di Michele Corioni*
Come si genera il consenso? Ma, soprattutto, di cosa si tratta quando si parla di consenso? La scena politica contemporanea mostra un interesse patologico per il consenso. Opinionisti, giornalisti, politologi: tutti esprimono opinioni su come si formi il consenso, sul grado di consenso che un leader o una forza politica esprime in un dato momento, su come si perda il consenso. Ma raramente si procede ad un’analisi dei suoi presupposti. Di fatto in ogni epoca la politica ha avuto a che fare con il consenso. Sempre si è trattato di guadagnare il favore delle masse. L’elemento che caratterizza la contemporaneità nella sfera della produzione e del mantenimento del consenso sembra essere una relazionalità diretta tra il capo e i suoi seguaci/sostenitori. Già dei dittatori del XX secolo si disse che parevano istituire un legame con ciascuno dei loro uditori e questa connessione intima sembra essersi ormai sviluppata nelle sue forme più estreme. Ora non si tratta più di fare come se il capo stabilisse un contatto diretto con noi; ora si può veramente fare esperienza del contatto con lui. Gli strumenti della comunicazione virale rendono fruibile in ogni momento e in forme molteplici la situazione eccezionale del contatto con il corpo del capo. Si allestiscono ancora liturgie di immersione del capo tra la folla, nelle quali il capo espone il proprio corpo al contatto con i corpi dei seguaci, perché lo stare corpo a corpo è ancora il residuo arcaico e non sopito del difendersi reciproco che il gruppo umano delle origini mette in atto nel momento del pericolo. Con questo movimento si mette in salvo il capo e si viene da lui protetti ed è singolare questo meccanismo di difesa, se, come notò Canetti “tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati”[1]. Tuttavia, quando pericoli più netti si presentano o vengono paventati, il ricorso alla massa funziona come esorcismo alla stessa paura atavica dell’entrare in contatto.
Nei Vangeli troviamo una narrazione archetipica di questo fenomeno. Vi si narra che Gesù, durante il suo peregrinare in Galilea, era seguito da una folla considerevole. Marco[2] dice che la folla lo premeva da ogni parte, usando il verbo sunèilo, che tra i suoi usi attestati ha quelli che si riferiscono all’ammassarsi del gregge, allo stipare soldati dentro le mura, al rannicchiarsi dietro e sotto lo scudo di soldati che subiscono un forte attacco: situazioni che richiamano un senso imminente di pericolo e alludono al sollievo e alla sicurezza del ritrovarsi vicini e stretti. Sembra che con l’ammassarsi gli esseri umani esprimano la speranza che il pericolo passi in fretta e, miracolosamente, li ignori. Nell’episodio evangelico si narra di un’altra dinamica, che pertiene all’ammassarsi intorno al corpo del capo. Una donna, che soffriva di un male incurabile, fa un pensiero: se potessi anche solo toccare il suo vestito, sarò salva. Perciò, raggiungendo Gesù da dietro, ne tocca le vesti. Marco afferma che il solo contatto guarì la donna dal suo male. Non solo: l’evangelista afferma che Gesù si accorse di quanto era successo, perché sentì la forza (dynamis) uscire dal proprio corpo. Si voltò, dunque, e chiese: chi mi ha toccato il vestito? I discepoli obbiettano non essere strano, con tanta gente che preme da ogni lato, che qualcuno lo abbia toccato. Ma Gesù li ignora e cerca con lo sguardo l’autrice del gesto. Trovatala la dichiara salva in forza della sua fede (pìstis). L’intermezzo dei discepoli chiarisce i piani drammaturgici della scena rappresentata. Essi vedono solo la massa, di cui essi stessi fanno parte, e che già svolge quella funzione di autoprotezione che abbiamo evidenziato, ma ignorano un piano più intimo della scena, definito dall’intenzione della donna di toccare il corpo del capo. Questa intenzione determina un contatto, il quale, a sua volta, determina uno spostamento di potenza, un cambiamento fisico, non una suggestione immaginaria: ne risulta, infatti, la reale guarigione della donna da un male incurabile. Non a caso parlo di un piano più intimo, uno spazio di relazione esclusiva tra la donna e Gesù, perché il verbo utilizzato per descrivere il contatto tra i due è àpto, che possiede un ampio spettro di significati e usi, tra i quali: toccare, congiungere, connettere, sentire, percepire, unirsi sessualmente, attaccare, invadere. Assistiamo qui, nel nucleo della massa, al riproporsi del pericolo predatorio che sembra stare all’origine della formazione di massa. La donna si approccia proditoriamente al corpo del capo, nel tentativo di rubarne parte della forza. Sarà proprio questa consapevolezza a venirle riconosciuta alla fine: solo lei ha visto in profondità nella scena e ne ha colto la funzione essenziale, quella di rito che assicura la salvezza.
Quello che mi interessa qui, all’interno di un’analisi del fenomeno del consenso, è che la salvezza passa dal contatto. I fenomeni di massa o di culto della personalità rispondono con ogni probabilità a meccanismi di difesa del gruppo risalenti alla comparsa dell’homo sapiens. Si suppone che lo sviluppo delle civiltà comporti il progressivo abbandono di questi meccanismi, ma possiamo segnalare rigurgiti arcaici lungo tutto l’arco storico e persino la contemporaneità mostra il ricorso a dinamiche simili. Da un lato ciò dovrebbe indurci ad un’immagine meno lineare dello sviluppo umano; dall’altro i fenomeni di produzione del consenso contemporanei dovrebbero spingerci ad analizzarne gli elementi fondamentali, in quanto sintomi di evoluzione del genere umano. Per questo il titolo del presente contributo non è un mero vezzo lessicale: “Metafisica del consenso” significa che la riflessione sui fenomeni del consenso è in grado di condurci ad un punto di vista sulla totalità, posizione propria della metafisica.
Elemento fondamentale del consenso, condiviso con i fenomeni di massa, è il contatto. Che si tratti di un contatto epidermico o un contatto visivo, che attinga a diverse aree della sensibilità, il momento del contatto è imprescindibile nella costruzione del potere politico. Le diverse declinazioni del contatto determinano gradi diversi dello sviluppo nell’organizzazione politica degli esseri umani, perché la politica ha a che fare in modo preminente con i corpi degli esseri umani: l’organizzazione degli spazi, il rapporto tra numero di individui e mezzi di sussistenza, la relazione tra individui o gruppi e la Terra, le relazioni tra gli individui di un determinato gruppo umano e tra gruppi umani diversi. Questi e altri ambiti dell’azione politica si riducono all’aver a che fare degli individui gli uni con gli altri. In questo quotidiano avere a che fare gli uni con gli altri si decide delle nostre identità, dei nostri averi, del nostro destino, delle condizioni di vita dei futuri, della verità sugli antenati. Se accettiamo di definire la politica come l’arte dell’aver a che fare gli uni con gli altri, ci proiettiamo già in una dimensione tattile del politico, una dimensione in cui il contatto è già da sempre presupposto. In altri termini non ci sarebbe politica se gli individui fossero totalmente indipendenti gli uni dagli altri. Le monadi non hanno bisogno di politica: “Le monadi non hanno assolutamente finestre attraverso le quali qualche cosa possa entrare od uscire”[3], mentre gli esseri umani sono continuamente esposti alla compenetrazione reciproca. Ecco alcuni fatti sparsi che lo dimostrano: la vita intrauterina, l’attività sessuale di coppia, la comunicazione verbale, la compassione, il condizionamento reciproco e, non da ultimo, il consenso. Soprattutto: gli esseri umani sono nodi di scambi informativi da cui partono e a cui arrivano stringhe informative di ogni genere: tracce chimiche, impulsi sonori, concetti, simboli, beni, servizi e tutto ciò che può essere scambiato.
