda realtà. Il dormire impermeabilizza, immunizza, forse ne ho approfittato e mi sono impoltronito per i troppi pisolini. Infidi amici la grappa e la cioccolata. Mi hanno salvato il pianto e l’ironia, ho lanciato due messaggi agli amici e compagni di scuola “aveva ragione Patrick Samson” e “Siamo stremati”. Congetturando su quest’ultima parola ho realizzato che da tre mesi non ero più andato ad Apricale, mio paese natale, e così ho colto al volo l’invito della promotrice Pia Viale per partecipare a un concorso di poesia dialettale e ho inviato una specie di madrigale/pastorale:

Peř u GIACURÈ 2020

A avìa pensau de engaregnař üna pueřzìa
c’à puresse piaixe a Pia è a tüta a giüřìa.
En bligařencu,
cun carche parola stramba è carche belinata,
da arecampar, aumancu,
due castagnœre o una mařmelata.
C’a pařlesse d’amur è de süuūr,
de travagliu e de mařincunie.
Carche rèn da die; da far ciagne o da far rie,
çerchèndu de farghe carar escì üna rima.
Ma u l’è s-ciuppau u coronavirus
è ren u nu serà ciü’ cume prima.
A l’aradiu u se sènte parlar numa de morte.
Tüti stremai en ca cu nu se puria andar en giru!
Aur c’u se pœ’ u n’è vegniu paur escì de sciorte.
Cuscìtante pene dae ratapene? A natüřa a s’è embilà?
U se ne stamu lì assesii, cume apersi au fie de una taragnà.
Cun a pandemia a mia pueřzìa a l’è feřia,
ma a vita? …Chissà cum’a feřiřà?.

Traduzione: “Per il concorso GIACURÈ 2020”

Avevo pensato di comporre una poesia/ che potesse piacere a Pia e a tutta la giuria. In apricalese,/ Con qualche parola stramba e qualche stupidata,/ da racimolare, almeno, due “castagnole” o una marmellata./ Che parlasse d’amore e di sudore,/di lavoro e di malinconia./ Qualcosa da dire; da far piangere o far ridere,/ cercando di farci cascare anche una rima. Ma è scoppiato il coronavirus/ e niente sarà più come prima./ Alla radio[1] non si sente parlare che di morte./ Tutti chiusi[2] in casa: non si poteva andare in giro!/  Adesso che si può ci ha preso la paura di uscire./ Così tante pene originate dai pipistrelli? La natura si è arrabbiata?/ Ce ne stiamo li assiderati-atterriti, come appesi al filo di una ragnatela./Con la pandemia la mia poesia è finita,/  ma la vita?…/ Chissà come finirà[3]? 

[1] Personalmente è dal 1982 che ho abolito la televisione da casa mia. [2] Qui si gioca sull’ambivalenza del termine stremai che può intendersi sia “stremati” che “rinchiusi in casa”. [3] Qui si gioca sull’assonanza del termine: finita/ferita e finirà /ferirà.

Ora che tutto è aperto, non potendo più lamentarmi, apprezzo meno le mie collezioni e vago per il centro storico e il porto antico. Anche noi che non siamo stati malati ci sentiamo convalescenti e non abbiamo più la sensazione di essere liberi e ci sono mancate ulteriormente le certezze, ma visto come si era messa e come si prospettava bisogna essere contenti.


Marco Cassini: Storico locale, scrittore, incisore. ApricaleImperia