di Giulio Cesare Zavattini *
1. Premessa
Nel suo noto saggio Robert Wallerstein (1988) “One psychoanalysis or many?” relativo alle molte psicoanalisi presenti nel movimento psicoanalitico, metteva in evidenza che la diversità tra le varie teorie creava un’incomunicabilità tra paradigmi diversi. Tuttavia coglieva – o per meglio dire, proponeva di cogliere – nel lavoro clinico il ‘commonground’ su cui gli Analisti possono ritrovarsi. Stefania Turillazzi Manfredi (1994) nel suo saggio “Le certezze perdute della psicoanalisi clinica”, osserva che in realtà non c’è un vero accordo su un common ground nel lavoro essendoci posizioni diverse su cosa si intenda per “azione terapeutica”.
Fin dagli anni settanta, del resto, è emerso che le varie motivazioni proposte dai modelli tradizionali risultavano fortemente unilaterali, in quanto cercavano di dare spiegazioni dei comportamenti facendo affidamento privilegiato su un solo parametro interpretativo, un’unica “motivazione”, a discapito del costante, complesso intreccio delle influenze di variabili temperamentali, relazionali e sociali che sono contemporaneamente in interazione.
Ciò ha portato alla messa in discussione della tesi dello junktim, ossia del: << (…) Legame molto stretto fra terapia e ricerca>> (Freud, 1926, pag. 422), che aveva fortemente permeato la psicoanalisi successiva a Freud. Questo legame, infatti, é diventato, via via, assai più complesso con il rischio che la diversità tra le varie teorie crei una incomunicabilità tra paradigmi diversi e si crei una sorta di Torre di Babele. Sembrerebbe quindi che rispetto al titolo di questo numero di Varchi, “Fluidità, intersezionalità, contaminazione. Istruzioni per muoversi nella contemporaneità” bisogna chiedersi come orientarsi in una realtà di tante lingue alla ricerca della tendenza verso cui si muove la psicoanalisi moderna.
Il rischio, a mio avviso, è quello di vedere i modelli come “gusti” secondo il detto latino, ‘De gustibus non est disputandum’, che è un modo per affermare che i gusti sono soggettivi e ognuno ha diritto ad avere i suoi, per quanto strani possano sembrare ad altri. Considerandoli sostanzialmente come equipollenti o come, pensando alla felice metafora della cassetta d’attrezzi, come l’insieme delle diverse chiavi inglesi, cacciaviti, forbici che usiamo a seconda della necessità. Appartiene a questo modo di ragionare l’idea – a mia avviso pessima – che i vari modelli devono essere utilizzati secondo i vari tipi di pazienti, per esempio la psicoanalisi con le crisi esistenziali, la terapia sistemica per le famiglie e così via.
Stephen Mitchell nei suoi vari saggi, tra cui “Speranza e timore in psicoanalisi” (Mitchell, 1993), ora uscito in una nuova traduzione curata molto bene da Cesare Albasi, osservava che se è vero che il gap esistente tra le nostre teorie e la pratica clinica è un problema molto più sentito che in passato, la circolarità tra la dimensione intrapsichica e interpersonale può essere un importante punto di riferimento per colmarlo, partendo dal presupposto che il lavoro analitico è l’incontro tra due soggettività.
2. La necessità di ‘posizionarsi’
Ciò che voglio sottolineare è che se da un lato la psicoanalisi contemporanea si contraddistingue per un pluralismo mai conosciuto prima d’ora con applicazioni del metodo a nuove forme di patologie, non solo soggetti borderline, ma, per esempio, anche psicotici, patologie psicosomatiche, ed estensioni nel tempo, ossia a situazioni cliniche senza limiti d’età a nuovi setting come il lavoro con i bambini, le coppie, le famiglie, i gruppi, l’analisi istituzionale, dall’altro lato vi è un passaggio indubitabile dal modello monopersonale – ‘one body psychology’ – in cui l’attenzione è diretta a comprendere come un impulso viene mascherato nella mente individuale – al modello bi-personale.