La domanda è: quanto spazio vuoto siamo disposti a sopportare tra un nodo e l’altro della rete informativa? La tesi di questo contributo è la seguente: l’umanità odierna sta diventando vieppiù insofferente rispetto al vuoto tra un individuo e l’altro. La tendenza preminente è quella di riempire ogni spazio tra gli individui. Il riempimento è attuato mediante la connessione reciproca sempre più stretta. L’obiettivo potrebbe essere quello di amalgamare progressivamente gli esseri umani in un unico super-individuo, un aggregato di massa unico sul modello del pianeta Solaris, nell’omonimo romanzo di Stanisław Lem[4] (1961): quello che gli astronauti incontrano come un corpo celeste, risulta essere un enorme essere vivente, col quale essi si troveranno ad interagire come con un’entità intelligente, per quanto di natura aliena. La particolarità di Solaris è quella di produrre visioni negli astronauti sottoforma di immagini impossibili di ricordi appartenenti al loro passato: la moglie defunta del protagonista, per esempio, che ritorna a vivere nella stazione orbitante intorno al misterioso pianeta e tormenta il protagonista mettendone a dura prova la sfera emotiva, oltre che l’equilibrio mentale nel suo complesso. Solaris è una buona immagine precorritrice dello sviluppo attuale delle interazioni comunicative tra gli esseri umani. Nel romanzo, infatti, la sfida posta agli astronauti è quella di comprendere dall’esterno il funzionamento di un organismo, che non ha riferimenti al di fuori di sé stesso. Solaris crea da sé la propria realtà. La tesi che intendiamo approfondire qui è che l’umanità, con la progressiva eliminazione degli spazi interindividuali, viaggia verso la meta della creazione autonoma di realtà. Gli individui, dunque, non sono monadi, ma appaiono comunque in cammino verso uno stato di super-monade, verso un futuro caratterizzato dall’assenza di politica, ovvero dall’assenza di mediazione. Intravide un simile sviluppo anche Teilhard de Chardin quando scrisse di “uno stato futuro della terra in cui la coscienza umana, pervenuta al termine della sua evoluzione, raggiungerà un grado supremo di complessità e pertanto di concentrazione per riflessione totale (planetizzazione) di se stessa con se stessa”[5]. Il termine “planetizzazione” è particolarmente impressionante per gli scorci che permette di intuire in connessione con i temi di cui stiamo trattatando.
In una sorta di visione newtoniana della comunicazione i soggetti si rivolgono agli oggetti del discorso posti ad una certa distanza di fronte a loro (objectum) a partire dai loro rispettivi punti di vista, che determinano il senso in cui gli oggetti vengono intesi, secondo uno schema di questo tipo:

Servono, poi, delle stipulazioni precise, che permettano di fare sintesi tra i sensi individuali e convincano i soggetti che stanno parlando della stessa cosa. La storia di queste stipulazioni è la storia della civiltà, del modo in cui gli individui e i gruppi hanno mediato tra le loro diverse visioni del mondo e della vita. Diciamo che l’Illuminismo è stata una stazione importante di questo percorso, con la sua enfasi sull’astrattezza dei principi, quasi a volerli preservare una volta per tutte dalle variabilità storiche. Il modello comunicativo in questione è newtoniano nel senso che la forza in grado di mantenere due soggetti nell’orbita dello stesso oggetto di discorso è piuttosto presupposta che realmente esperita. Essa esiste, perché siamo effettivamente in orbita intorno al medesimo punto, ma la stessa cosa può essere descritta in questo modo: i nostri movimenti reciproci mostrano che qualcosa ci mantiene in questi stessi movimenti, senza farci mai deflettere. Di fatto la forza gravitazionale è dedotta, ma, nella sua essenza, resta impalpabile. Il che è come dire che c’è uno spazio vuoto tra di noi, perché il medium che ci mantiene in orbita non ha materia in cui rivelarsi. Ciò che si mostra è la mediazione, l’azione del medio, che si esplica nell’effettiva comunicazione tra i soggetti.
Diversamente, se lo spazio tra i soggetti e l’oggetto non è vuoto, qualsiasi variazione di questo comporterà una variazione nella distanza di quelli:

In questa serie schematica possiamo vedere i soggetti che si avvicinano progressivamente fino a diventare una sorta di super-soggetto. L’avvicinamento è reso possibile dalla curvatura dello spazio tra di loro. Lo spazio può curvarsi, perché non è un’entità ideale, ma condivide alcuni caratteri materiali, che si traducono con l’affermazione che lo spazio non è vuoto. Questa impostazione sembra confermata dalla metafora biologica sottesa all’espressione “comunicazione virale”. I virus sono organismi che possono vivere (cioè moltiplicarsi, modificarsi, crescere) solo all’interno di un organismo ospite. Fuori dall’ospite il virus sopravvive in latenza, ma solo per un tempo limitato. Allo stesso modo la comunicazione è virale se può trasmettersi senza soluzione di continuità tra gli individui. Il fatto che ormai la comunicazione sia ovunque e per lo più di natura virale attesta il paradigma presupposto che tra gli individui sia possibile annullare, in linea di principio, ogni tipo di distanza o spazio vuoto. La principale conseguenza che deriva dall’ipotesi di uno spazio pieno tra i soggetti è la scomparsa degli oggetti o l’estinzione dei fatti.
Gli oggetti risultano come fagocitati dai soggetti e ciò ha una conseguenza interessante nella costruzione dell’immagine di habitat. Normalmente strutturiamo il nostro rapporto con le cose che sono altro da noi secondo schemi strumentali, finalizzati alla nutrizione. E’ plausibile che il linguaggio stesso sia, originariamente, un modo per colmare la distanza tra me e il mio pasto, quando questa distanza è superiore alla lunghezza del mio braccio. Attraverso il linguaggio gli esseri umani si coordinano nella caccia e di fronte a possibili pericoli. Occorre immaginare, ora, a fronte della scomparsa della distanza intraindividuale, un nuovo linguaggio o una nuova funzione delle parole.
Probabilmente sarebbe più corretto ipotizzare semplicemente che gli spazi tra gli individui del vecchio e del nuovo paradigma siano di natura completamente diversa, piuttosto che definire il primo come spazio vuoto e il secondo come pieno. Vuoto e pieno, in questo caso, definiscono aree semantiche che intendono essere presentate come opposte. Vuoto come il mondo delle idee: rarefatto, impalpabile, senza peso, senza corpo per quanto un mondo simile possa esistere. Pieno come il mondo delle passioni, dell’emotività, dei sentimenti, di quell’area porosa di confine tra corpo e anima. Se consideriamo un esempio potremo renderci conto di quali siano alcuni dei costituenti dello spazio pieno o emotivo. Supponiamo che una persona sia convinta che il monte alto 8848 metri, posto nella catena dell’Himalaya al confine tra Nepal e Cina, si chiami Everest e ne discuta con un Nepalese, per il quale il monte che corrisponde alle caratteristiche date si chiama Sagaramāthā. Il fatto, ritenuto ovvio, che i due possano addivenire ad un accordo su ciò che intendono con i termini Everest e Sagaramāthā sottende un vasto lavorio di interpretazione che tenga conto delle diverse lingue, tradizioni e di un numero imprecisato di altri fattori. In questa prospettiva i due individui partono da posizioni distinte e guadagnano un terreno comune grazie ad un’intensa opera ermeneutica. In questo caso lo spazio tra i due soggetti viene progressivamente riempito di nozioni aggiuntive, dimostrando con ciò di essere concepibile come spazio vuoto, suscettibile, quindi, di riempimento. Supponiamo che la prima persona esprima la volontà di scalare l’Everest e che la seconda obbietti che è impossibile scalare il “dio del cielo” (che corrisponde alla traduzione del termine nepalese Sagaramāthā), anzi, che l’idea stessa di posare dei piedi umani sulla sua cima gli ripugna profondamente. Di più: che nemmeno può concepire che qualcuno desideri compiere un atto tanto sacrilego. Lo scalatore potrebbe ribattere che lui, in effetti, lo sta desiderando. Il Nepalese potrebbe risolvere la discussione asserendo: “Tu desideri scalare l’Everest, ma non stai – né potresti mai – desiderare di scalare il Sagaramāthā”. Come è evidente il percorso di avvicinamento ermeneutico subisce qui uno scacco. In qualche modo non è possibile andare avanti. Intervengono qui alcune proibizioni religiose o tabù, che lasciano i due parlanti in posizioni inconciliabili. Lo spazio tra i due è, per così dire, pieno, né può stabilirsi una connessione ideale, perché forti sentimenti di natura religiosa si interpongono. I possibili esiti della discussione sono tre: a) lo scalatore decide di fare violenza alle credenze nepalesi e scala comunque la montagna; b) lo scalatore non scala la montagna, ma se ne andrà concependo disprezzo per le superstizioni locali; c) lo scalatore capisce il punto di vista del Nepalese e lo rispetta. In tutti i casi intervengono, si modificano o si formano sentimenti (violenza, disprezzo, comprensione empatica), il che avviene comunque su un piano già occupato da elementi emotivi o simbolici.
Scompare l’oggetto “montagna” e compaiono oggetti plurimi di natura culturale. Per essere chiari e non cadere in contraddizioni grossolane: la montagna non scompare, i dati fisici sono sempre lì davanti a noi, né sorgono dal nulla oggetti evanescenti come l’Everest o il Sagaramāthā. Semplicemente, tutti i dati fisici o culturali o emotivi o di altro tipo sono sempre lì davanti e a disposizione, ma vengono organizzati secondo priorità differenti.
Tutti noi siamo toccanti e toccati e determiniamo, entro questa relazione simmetrica, un universo che si configura come una rete. Persino un ipotetico centro, in questa galassia tattile, condividerebbe le caratteristiche essenziali di ogni altro punto della galassia. A differenza di relazioni tipo quella generante/generato, che implicano un’asimmetria di partenza (Pietro è generato da Paolo, che è generato da Tizio, che è generato da Caio, che non è generato da nessun altro), la relazione tattile genera un universo simmetrico. In questo universo tutti i termini verificano la relazione simmetrica data ℝmn, cioè toccano e sono toccati. Si potrebbe ipotizzare due evoluzioni diverse, a partire dalla medesima relazione simmetrica. Se postuliamo che il primo termine della serie possa toccare ed essere toccato solo dal medesimo altro termine della serie (ℝmm), stabiliamo con ciò una gerarchia, sebbene all’interno della simmetria propria della relazione ℝ. Possiamo continuare, quindi, a parlare di universo simmetrico. Ma potremmo anche immaginare un universo supersimmetrico, se liberassimo il primo termine della serie del suo primato e lo potremmo fare se ipotizzassimo che ogni termine della serie può toccare qualsiasi altro termine della serie ed essere toccato da qualsiasi altro termine della serie. In questo modo saremmo di fronte ad un modello di rete nel verso senso della parola. Ma come possiamo, in questo modello, individuare qualcosa come un termine primo? Esiste qualcosa di primo o originario nell’insieme dei nodi di una rete supersimmetrica?
Nell’universo asimmetrico (quello, per esempio, determinato dalla relazione di generazione) si sviluppano rapporti di potere gerarchici inamovibili. Tutto il potere discende dal suo punto di origine, senza possibilità di ribaltamenti o cambiamenti di direzionalità. Il primo termine della serie è talmente irraggiungibile da suggerire facilmente accostamenti sacrali. In questo modo il potere si struttura su un modello che possiamo chiamare “faraonico”. Nell’universo simmetrico abbiamo la possibilità di coinvolgere il primo termine di ogni serie nella stessa relazione in cui stanno tutti gli altri, ma vincoliamo o limitiamo la sua relazionalità entro certi confini. Possiamo parlare di “modello Versailles”, se immaginiamo che il re di Francia, entro la propria corte, godeva dello stesso tipo di relazionalità di tutti i suoi sudditi, ma, per l’appunto, all’interno di un perimetro specifico. L’universo supersimmetrico, invece, abbatte il perimetro protettivo della corte e sviluppa sistemi che dovrebbero, in linea teorica, garantire lo stesso tipo di accesso alla relazionalità propria di un certo universo. Parliamo, quindi, di “modello democratico”. Negli universi asimmetrici e simmetrici le limitazioni poste alla relazionalità che lega il primo termine agli altri possono essere interpretate come istituzioni del consenso verso il primus e si tratta di un consenso permanente. Nell’universo supersimmetrico non c’è necessità di garantire un consenso permanente. Se i sistemi teorici di distribuzione del potere funzionassero in concreto, sarebbe irrilevante attirare su di sé il consenso. Presto o tardi il potere passerà anche sulla nostra soglia. Se nelle società democratiche, più che altrove, si assiste ad una perenne gigantomachia intorno al consenso, ciò significa che queste società sono esposte alla tentazione continua di conquistare e conservare il potere. Ma vorremmo dire di più: nel passaggio ad un universo supersimmetrico cadono le barriere di distinzione tra gli individui, modificando in ciò anche il concetto di identità personale. Si apre, quindi, una vasta pianura di umanità nella quale ogni movimento è destinato virtualmente a propagarsi lungo tutta la serie costituita dai termini “esseri umani”. Questo spiegherebbe la volatilità contemporanea del consenso. Nella massa costituita dagli esseri umani in rete, cioè virtualmente in contatto con tutti gli altri membri della serie, ognuno ha facoltà di toccare chiunque ed essere toccato da chiunque. Se, come stiamo prospettando, il consenso nella pratica contemporanea è strettamente legato a fenomeni di contatto diretto, nell’universo supersimmetrico ci troviamo nella condizione in cui tutti potrebbero essere centri temporanei di consenso. La relazione toccare/essere toccati è in grado di sviluppare situazioni di consenso prima che insorga una necessità prettamente politica. In questo modo si vanno creando movimenti di aggregazione che, solo in un secondo tempo, possono ambire a diventare movimenti politici[6]. La dinamica riscontrabile in questi contesti mostra una doppia slatentizzazione delle potenzialità connesse alla relazione di contatto. Da un lato tutti possono toccarmi, dall’altro io posso toccare tutti. Pensiamo alla popolarizzazione (volgarizzazione) del leader: il capo non è più intoccabile, bensì cerca costantemente il contatto con i suoi seguaci. Il contatto con il capo non è più episodico, bensì quotidiano (il capo al risveglio, a colazione, al lavoro, mentre fa shopping, il capo a letto, il capo nell’intimità).