L’influsso dell’infant research e della teoria dell’attaccamento, successivamente, ha spostato l’attenzione su quale sia l’unità di osservazione, evidenziando la centralità del concetto di reciprocità e di scanning emotivo tra le menti mettendo sempre più in evidenza il ruolo dei processi adattivi e delle caratteristiche del ciclo vitale rispetto a quello delle pulsioni infantili. Vi é ormai un consenso sull’idea che lo sviluppo si realizzi non tanto per processi maturativi, ma per processi interpersonali, nel senso che la crescita e il formarsi delle funzioni psichiche dipendono dal tipo e dalla qualità di incontro intersoggettivo che lo rendono possibile e che contribuiscono allo “stile” personale di gestione delle dinamiche affettive.
Come ha, del resto, messo in evidenza anche Warren Poland in un suo interessante saggio, “Intimacy and separateness in psychoanalysis” (Poland, 2018), la testimonianza di una persona facilita l’autodefinizione di un’altra nel senso che solo con la separazione può crescere la vera intimità e solo all’interno della trama delle relazioni con gli altri può esistere la vera individualità. Non siamo monadi, ma siamo sempre immersi nella ‘otherness’ che riguarda i contesti affettivi, sociali e culturali di cui la psicoanalisi deve tenere conto per non chiudersi in un solipsismo intrapsichico (Nota 1). In altri termini si può dire che una nuova sensibilità si è diffusa, sostenuta da una sempre maggiore consapevolezza della interconnessione di ogni essere umano con tutti gli altri esseri umani come ha evidenziato la scoperta dei neuroni specchio da parte di Rizzolati, Fadiga e Gallese.
Nota 1 Lynne Layton, tuttavia, nel suo saggio descrive come la messa in atto di ciò che chiama processi inconsci normativi possa rappresentare anche un rischio di ‘inconscia uniformità’ che può rafforzare le disuguaglianze culturali di razza, sesso, genere e classe sia all’interno che all’esterno della clinica e a livello individuale, interpersonale e istituzionale (Layton, 2020).
Rientra, infine, in questo orizzonte di cambiamenti la riflessione sullo statuto dell’Inconscio con la distinzione tra Inconscio Rimosso e Inconscio non rimosso che ha evidenziato che il luogo dell’inconscio non è più la sola mente individuale (Zavattini, 2008). Nella cura analitica non ci si misura solo con l’Inconscio inteso come serbatoio di derivati pulsionali da portare alla coscienza, ma anche con aree mentali che non sono rappresentabili alla coscienza e che riguardano maggiormentel’implicito, l’esperienza non formulata (Stern, 2003) che si esprimono nelle azioni (Arnetoli, Velotti, Zavattini, 2023). Si potrebbe dire che, nella psicoanalisi moderna, più che il desiderio di conoscere dell’uomo freudiano emerge il bisogno dell’uomo di essere conosciuto e riconosciuto (Ogden, 2022), trovando nella relazione terapeutica un’esperienza emotiva nuova come osservava Bromberg nel suo famoso saggio “Clinica del trauma e della dissociazione, Standing in the Spaces”. In questa direzione nella molteplicità dei modelli, la finalità perseguita nei trattamenti psicoanalitici e psicodinamici oggi non consiste, infatti, tanto nello scoprire che cosa c’è nell’inconscio, ma nell’esplorare come si costruisca l’esperienza di sé nelle relazioni (Bromberg, 1998/2001).
Sul piano della teoria della tecnica significa, infatti ad avvalorare la concezione della relazione analitica come un campo condiviso e a collocare l’andamento a spirale del dialogo analitico più sul registro della processualità del presente e della comprensione dei fraintendimenti inconsci che sullo svelamento di una verità nascosta del passato.