La caduta delle barriere sociali tra massa e capo sta nel segno di una progressiva perdita del sentimento del sacro. Sia nel senso remoto di Festo[7], sacro come maledetto, l’uomo colpevole di omicidio, che la comunità mette al bando, sia nel senso di Schmitt[8], sacro come sovrano, posto fuori dal cerchio sociale, perché solo fuori dal cerchio può dire la parola decisiva, quando serve, il capo gode di inviolabilità da parte della massa. Nella stratificazione dei significati la sacralità del capo politico si eleva, ma non rimuove la sacralità del reo. La volgarizzazione del capo, quindi, sembra assumere i tratti di una dismissione di responsabilità, una proclamazione di innocenza: se io sono come voi e voi siete innocenti (perché è un fatto primitivo che voi tutti siete innocenti), anch’io, vostro capo, sono innocente. Prendiamo qualcuno degli schemi retorici maggiormente uditi nell’attualità politica: ho fatto quel che ho fatto in quanto buon padre di famiglia, in quanto buon cristiano, in quanto buon italiano e così via. Non suonano, forse, come autoassoluzioni? Capo e massa si pongono sullo stesso piano, in un movimento convergente, che rende entrambi corresponsabili, come avviene quando il capo invoca per sé il giudizio, sapendo di chiamare in giudizio tutti e scongiurando, così, la condanna. Banalmente: fanno parte dei tutti anche i giudici che lo dovrebbero, eventualmente, condannare. E chi può ergersi a giudice della totalità? La distorsione del processo è chiara: un procedimento che dovrebbe mirare al giudizio del singolo viene allargato alla totalità e così vanificato. Ma come dobbiamo interpretare, in concreto, questa corresponsabilità cercata? Come comprendere il mettersi sullo stesso piano di capo e popolo?
C’è un aspetto per cui lo spazio emotivo potrebbe essere indicato come quello più consono alla comunicazione. La comunicazione virale, quella che si sviluppa nella pienezza dello spazio emotivo, potrebbe essere riguardata come una forma più completa di comunicazione o più rispondente ai criteri fondamentali di un atto comunicativo. Cerchiamo di capire il perché. “Comunicare” è un termine il cui concetto si rifà al latino communio/communitas, che descrive uno stare insieme legati da qualche forma di obbligazione o munus. Questo significato si riflette sulla coppia di aggettivi contrari commune/immune. In particolare, immune ha il significato di “libero da obbligo”. Se siamo nel campo degli obblighi, siamo nel campo dell’etica. Ma se la connessione tra gli esseri umani messa in luce dalla comunicazione virale è di tipo materiale, anche l’etica sottesa a questo tipo di connessione sarà di tipo materiale. Gli obblighi che si stabiliscono a partire dalla comunicazione virale sono di natura tangibile e non ideale, più adatti ad essere descritti in termini di sentimenti e passioni, piuttosto che in termini di idee. Siamo pienamente nell’ambito di un’etica materiale come teorizzato da Scheler[9].
La materia cui facciamo riferimento non ha nulla a che fare con una fisica dei corpi o una chimica degli elementi. Chimica e fisica sono già strutture ideali gettate come reti sulla materia, per poterne capire i meccanismi e il funzionamento. Quando parliamo di materia intendiamo piuttosto il “luogo della dissomiglianza”[10], l’aspetto delle cose che non permette nessun tipo di raffronto. La materia, dirà Plotino, si definisce per la sua diversità dalle cose determinate, cioè dotate di forma[11]. Nominandola “luogo della dissomiglianza”, Plotino dischiude un campo di indagine in cui sorgeranno anche le teorie psicanalitiche. Quanto, infatti, questa dissomiglianza richiama l’inconscio. Se la coscienza è il luogo della forma, la funzione che organizza i dati dell’esperienza sotto le spinte e le pressioni di ambiente e cultura, l’inconscio appare, invece, come il volto in ombra della realtà intellegibile, esattamente come la materia. Il termine latino materia trae in inganno, recando in sé la radice sanscrita matram: misura[12]. Ma Plotino si esprimeva in greco e parlava di hyle, che originariamente significa “legno di bosco”: la materia è la “cosa” che serve per “cosare”, il grado zero dell’intelligibilità, il ricettacolo di alcune funzioni primitive, condizioni essenziali per lo sviluppo dell’universo ordinato o “cosmo” (kòsmos = gioiello). Questo tipo di materia o cosa è impermeabile ai tentativi di concettualizzazione o misurazione, ma la si può trattare con l’interpretazione (ermeneutica), ovvero l’arte di cogliere gli indizi o segni. L’interpretazione diventa presto un tentativo di sistematizzazione della materia, secondo quella che sembra essere una costante dello spirito. Tuttavia, almeno all’inizio, l’ermeneutica ha a che fare proprio con la materia informe, con l’intero costituito dall’esperienza massiccia cui siamo integralmente esposti. Lo stesso linguaggio fisicalista della psicanalisi degli esordi, col suo parlare di resistenza o energia, illustra chiaramente un percorso ermeneutico nelle sue fasi embrionali, nel punto in cui ogni discorso, inevitabilmente, si stacca dalla materia per costruire schemi. Una certa idea della materia (sebbene “idea” sia un termine già connotato di schematismo, di visione) possiamo farcela pensando a quando, nell’estetica contemporanea, si pone l’attenzione agli aspetti materici dell’opera d’arte: non siamo qui interessati alla composizione chimica dell’opera, bensì all’effetto che, nel suo complesso, il materiale con cui è costituita l’opera fa su di noi, intesi a nostra volta come cose materiali.
C’è un aspetto inquietante della materia, un’oscurità intrinseca che fa diventare oscuro ogni tentativo di avvicinarvisi: “Ciò che non ha alcuna forma lo chiamiamo materia e dobbiamo percepire interiormente questa assenza di forma, mediante una negazione completa, se vogliamo avere un’idea della materia”[13]. Cosa intende Plotino con “negazione completa”? Come possiamo percepire dentro di noi la totale assenza di forma? E’ come se Plotino ci invitasse a gettare uno sguardo sul lato nascosto di noi stessi, quello che non percepisce, che non concettualizza, che non comprende, che non verbalizza: il lato che, semplicemente e brutalmente è. Lo stesso lato, verrebbe da dire, che si dimostra attivo e reattivo all’interno dei fenomeni di massa e nella comunicazione virale. Addivenire ad una conoscenza di questo nostro lato, equivarrebbe a sapere cosa pensa un sasso, qual è il linguaggio segreto delle cose, conoscere la cosa in sé (Ding-an-sich) di Kant, limite dinanzi al quale la sua filosofia si ferma: “Anche nel caso che potessimo portare la nostra intuizione al sommo grado della chiarezza, non faremmo per questo un solo passo verso la natura degli oggetti in sé stessi”[14]. Infatti, quando Kant parla di materia intende la materia dei fenomeni, cioè la sensazione, ovvero un’esperienza già intellettualizzata, non la totale assenza di forma di Plotino. L’esperienza per Kant è già parlante e la grammatica del suo discorso è basata sulle due coordinate di spazio e tempo, che sono le forme a priori di ogni esperienza possibile. Non è possibile parlare in assenza di forme di riferimento. Come parlare, dunque, della materia, di quell’oscuro spazio pieno che, nei fenomeni della comunicazione virale e della produzione di consenso, sembra unirci tutti in un amalgama privo di forme?
Quando Kant parla dei “giudizi segreti della ragione comune” potrebbe voler alludere alle propaggini non raziocinanti dell’individuo, le radici con cui le persone sono aggrappate al tutto indistinto dell’essere. Come parlare di ciò che sta al di là di questo limite? Il limite in questione è costituito dal linguaggio. Sembra che riusciamo ad occuparci solo di ciò di cui possiamo parlare[15], ma ciò non implica che l’indicibile non esista: del resto non stiamo, forse, assistendo all’avanzata dell’indicibile? Progressivamente i nostri linguaggi si fanno sempre meno referenziali, mentre aumenta lo sforzo coloristico-emotivo. Le funzioni referenziali del linguaggio stanno lasciando il posto a funzioni di espressione emotiva. Nel contempo i parlanti sono sempre più preoccupati delle sfumature emotive delle loro comunicazioni. L’uso pervasivo di simboli ed emoticon nella nostra comunicazione scritta è un fenomeno da leggersi in questa direzione. Persino le nostre rappresentazioni per immagini sono per lo più stereotipate o si avvalgono di estensioni simboliche (pose stilizzate). Naturalmente i linguaggi si sottomettono alle possibilità tecniche che ogni epoca offre loro, ma contestualmente le intenzioni comunicative si adattano ai mezzi disponibili slatentizzando un desiderio preciso: comunicare al di là delle parole o, al limite, senza parole.
Come possiamo definire una comunicazione sub o extralinguistica? Una comunicazione che lasci parlare i giudizi segreti della ragione comune? Vico parlava di qualcosa di simile, quando definì il senso comune come “un giudizio senz’alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano”[16]. L’argomento è dei più attuali, perché sembra che questo oscuro sentire comune sia l’unico appiglio, nonché il più solido, per parlare di oggetti come il popolo o la nazione e la controparte di ogni sforzo per costruire e conservare consenso è, appunto, qualcosa come il popolo. Il popolo è l’insieme di coloro che condividono tradizioni, usi, costumi, valori. Questa condivisione è la base sociale del consenso. La differenza tra questa impostazione del problema e quella che andiamo esplorando nel presente contributo è che per noi il consenso potrebbe avere una valenza più naturale che sociale. Tradizioni, usi, costumi e valori sono già sistemi simbolici e linguistici. Noi qui stiamo cercando di approfondire la possibilità che gli esseri umani siano indirizzati verso una comunanza più materiale, meno simbolica, altrimenti non potremmo spiegare agevolmente i fenomeni contemporanei della comunicazione virale, specialmente quelli legati alle dinamiche di consenso politico. Come spiegare, infatti, che popolazioni unite da un patto sociale postbellico possano tornare ad accarezzare temi razzisti o sciovinisti?
La storia si dimentica, come si dimenticano le parole. Del pari si può osservare come siano impulsi generati dalla grande paura a stimolare la costruzione razionale: ad esempio la fioritura filosofica ateniese dopo la grande paura delle invasioni persiane, o l’assetto democratico postbellico a partire dagli anni ’50 del XX secolo. Dopodiché i timori generati dalla grande paura si sopiscono e le energie creative dei gruppi umani sono liberate per compiti di natura razionale, artistica, simbolica: “[…] quando già si erano costituite tutte le arti […], si passò alla scoperta di quelle scienze che non sono dirette né al piacere né alle necessità della vita, e ciò avvenne dapprima in quei luoghi in cui gli uomini dapprima furono liberi da occupazioni pratiche”[17]. E’ da notare che il greco ha un termine specifico per indicare l’essere liberi da necessità pratiche: scholàzo. L’essere umano sta nello stato di/pratica la scholè quando non deve più preoccuparsi del piacere e della necessità, quando è libero, dunque, dalla propria materialità. Ma ad essa può tornare a rivolgersi in ogni momento, perché niente assicura che i guadagni della scholè siano perpetui. Lo stesso Platone allude alla possibilità che i periodi di razionalità diffusa all’interno del genere umano siano solo parentesi tra una catastrofe e l’altra[18], e, sebbene non sia necessario immaginare la distruzione di intere civiltà, quello che possiamo immaginare è l’annullamento, il sovvertimento di interi paradigmi conoscitivi o sociali o di sistemi etici. Ciò che, dunque, sembra essere più proprio al genere umano è la lotta per la sopravvivenza, piuttosto che la tranquillità del pensiero.
Dobbiamo chiederci, a questo punto, quale sia il terreno proprio della lotta del genere umano, per capire se si tratta dello stesso in cui hanno luogo i fenomeni di massa, di comunicazione virale e di costruzione del consenso che ci interessano. Abbiamo bisogno di spunti che vadano nella direzione di una descrizione dell’umanità come di un tutto organico, nel quale gli individui sono cellule strettamente connesse tra di loro, come può esserlo il sistema dei funghi (micelio), per esempio. Lo Spirito di Hegel offre un’interessante direzione di analisi: “Lo Spirito è la sostanza e l’essenza universale permanente, uguale a sé stessa; costituisce il fondamento e il punto di partenza inconcusso e indissolubile del fare di tutti, e ne è anche lo scopo e la meta, essendo l’in-sé pensato di ogni autocoscienza”[19]. Lo Spirito è il fondamento del fare di tutti, il terreno su cui poggia ogni azione, l’interno uguale in ogni tempo e ad ogni latitudine di ciascuna singola individualità autocosciente. Lo Spirito oggettivo, cioè vero della verità delle cose che sono complete e autosussistenti, equivale al popolo, cioè “l’individuo che è un mondo”[20]. Ora, noi qui siamo alla ricerca dei segni per cui il mondo viene ridotto all’interno dell’individuo, non fosse altro perché i fenomeni di globalizzazione, che Hegel non sospettava ancora, travalicano i caratteri di singoli popoli, spingendo all’estremo la dialettica che ne governa le fasi. Siamo davanti ad un solo popolo, il genere umano, perciò possiamo dire di assistere al divenire (hegelianamente) vero di un concetto: l’umanità.
Lo Spirito oggettivo è un prodotto del processo dialettico, che vede tra le sue stazioni preliminari il sorgere dell’autocoscienza. Per Hegel, dunque, sorge prima l’individuo, il singolo. Solo successivamente il singolo accede alla sfera collettiva. Diversamente accade per Sloterdjik: per lui il primum è già da sempre il doppio costituito da feto/placenta. La costituzione duplice originaria è uno dei fatti più rimossi della storia umana. I bambini nascono soli: sotto i cavoli, consegnati come corrispondenza dalla cicogna, fuoriuscenti dalla testa di Zeus … La narrativa individualizzante è stata fortemente impegnata a rimuovere la base materiale che costituisce il fondamento della collettività, eppure nei miti delle origini si è tenuta traccia della matrice materiale, collettiva del genere umano. Si pensi alla Genesi: Adamo viene impastato con la terra, Eva viene estratta dal corpo di Adamo, Dio modella l’argilla o lacera il corpo di Adamo, tanto che ne possiamo immaginare le mani sporche di limo o di sangue. Tutti i creatori stanno in una relazione di prossimità con le loro creature. Lo stesso verbo ebraico bara’ (creare) significa “staccare”, separare qualcosa da qualcos’altro, tanto che vi si può leggere un’allusione perplessa alla diabolicità della volontà creatrice: in greco diabàllo (da cui diabolus) significa appunto “dividere”. Dividere, separare implicano la coesistenza di generante e generato, la loro prossimità originaria. Abbiamo, quindi, buone ragioni per guardare criticamente al modello individualista, ma anche a quello personalista o soggettivista, a tutti i modelli che considerano il singolo superiore o precedente alla collettività. Abbiamo altrettante buone ragioni per investigare su un modello collettivo di essere umano, che già ab origine è debitore dello stare assieme. Potremmo, quindi, guadagnare elementi utili al trattamento dei fenomeni di produzione del consenso.