In questa direzione Levine considera la teoria del campo di Ferro (Ferro, Civitarese, 2015) come esempio di teoria orientata sul processo anziché sul contenuto e osserva che l’analista è oggi più spesso un catalizzatore di trasformazioni che un decodificatore dell’inconscio o un arbitro della verità: un <<Catalizzatore e un guardiano di un processo emergente e inesauribile che espande i confini della psiche del paziente, il vero proprio regno che l’analista cerca di esplorare>> (Levine, 2012).
3. Le azioni terapeutiche
Dobbiamo prendere atto che vi sono molte importanti controversie e differenti posizioni, ma, come osserva Gabbard in un interessante Seminario presso il Centro Torinese di psicoanalisi intitolato “Il costrutto elusivo dell’azione terapeutica”, bisogna partire dal fatto che è normale che un Analista sia trascinato in una sorta di danza che può portare a enactment e dissociazione (Gabbard, 2024), oppure come indicava Bion, deve tenere conto della inevitabile pressione emotiva che avviene reciprocamente in seduta (Bion, 1967a).
Ciò delinea uno scenario assai diverso da quello di Freud che non ha mai usato il termine azione e per il quale l’obiettivo era che il paziente riconoscesse che vi sono i ricordi rimossi nell’idea che bisognava arrivare alla verità, ossia l’unica verità sottesa al sogno o ai sintomi. Egli aveva un obiettivo che era quello di trascrivere ciò che era rimosso, per lui il lavoro del sogno si costituisce non come atto creativo, bensì trasformativo, perché capace di comporre nell’unità del sogno stimoli somatici, pensieri onirici e residui diurni: <<La prima cosa che appare chiara a chi confronti contenuto e pensieri del sogno è che è stato fatto un enorme lavoro di condensazione. Il sogno è scarno, misero, laconico, in confronto alla mole e alla ricchezza dei pensieri del sogno>> (Freud, 1899, p. 259).
Diversa era la posizione di Bion per il quale il sogno andava inteso come una teoria della costruzione del significatoe non del suo travestimento (Bion, 1992). In altri termini il sogno andrebbe visto come un tentativo pergenerare un nuovo significatoa partire dalla percezione di un’esperienza emotiva. Bisogna, cioè, diffidare dell’idealizzazione dell’insight e tenere conto che ci sono aree cieche che si esprimono più nell’azione e non tanto nella comunicazione verbale, ma in quella non verbale che può rappresentare il 70% delle comunicazioni tra esseri umani.
Qui le “virtù” cliniche riguardano più la spontaneità e la negative capability, cioè la capacità di tollerare il dolore e la confusione di non sapere, piuttosto che imporre certezze già pronte o onnipotenti accettando una situazione che può essere talora ambigua o essere una sfida emotiva. Bion, cioè, esortava l’analista ad ascoltare il paziente per il tempo necessario ad intuire l’esperienza emotiva informe, tollerando di rimanere nel dubbio e nell’ansia, senza affrettarsi a trovare spiegazioni razionali e senza aggrapparsi al già noto sul paziente. In altri termini l’analista deve rinunciare alla memoria, al desiderio (Bion, 1967b).
Bisogna oggi ammettere che non esiste una tecnica generale (Velotti, Zavattini, 2023), ma, come osservava Mitchell (Mitchell, 1997) questa deve essere concepita “su misura” e in questa direzione la personalità dell’Analista e il peso del senso di “concordanza” e “sintonizzazione affettiva” : <<Può contare più di brillanti interpretazioni>> (Vigna-Taglianti, 2023).
Jeremy Safran e Christopher Muran, osservano, appunto, che terapeuti e pazienti si leggono e si influenzano reciprocamente a livelli affettivi inconsci e ciò che potrebbe essere saliente nel corso di una difficile interazione terapeutica non sono necessariamente <<Le parole specifiche pronunciate dal terapeuta>>, ma la sua capacità nel rispondere ai sentimenti insopportabili del paziente dimostrandogli che li considera sopportabili e non catastrofici o distruttivi, aiutandolo a tollerare e regolare la sua esperienza affettiva (Safran, Muran, 2000, pag. 131).
L’importanza della relazione come azione terapeutica è stata particolarmente sottolineata dal Gruppo di Boston (2012) sostenendo che è necessario “qualcosa in più dell’interpretazione” per generare un cambiamento terapeutico e individuano questo “qualcosa in più” nei processi intersoggettivi di interazione che danno luogo a ciò che viene chiamata “conoscenza relazionale implicita” (Lyons-Ruth et Al., 1999). I cambiamenti nella conoscenza relazionale implicita possono verificarsi in quelli che possiamo chiamare “momenti di incontro” tra l’analista e il paziente, che non sono né simbolicamente/verbalmente/consciamente rappresentati, né dinamicamente inconsci nel senso classico del termine, riguardano invece maggiormente l’Inconscio non rimosso che si riferisce ad alcune esperienze di relazione precoce con gli oggetti primari che restano dissociate dalla memoria esplicita autobiografica e si mantengono invece nella memoria implicita preverbale. Questi momenti di incontro possono essere altresì importanti per riorganizzare l’esperienza procedurale e affettiva in un contesto di relazione, infatti, la conoscenza relazionale implicita si produce attraverso “processi interattivi e intersoggettivi” che alterano il campo relazionale.
E’ in questa direzione che si può comprendere quanto osservava Peter Fonagy quando diceva che la comprensione dei ricordi rimossi, così come la risoluzione del conflitto inconscio poterebbe non essere più rilevante per l’azione terapeutica. Il concetto di memoria procedurale, infatti, ridefinisce in modo decisivo il problema dell’azione terapeutica: <<I ricordi di esperienze passate non possono più essere considerati rilevanti ai fini dell’azione terapeutica […] l’azione terapeutica modifica in modo predominante il sistema di memoria e non è dovuta ai mutamenti relativamente superficiali connessi alla memoria autobiografica>> (Fonagy, 1999, p. 392).
I pazienti a volte hanno bisogno dei sintomi se li intendiamo come le strategie di adattamento e regolazione delle emozioni che hanno adottato per sopravvivere. Qui l’aspetto che diviene più importante non è più tanto la risoluzione dei sintomi, ma il fatto che l’esperienza psicoanalitica permetta di individuare “nuove strategie” adattative e nuove modalità d’insight. L’attenzione si sposta oggi di più su come ci si adatta e si diviene autonomi e meno su quali sono state le modalità disadattive del passato che si ripetono nel presente. In questa direzione l’autonomia del paziente è al centro del lavoro analitico e l’azione terapeutica è in un certo senso un compromesso tra le risorse della mente dell’Analista e quelle del paziente. L’Analista dovrebbe adattare la sua cornice abituale e le sue regole in modo di tenere conto di quel paziente.
Come dice Thomas Ogden in un’intervista sulla Rivista di psicoanalisi: << (…) La mia responsabilità è offrire al paziente il miglior trattamento possibile per i suoi particolari problemi psicologici e fisici. Per dirla in modo più forte, la mia unica responsabilità è nei confronti del paziente e degli altri nella sua vita se vengono trattati in modo disumano da lui. … Se il paziente è in grado di utilizzare la psicoanalisi, cerco di inventarne una forma di cui egli possa avvalersi. Se il paziente soffre di una malattia, come la dipendenza dall’alcool o dalla droga, lo indico ad un programma di trattamento che offra aiuto a questi pazienti. …. Un analista non è una persona che pratica la psicoanalisi, un analista è una persona che porta sensibilità, formazione ed esperienza analitiche nel suo lavoro con i suoi pazienti” (Ogden, 2013). (Nota 2)
Nota 2 Mia traduzione
In un interessante saggio Judith Kantrowitz osserva che è l’incontro ciò che dovrebbe guidare l’azione terapeutica in psicoanalisi e, come già osservato, l’Analista non è a priori più esperto del paziente, così come ogni Analista dovrebbe essere consapevole che la propria teoria dell’azione terapeutica può limitare la sua comprensione del paziente (Kantrowitz, 2020). Ne consegue che è necessario che tra le virtù analitiche ci siano la flessibilità e la versatilità come del resto è sottolineato da Daniel Stern in quel bel saggio che è “Il tempo presente” in cui delinea quella che sé stata chiamata la “fenomenologia dell’ora” (Stern, 2005) (Nota 3).