Nel primo volume di Sfere[21], Sloterdjik ci offre un’analisi approfondita della teologia trinitaria presa a modello di un impianto teorico in grado di concepire la connessione tra gli individui del tipo che potrebbe esserci utile per interpretare la contiguità tra le singolarità umane. Se l’analisi del modello trinitario sarà in grado di offrirci strumenti adatti all’interpretazione dei sistemi sociali contemporanei, potremo guadagnare un risultato interessante: la riprova, in questo specifico settore, che idee remote si fanno strada nel corso della storia e si inverano in impostazioni concrete, in base alle quali gli esseri umani finiscono per auto-interpretarsi. Il tentativo dei primi teologi cristiani di giustificare razionalmente le affermazioni neotestamentarie sui rapporti tra le entità Padre, Figlio e Spirito si sviluppa in un percorso di riflessione in tre fasi. Dapprima la preoccupazione è di natura topologica: come descrivere la suddivisione dell’Uno in tre parti, senza pregiudicare l’unità? Il problema è squisitamente platonico. Quando Platone commise il parricidio ideale ai danni di Parmenide, l’intenzione era quella di salvare le differenze riscontrabili con la semplice osservazione del mondo e la loro dipendenza dalla sfera dell’essere, concepita da Parmenide come perfetta, tonda, indifferenziata. Per il “terribile vecchio” (Parmenide) non era possibile pensare/dire ciò che non è, essendo il pensiero la stessa cosa che l’essere. Illusione sarebbe dire, per esempio: “Questo non è un uomo”. Per ovviare all’afasia conseguente alla rigidità dell’impostazione parmenidea, Platone suggerisce di far rientrare nella sfera dell’essere la categoria dell’alterità (eteròn). Anche l’altro, il diverso è essere. Dire che questo non è un uomo significa dire che è altro da un uomo (sarà, per esempio, un cane). La metafisica tenta, quindi, una descrizione delle regioni dell’essere. Mentre Parmenide pensa all’essere come ad un continente indivisibile, Platone propone di descriverne le parti o regioni, che Aristotele chiamerà “categorie”. Quando i teologi cristiani descrivono le persone della Trinità come luci indipendenti il cui effetto è un unico lucore, percorrono le stesse strade della filosofia ellenica, cercando di forzarla dall’interno, perché puntano a introdurre la differenza nel cuore stesso della sfera più vasta (Deus sive esse) e, nel contempo, a mantenerne l’intima unità. Lo strumento escogitato per ottenere questo obiettivo è quello di considerare le determinazioni come relazioni. Determinazione è qualsiasi caratteristiche che una cosa possiede e che la distingue da qualsiasi altra cosa. Spinoza sosteneva che ogni determinazione è una negazione, dimostrandosi in linea col pensiero parmenideo. I teologi cristiani si spingono a sostenere che ogni negazione è una relazione, cioè che il non essere questo e quello spostano necessariamente verso ciò che non si è. Esemplificando: non essere un animale sposta verso l’animale. Il fatto che Pietro non sia Paolo, spinge quello verso questo e così via. L’interdizione reciproca tra le persone della Trinità (il Padre non è il Figlio né lo Spirito, il Figlio non è il Padre né lo Spirito, lo Spirito non è il Padre né il Figlio) significa che ognuna delle tre tende la propria essenza verso un altro. L’introduzione di questo movimento tra le cose apre una nuova fase dello sviluppo concettuale trinitario: passiamo dalla topologia trinitaria alla dinamica trinitaria, espressa con termine ekporèusis o processio, cioè “uscita da sé”. Ai tempi di queste prime formulazioni non era noto il concetto di alienazione, anche perché la fonte della processione è infinita e nemmeno l’uscita da sé può depauperarla. L’uscita da sé del plesso trinitario è duplice: vi è un movimento interno ai tre, così come vi è un movimento verso la generazione. Le tre persone sono in una relazione estatica, che le conduce fuori da sé stesse. Nell’uscire da sé, esse generano il mondo, quasi che il mondo non fosse altro che il prodotto dell’intensificarsi della relazione tra loro. Il generato non esce dal generante come un prodotto dell’alienazione, cioè come la negazione assoluta o dialettica del genitore. Questo non potrebbe accadere, perché la negazione si concepisce qui come il richiamo costante a ciò che viene negato. Su questa impostazione si basano tutte le espressioni di nostalgia del divino e vi si può leggere un retaggio neoplatonico, una citazione del redditus o ritorno di tutte le cose al principio originario. Il fatto è che il principio non è solo originario, bensì conservativo. Non si limita a dare avvio ad un processo, ma lo mantiene in tutte le sue fasi. L’exitus della creazione rappresenta un investimento del creatore, dal quale si attende legittimamente un reddito, un ritorno. Entriamo così in una terza fase dello sviluppo del pensiero trinitario, che potremmo chiamare economia trinitaria. In questa fase fa il suo ingresso un concetto che appare sorprendente e decisivo: la perichorèsis o danza degli uni intorno agli altri. “Questa strana espressione designa niente di meno che l’idea ambiziosa secondo la quale le persone non sono localizzabili negli spazi esteriori attinti dalla fisica, ma creano, tramite la loro mutua relazione, il luogo in cui si incontrano”[22].
Il concetto si deve a Giovanni Damasceno, che ne parla nel suo De fide orthodoxa, ma risulta mutuato dalle trattazioni fisiche risalenti ai presocratici, per esempio Anassagora[23]. Lì la perichorèsis era un termine per descrivere il processo di formazione degli elementi. Nella teologia di Giovanni Damasceno, invece, il concetto osa esprimere l’atto di qualcosa che crea da sé la propria realtà o il proprio spazio: “Dio è luogo a sé stesso”[24]. Il luogo o mondo creato dalla perichorèsis ha una caratteristica particolare, che lo differenzia dall’idea di mondo sorta progressivamente dal lavorio del pensiero occidentale, giunta a maturazione con l’Illuminismo e scoppiata come una bolla nel XX secolo. Quest’ultima idea di mondo condivide alcune linee archetipiche con l’idea di Heidegger per cui l’essere umano (nella sua essenza, quindi il Dasein) è costituito intorno all’esperienza dell’essere gettati nella realtà. La “gettatezza” (Geworfenheit) è la condizione di chi, espulso violentemente dall’utero, si trovi ex abrupto a dover fare i conti con l’aria, con gli oggetti, con i colori, gli odori, i suoni. Non è concepibile, in questa versione, un essere umano prima del suo venire al mondo. L’individuo si definisce solo a partire dal suo in-essere nel mondo. Anzi: proprio perché l’architrave definitoria dell’essere umano è la sua avventura solitaria nel contesto del mondo già dato, proprio per questo motivo ci ostiniamo a parlare di noi come eroi solitari, definiti solo dal nostro malinconico cavalcare incontro alla nostra morte. Molto diversa è la situazione che si viene a creare con la visione pericoretica: “Colui che iniziasse a vivere come questo Dio [il Dio trinitario] non avrebbe bisogno di iniziare con l’essere-nel-mondo; le relazioni pure costituirebbero già un mondo prima del mondo. I dati esteriori non sarebbero mai i primi; il mondo in quanto tutto non sarebbe dato prima della complicità tra coloro che erano uniti alle origini; nessuna cosa potrebbe essere data per sé, isolatamente; ogni dono sarebbe un’aggiunta alla relazione. Il fatto che possa esistere una globalità data che porta il nome di mondo non è che una delle conseguenze dell’originario dono dell’appartenenza reciproca”[25]

Quanto questa immagine possa essere sovrapposta allo schema della comunicazione virale, che abbiamo esposto all’inizio di questo contributo, ci darà la misura di quanto un pensiero antico possa illuminare i fenomeni contemporanei. Come in quello schema in questo la connessione tra gli elementi è piena, non nel senso che gli elementi dello schema riempiano tutto lo spazio di discorso, ma piuttosto perché sono gli elementi stessi a determinare l’orizzonte di senso, lo spazio entro il quale ciò che si dice, si pensa, si ritiene, si fa acquista valore di realtà. E noi eravamo proprio alla ricerca di uno spazio pieno, che giustificasse le modalità con cui si modificano le attribuzioni di valore nelle società contemporanee. Dopo le abissali speculazioni della teologia trinitaria la storia assiste alla rottura della perichorèsis. Il mondo, in altri termini, non è riuscito a restare all’interno dello spazio autoprodotto dalle persone divine. Come nella Qabbalah, dove la luce che si trasmette da un ramo all’altro dell’albero della vita ad un certo punto rompe i vasi che la conservano e la trasmettono e precipita nella materia del mondo, così la molteplicità della creazione comincia a sentirsi estranea nello spazio, aliena nel cosmo, iniziando a fare l’esperienza dell’essere-gettato. Un elemento da solo è insostenibile, di fronte alla forza onnipresente della determinazione (l’essere questo o quello). Due elementi si fanno la guerra, come nella dialettica signore-servo di Hegel. Tre elementi creano lo spazio relazionale di cui abbiamo parlato or ora. Quattro elementi segnalano la fuoriuscita dallo spazio divino originario: “Il numero quattro sarebbe l’inizio di una reazione a catena di processioni al di fuori di Dio: con questo il reattore delle generazioni perderebbe il controllo, e la causa prima non potrebbe ripetersi con una similitudine sufficiente in ciò che essa provoca nelle istanze più lontane”[26].
Al termine della serie di emanazioni sempre più distanti dall’unità complessa originaria, termine costituito necessariamente dal tempo presente, si intravvede una sorta di ricostruzione di un amalgama in qualche modo simile all’organismo trinitario. Che questa ricostruzione sia in grado di ripetere l’esperienza originaria, non è possibile stabilire qui. Possiamo solo notare le somiglianze tra il dettato teologico e la situazione contemporanea, ricorrendo alla meditazione di un mito veterotestamentario: la torre di Babele. “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar. Si dissero l’un l’altro: Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra”[27]. La terra è diventata globo, cioè spazio definibile e definito in ogni sua parte e non luogo misterioso, oggetto di esplorazione e scoperta. L’ingrediente fondamentale della globalizzazione è la lingua communis, una nuova koinè operante secondo le stesse regole per tutti gli esseri umani. Ma c’è di più: tutti gli esseri umani, si dice, usano le stesse parole. Stessa lingua, stesse parole: certamente una cosiddetta ripetizione retorica, che mantiene, tuttavia, una funzione rafforzativa. Gli esseri umani usano tutti le medesime espressioni, chiamano le cose allo stesso modo. Si avviano verso l’obiettivo di sentire allo stesso modo. Emigrando da est, secondo il percorso apparente e originario del sole, giungono nella pianura, il luogo aperto, privo di difese naturali. Questo è il segno che gli esseri umani hanno realizzato la pace universale. Non si parla, infatti, di un popolo particolare, bensì di tutta l’umanità. Si intende, quindi, una situazione di pace globale: non c’è più motivo per temere aggressioni e ci si può permettere di accamparsi all’aperto. La difesa necessaria è assicurata dal numero. La massa inizia a trasmettere impulsi al proprio interno: venite; venite. E’ un invito a intensificare la densità della massa; si trasmette dal centro verso le periferie e ritorna. Prima di tutto la massa sollecita sé stessa alla costruzione di mattoni, cioè alla produzione massificata di elementi in serie. Come le parole sono uguali, così i mattoni. Tutto allude all’indistinzione tra gli individui. Via via che la massa si addensa, scompaiono le differenze: è il momento in cui la massa diviene città. L’inurbamento segna il punto massimo di addensamento della massa nella dimensione orizzontale. Se la massa intende crescere ulteriormente, deve occupare un’altra dimensione, quella verticale. Ed è quello che accade. Il motivo di questa scalata è quello di farsi un nome (sem) o fama. Il nome è necessario per non disperdersi nello spazio, per non tornare nella condizione di gettatezza, esposti al mondo. Farsi da sé il proprio nome serve a ricostruire la condizione di perichorèsis, di danza degli uni intorno agli altri, una condizione sentita come desiderabile, non più esposta alle esigenze ambientali. Sappiamo come finisce la storia. Dio scese a vedere cosa stessero facendo gli uomini e valutando l’irreversibilità del loro progetto, ne confuse le lingue e li disperse nuovamente nello spazio. Non fece altro che ribadire le differenze tra loro e tanto bastò a chiudere la porta del cielo (Babele).
Ciò che dobbiamo fare, a questo punto, è leggere in trasparenza il mito di Babele sovrapponendolo alla situazione contemporanea e tirare le fila di questo discorso alla ricerca dei principi metafisici del consenso. L’obiettivo del nostro ragionamento era quello di comprendere alcuni elementi fondamentali dei fenomeni di consenso. Abbiamo chiamato ciò “metafisica del consenso”, perché ci aspettavamo di incrociare elementi non transitori, bensì fondanti della stessa natura umana. Abbiamo impostato un percorso in sei passaggi, che ora ripercorrerò brevemente, tentando una sintesi.
- Fenomeni di contatto: il consenso appare come un complesso di interazioni reciproche, che avviene all’interno di un gruppo umano. Le interazioni necessarie allo svilupparsi del consenso negli scenari contemporanei sembrano aver poco a che fare con processi razionali di convincimento o persuasione. Per comprendere questo fatto abbiamo ipotizzato due schemi comunicativi: schema di comunicazione ideale newtoniana e schema di comunicazione a distanza zero.
- Spazio vuoto e spazio pieno: con queste espressioni abbiamo tentato di descrivere due ambienti diversi, nei quali la comunicazione tra gli individui assume caratteri distinti. Lo spazio vuoto è quello che richiede molteplici mediazioni per avvicinare i parlanti e lo stesso avvicinamento non rischia di confondere le individualità in gioco. Lo spazio pieno è quello che non prevede soluzione di continuità tra i parlanti. L’identità dell’uno sfuma in periferie emotive che si confondono con le periferie dell’altro. Virtualmente un impulso non è attribuibile più all’uno che all’altro, perché ognuno lo può riconoscere come proprio. Ci è parso che questo scenario giustificasse in maniera più appropriata i fenomeni di comunicazione virale.