Nota 3 Del resto gli studi relativi alla ricerca sull’efficacia della terapia mettono in evidenza che le terapie più efficaci sono quelle che si adattano in modo responsivo alle caratteristiche personali del paziente, alle sue inclinazioni, e visioni del mondo, aldila’ della diagnosi (Zavattini, 2022).
Sono posizioni presenti anche in Ferenczi che evidenziava il tema della necessaria umiltà che si deve avere nel lavoro terapeutico (Ferenczi, 1926), temi del resto non lontani dalle posizioni di Winnicott quando sottolinea l’importanza di “sapere ascoltare” e la necessità che un paziente si senta sostenuto (Winnicott, 1967). Potremmo dire che l’incontro è certamente determinato dalla soggettività del paziente e da quella dell’Analista, ma che bisogna mettere a fuoco e fare riferimento al fatto che questo incontro crea una realtà nuova, terza che è peculiare di quella coppia Analista/Paziente (Ogden, 2004).
E’ in questo senso che non dovremmo tanto parlare di un’azione terapeutica, ma di azioni terapeutiche come del resto bene mette in evidenza Gabbard nel suo noto lavoro Rethinking therapeutic action (Gabbard, Westen, 2003). Gli Autori osservano che l’interpretazione è in realtà solo una delle azioni terapeutiche a disposizione dell’analista per determinare un “processo trasformativo” e, nel tentativo di caratterizzare le tendenze e le controversie teoriche e cliniche odierne, sottolineano tre aspetti che attraversano il dibattito psicoanalitico contemporaneo.
- In primo luogo il declino del dibattito “interpretazione contro relazione” e la consapevolezza dell’esistenza di molteplici modalità di azione terapeutica.
- In secondo luogo lo spostamento dell’interesse dalla ricostruzione alle interazioni sul piano dell’hic et nunc tra analista e paziente.
- L’importanza della negoziazione del clima terapeutico.
Gli Autori mettono in evidenza, inoltre, che interventi che facilitano un cambiamento si possono classificare secondo tre categorie: quelli che favoriscono l’insight; quelli che fanno uso dei vari aspetti mutativi della relazione terapeutica; infine una varietà di strategie secondarie. Se infatti i principali veicoli di cambiamento sono la relazione terapeutica e l’acquisizione di insight o comprensione, vi è ora una maggiore consapevolezza della complessità dei canali comunicativi tra gli esseri umani.
Conclusioni
L’esperienza ci insegna ad apprezzare l’incertezza che accompagna la pratica clinica, ci aiuta a lasciarci attraversare dalla sensazione di non sapere cosa potrebbe accadere tra noi e i nostri pazienti e a tollerare l’idea di non conoscere quale sarà il prossimo passo. Nel tempo diveniamo sempre più capaci di tenere con noi questi dubbi senza affrettarci ad agire, a parlare, a chiarire. Infine, quando la nostra azione (la parola) arriva, spesso scopriamo che per i nostri pazienti quella parola ha un suono diverso da quello a cui avevamo pensato, che quello che a loro rimane è il tono della voce, un respiro, un movimento, qualcosa che non padroneggiamo pienamente, qualcosa che, cioè, sfugge alla nostra consapevolezza e controllo.
Ad oggi, quindi, è possibile affermare che se da un lato non esiste un consenso unanime del mondo psicoanalitico rispetto ad una specifica definizione dell’azione terapeutica (Green, 2005), dall’altro lato è però anche vero che più che in passato, siamo consapevoli della eccezionale complessità sia del funzionamento mentale, sia del processo analitico. L’azione terapeutica non è dunque più declinabile esclusivamente nella restituzione di una corretta interpretazione, conseguenza dell’intuizione dell’analista, della sua abilità nel porla e della sua capacità di rispettare un’appropriata tempistica. Essa è, infatti, affidata con eguale enfasi alla relazione analitica e, nello specifico, alla nuova esperienza relazionale (insight esperienziale) che si sviluppa al suo interno, così come ad altri aspetti dell’incontro, ad esempio quelli non verbali si pongono ora al centro della riflessione analitica (Ammaniti, Gallese, 2014; Bastianini, Ferruta, Guerrini Degl’Innocenti, 2021).
In sintesi potrebbero essere individuati alcuni punti: in primo luogo in questi ultimi anni sempre più viene sottolineata la centralità delle modalità con cui paziente e analista interagiscono, contribuendo all’interesse per un fenomeno clinico denominato “enactment” con cui ci si riferisce a quei momenti in cui l’analista si accorge di venire inconsciamente indotto ad “agire” da sollecitazioni transferali o identificatorie del paziente. Possiamo chiederci se la psicoanalisi possa essere ancora definita come un trattamento dove la dimensione dell’azione è assente e se siano ancora valide le parole di Freud secondo cui: <<Nel trattamento analitico non si procede a nient’altro che a uno scambio di parole tra l’analizzato e il medico>> (Boccara, Meterangelis e Riefolo, 2018). In questa prospettiva, Stefano Bolognini sostiene l’idea che l’area teorico-clinica dell’enactment costituisca la “quarta via regia” alla comprensione dell’inconscio, dopo il sogno, il transfert e il controtransfert (Bolognini, 2019).
In secondo luogo la questione di come le diverse forme dell’Inconscio, vengano rappresentate nella stanza di analisi rispetto all’azione terapeutica, nel senso che non esiste un unico percorso o obiettivo del cambiamento terapeutico, ma alcuni principi di cambiamento e le tecniche per stimolarlo sono probabilmente utili per tutti i pazienti, mentre altri lo sono per alcuni soltanto. Se, infatti vogliamo progredire nella teoria dell’azione terapeutica e nelle tecniche per promuovere il cambiamento, avremo bisogno di sviluppare modelli con fondamenti più sistematici, clinici e empirici che riguardino le aree funzionali che costituiscono la personalità (ad esempio, la motivazione, la cognizione, l’affetto, la regolazione degli affetti, la relazione d’oggetto) e le modalità attraverso le quali i processi, in ciascuno di questi ambiti possono essere distorti. In altri termini abbiamo necessità di una lettura complessa che eviti la semplificazione verso modelli teorici che sostengono un’unica causa dell’azione terapeutica.
Infine non possiamo sottrarci al difficile quesito relativo all’esigenza di individuare gli elementi di stabilità sia quelli di flessibilità: possiamo, infatti, chiederci se i pazienti necessitino soprattutto di stabilità per essere in grado di sopportare il grande impegno del lavoro analitico, oppure se abbiano bisogno di flessibilità come ha soprattutto sottolineato il Boston Change Process Study Group (2010). Come osserva Greenberg: << (… ) fa più paura la discontinuità o la rigidità?” (Greenberg, 2005, pag. 361).
Del resto gli studi che fanno riferimento all’infant research e al paradigma dell’attaccamento osservano che gli schemi generali (MOI) potrebbero non essere sufficienti a spiegare i principi intrinseci di organizzazione dell’esperienza interpersonale e come questa venga codificata e utilizzata nel legame tra una data madre e un dato figlio. Ogni bambino mostra infatti nei suoi incontri con gli agenti delle cure materne un suo particolare ritmo di “ingaggio”, un suo livello di attività, manifestazioni di affetto e di comportamento distinte, cosi come ogni caregiver porta nei suoi incontri con il bambino uno stile e “un’intensità di risposta” del tutto personali come hanno messo in evidenza Beebe e Lachmann (2014). Intendiamo dire che gli schemi di sviluppo – e anche la teoria della tecnica rispetto al rapporto tra un dato paziente e un dato analista – vanno visti rispetto ad entrambi gli elementi (rigidità/flessibilità).