- La materia dello spazio pieno: ricorrendo a suggestioni neoplatoniche abbiamo cercato una descrizione plausibile della materia che costituisce il continuum tra gli individui. L’espressione “luogo della dissomiglianza” è risultata centrale, perché nel processo di fusione tra gli individui il terreno di scontro è quello in cui si gioca l’importanza delle differenze tra gli uni e gli altri. Quanto siamo disposti a rinunciare alla nostra identità individuale? Quanto siamo idealmente attaccati al nostro centro di personalità e quanto vi rinunciamo nella pratica quotidiana?
- Linguaggio della dissomiglianza: l’ambiente determinato dalla materia/spazio pieno tra gli individui richiede un linguaggio adatto. Normalmente il linguaggio privilegiato è di tipo referenziale: serve a parlare di/riferirsi a qualcosa. Ma in uno scenario in cui tendono a scomparire le differenze, i confini quale linguaggio potrebbe risultare più adeguato? Parlare di qualcosa implica una distinzione a priori tra soggetto e oggetto, e comporta successive distinzioni tra soggetti diversi. Se queste distinzioni decadono è ancora possibile parlare di/su? L’ipotesi di una interazione totale tra individui sembra spingere verso il limite della comunicazione senza parole e diversi fenomeni comunicativi contemporanei sembrano adattarsi bene a questo destino.
- Modelli di umanità: il pensiero ha avuto sempre a che fare con le dinamiche tra singoli e collettività. Abbiamo accennato a due modelli: a) modello hegeliano – individuo ® collettività; b) modello di Sloterdjik – collettività ® individuo. Il primo costituisce il frutto della millenaria riflessione occidentale. Sebbene l’enfasi finale sia data allo stare insieme, il seme originario è posto nel terreno della costituzione individuale. Il secondo modello si è formato osservando le evoluzioni culturali contemporanee e propone uno schema in cui la priorità è accordata allo stare insieme.
- Elementi di una metafisica pluralista: seguendo gli spunti di Sloterdjik abbiamo incontrato il concetto teologico di perichorèsis, escogitato nell’ambito della riflessione teologica sulla Trinità. Questa “danza degli uni intorno agli altri” mostra profonde assonanze con la situazione attuale, creatasi dalla diffusione capillare della comunicazione a livello globale. Questo ci ha portato a ipotizzare che un’ispirazione concettuale antica possa essersi trasmessa lungo i secoli fino a diventare uno dei possibili modelli secondo cui l’umanità si avvia a trasformarsi. La caratteristica principale della perichorèsis è quella di essere una creazione autonoma di spazio. In questa prospettiva gli elementi in campo non vengono più a trovarsi in uno spazio già dato, nel quale è sperimentabile il sentimento di esservi gettati, di essere alla ricerca di un senso per il nostro essere al mondo. Piuttosto gli esseri umani tendono a costruire lo spazio che abitano, con l’ovvia conseguenza che si tratta di uno spazio pieno. Dobbiamo pensare, infatti, che se lo spazio viene costruito da noi, la sua materia sarà esattamente quella che vi mettiamo noi.
I fenomeni di produzione, trasmissione e conservazione del consenso (e i fenomeni comunicativi attualmente correlati come la comunicazione virale e la connessione globale) denunciano un mutamento antropologico in atto. L’ipotesi che si stia andando verso la costituzione di un Leviatano costruito non per adesione verbale, bensì per contiguità materiale tra i suoi membri ha ottime ragioni per essere approfondita. Senza bisogno di troppa concentrazione è possibile udire i tamburi della comunicazione globale: venite, venite. Se stiamo andando veramente verso la realizzazione della perichorèsis, non possiamo dimenticare che in essa avviene anche il mantenimento delle differenze. Nella pianura di Seennar gli esseri umani costituiscono una città, un quadratum. La comparsa del numero quattro segnala l’allontanamento dal progetto originario della perichorèsis trinitaria. L’impresa globalizzante umana potrebbe cadere a causa dell’incuranza verso le differenze, mentre la sfida intellettuale lanciata dalla teologia tardoantica era proprio quella di mantenere contiguità stretta e differenza tra gli elementi. L’apologo di Babele, infatti, ci mette di fronte a uno scenario di indistinzione e morte delle differenze e prospetta un finale in cui queste differenze trovano sempre la strada per riemergere. A costo di sentirci, nuovamente, dispersi nello spazio.
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*Michele Corioni. Operatore sociale. Filosofo. Lavora presso Cooperativa Agorà (Genova). E’ presidente dell’Associazione La Bottega dell’Anima.
[1] E. Canetti, Massa e potere, a cura di F. Jesi, Adelphi, Milano 200613, p. 17.
[2] Mc 5, 24-34.
[3] G. W. Leibniz, Monadologia, a cura di G. Tognon, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 75.
[4] S. Lem, Solaris, a cura di V. Verdiani, Sellerio, Palermo 2013.
[5] P. Teilhard de Chardin, L’avvenire dell’uomo, a cura di F. Ormea, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 195s.
[6] A questa tipologia appartengono i movimenti della cosiddetta antipolitica, che, più correttamente, dovrebbero essere definiti “prepolitici”.
[7] “At homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed qui occidit, parricidi non damnatur”, Paolo Diacono, Excerpta ex libris Pompei Festi de verborum significatu, a cura di W. M. Lindsay, Leipzig 1913.
[8] “[Il sovrano] sta al di fuori dell’ordinamento giuridico e, tuttavia, appartiene ad esso, perché spetta a lui decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa”, C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 2015, p. 34.
[9] M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, a cura di R. Guccinelli, Bompiani, Milano 2013.
[10] Plotino, Enneadi, I, 8, 13, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano 1992, p. 183.
[11] Id., III, 4, 13, p. 251.
[12] Più suggestiva sarebbe la dubbia etimologia di materia da mater: la madre come archetipo della cosa priva di ogni altra determinazione, ma non per questo inerte, bensì dotata di immenso potere di agire e di produrre.
[13] Plotino, ivi, I,8,9, p. 163.
[14] I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Utet, Novara 2013, p. 114.
[15] “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”, L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 1998, p. 109.
[16] G. B. Vico, La scienza nuova, a cura di P. Rossi, Utet, Torino 20049, p. 179.
[17] Aristotele, Metafisica, A 1, 986 b 20, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 19973, p. 7.
[18] Platone, Timeo 22 C, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 19972, p. 65.
[19] G. F. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 292.
[20] Id., p. 293.
[21] P. Sloterdjik, Sfere I. Bolle, a cure di G. Bonaiuti, Meltemi, Roma 2009, pp. 529-551.
[22] Ivi, p. 543.
[23] “Proprio questo rivolgimento (perichorèsis) li ha fatti disgiungere e per disgiunzione dal raro si forma il denso, dal freddo il caldo, dall’oscuro il luminoso, dall’umido il secco” in I presocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, p. 1079.
[24] Giovanni Damasceno, La fede ortodossa, Roma, Città Nuova 1998, p. 81.
[25] P. Sloterdjik, op. cit., p. 546.
[26] Ivi, p. 549.
[27] Gn 11, 1-4.