Aron (1996) nel suo noto saggio “Menti che si incontrano” osserva che l’abbandono dell’idea dell’analisi come un’interazione tra una persona malata e una sana, come già messo in evidenza da Racker (Racker 1968), implica una rilettura di molte convinzioni tra cui quella relativa all’interpretazione. Aron sottolinea che le interpretazioni devono basarsi su qualcosa che sia diverso dalle regole dell’astinenza, dell’anonimità e della neutralità. Il costruzionismo sociale (Nota 4) introduce una visione dell’analista come co-partecipante coinvolto in un ambiente mutuo e asimmetrico. In questa prospettiva la soggettività dell’analista e il suo controtransfert non devono essere eliminati, ma usati. Assumono un ruolo centrale l’ambiguità e la molteplicità; il paradosso occupa quel posto centrale in cui prima prevaleva la chiarezza e l’identità.
Nota 4 Il costruzionismo socialeè una teoria della conoscenza nelle scienze sociali che esamina lo sviluppo di comprensioni del mondo costruite congiuntamente che costituiscono la base per assunti condivisi sulla realtà.
Come osserva Donnel Stern nel suo ultimo saggio l’azione terapeutica non può essere intesa come la rivelazione della verità da parte dell’analista sulla mente del paziente, perché quelle rivelazioni, derivanti dallo scenario relazionale in seduta, implicano la capacità dell’analista a parteciparvi in un processo spontaneo che emerge dal campo della seduta e nel proprio tempo. Il lavoro psicoanalitico richiede che analista e paziente trovino la propria identità in un modo che è inesplorato verso una trasformazione dei compromessi inconsapevoli della libertà del campo (Stern 2025). Se pensiamo quindi al tema di questo numero di Varchi rispetto alle eventuali istruzioni per muoversi nella contemporaneità, potremmo pensare al lavoro analitico come a ‘un’opera aperta’ che apre un dialogo continuo (Eco, 1962) che implica fluidità, intersezionalità e contaminazione in cui la consapevolezza della presenza di diversi vertici teorici in psicoanalisi va anche considerata rispetto ai contributi che hanno evidenziato il ruolo congiunto della “coppia al lavoro”, la soggettività dell’analista e il ruolo del campo, nonché il confronto con la moderna ricerca della psicologia e della psicopatologia dello sviluppo e delle neuroscienze (Moccia, 2020; Vigna Taglianti, 2022).
In altri termini, in questo scenario post-moderno la riflessione psicoanalitica odierna può apparire frammentata e divisa in modelli diversi, ma ciò che appare in primo piano come tendenza è la fisionomia relazionale, con la sua enfasi sulle rappresentazioni d’oggetto e del Sé nello sviluppo e nella patologia mentale e sulla definizione del setting come incontro co-costruito da entrambi i partecipanti.
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* Giulio Cesare Zavattini: già Professore Ordinario di “Psicopatologia delle relazioni di coppia e genitoriali”, Facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma; Psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e dell’International Psycho-Analytical Association (IPA); Membro del Tavistock Relationships Association of Psychotherapists and Counsellors (London). Membro della Redazione di ‘Rivista di psicoanalisi’; ‘Giornale Italiano di Psicologia’; ‘Interazioni’; ‘Terapia familiare’. E’ Membro dell’’International Advisory Board del “Journal of Couple and Family Psychoanalysis”. Fa parte del Comitato Editoriale di Psicologia della Casa Editrice Il Mulino. Recentemente con Patrizia Velotti ha curato il saggio ‘Teorie dell’azione terapeutica. Tra interpretazione e relazione’, Il Mulino, Bologna, 2023.