di Cecilia Serena Pace*
“Mi hanno soprattutto colpito due fatti. Il primo era che dove esisteva un vincolo paterno particolarmente intenso, là vi era stata (…) una fase precedente di esclusivo vincolo materno, della stessa intensità e passionalità (…). Il secondo fatto dimostrava che si era molto sottovalutata la durata nel tempo di questo vincolo materno (…). Tutto, nell’ambito di questo primo vincolo materno, mi sembrò così difficile da afferrare analiticamente”.
Sigmund Freud (1931)
Origini: focus sul sistema, sul comportamento e sul legame
Quando John Bowlby, psicoanalista inglese, negli anni ’60, formulò la teoria dell’attaccamento due concetti principali catalizzarono l’interesse: a) gli aspetti etologico-evoluzionisti del sistema motivazionale comportamentale di attaccamento del bambino (nota 1) attivato nei confronti di una figura adulta, capace di funzionare da “base sicura”; b) l’importanza delle esperienze relazionali reali, vissute nella prima infanzia, sullo sviluppo psicologico successivo, con una particolare attenzione alle esperienze di separazione, di abbandono, di minaccia e di perdita (Bowlby, 1988).
I biografi di Bowlby (Holmes, 1993) hanno spesso messo in evidenza che la sensibilità verso gli effetti sul bambino dell’allontanamento da figure affettivamente significative derivasse, da un lato, dalla sua stessa esperienza infantile di essere stato separato dalla bambinaia che lo aveva accudito nei primi anni di vita, dall’altro, dagli anni giovanili di formazione e tirocinio svolti presso un’istituzione d’avanguardia e di stampo psicoanalitico che si occupava di ragazzi disadattati (Bowlby, 1944), le cui vicissitudini familiari lo avevano sensibilizzato notevolmente rispetto al ruolo significativo da attribuire all’assenza di una relazione affettiva stabile con una figura specifica durante la prima infanzia nell’eziopatogenesi dei disturbi psicologici e comportamentali successivi.
Molto presto Mary Ainsworth, statunitense cresciuta in Canada con una robusta formazione come metodologa e psico-diagnosta, iniziò a collaborare con Bowlby e sviluppò una metodologia sperimentale di separazione e riunione (tra bambino e genitore) denominata Strange Situation Procedure (SSP, Ainsworth et al., 1978), finalizzata a classificare le differenze individuali dei pattern di attaccamento infantili – sicuro, evitante, ambivalente e disorganizzato – focalizzando ulteriormente l’attenzione teorica ed empirica sul livello osservativo-comportamentale del legame di attaccamento bambino-caregiver. La possibilità di disporre di una metodologia valutativa così robustamente radicata nella teoria come la SSP, da un lato, ha avuto enormi vantaggi perché ha consentito di produrre un’impressionante mole di dati di ricerca sullo sviluppo infantile tipico che hanno, a loro volta, sostenuto la teoria consolidandola nel contesto della psicologia evolutiva accademica; dall’altro lato, il focus sulla prima infanzia ha per lungo tempo tenuto a distanza i clinici che si occupavano di adulti, in particolare i terapeuti di orientamento psicoanalitico, da sempre restii a ragionare in termini di classificazioni. In questa prospettiva, infatti, vanno comprese le severe critiche inizialmente rivolte dai membri della British Psychoanalytic Society alle idee di Bowlby, accusato inoltre di porre eccessiva enfasi sull’influenza del mondo esterno nello sviluppo psicologico infantile a scapito dell’approfondimento degli aspetti intrapsichici e fantasmatici (Fonagy, 2001).
Il passaggio a livello rappresentazionale e il ritorno alla clinica
Da diversi anni è in atto il bridging the gap ovvero quel processo di riaffermazione della teoria dell’attaccamento in ambito clinico, da sempre auspicato da Bowlby, grazie in buona parte alla sempre maggiore attenzione alla dimensione rappresentazionale dell’attaccamento che ha segnato il riavvicinamento alle teorie psicoanalitiche moderne vicine all’infant research e l’integrazione con i costrutti della psicologia cognitiva.
Fin dai primi capitoli di Attaccamento alla madre (1969) Bowlby evidenziò, desumendolo da psicologi cognitivi quali Craik e Young, il concetto di Modello Operativo Interno (MOI): in base alle ripetute interazioni affettive non verbali con le figure di attaccamento, alla loro accessibilità emotiva e responsività sensibile e, in seguito, anche alla coerenza dei “modelli narrativi” da loro proposti, il bambino costruirebbe appunto il MOI che comprende rappresentazioni complementari del Sé, dell’Altro e della relazione Sé-Altro e che lo indurrebbe a crearsi aspettative sul comportamento degli altri significativi in base al quale auto monitorare le proprie azioni.
Il costrutto di MOI consisterebbe, quindi, in un meta-modello che comprende un sistema di rappresentazioni organizzate gerarchicamente da un livello più vicino all’esperienza fino ad un livello più lontano da essa, globale ed astratto, che influenzerebbe lo sviluppo successivo sia in termini di filtro percettivo-interpretativo, sia di guida nel comportamento nell’ambito delle relazioni significative (Bretherton e Munholland, 1999). Dal punto di vista clinico, Bowlby nel secondo e terzo volume della sua trilogia (Bowlby 1973, 1980) approfondì le possibili distorsioni che i MOI costretti a strutturarsi nell’ambito di relazioni anaffettive o di carenze effettive di rapporti significativi (separazioni, lutti, etc.) possono subire, creando i presupposti per futuri disturbi psicologici.
Successivamente Mary Main, allieva di Mary Ainsworth e con una formazione da psicolinguista, propose una valida integrazione alla concettualizzazione dei MOI definendoli come: <<Un insieme di regole coscienti e/ o inconsce che consente di organizzare l’informazione relativa all’attaccamento e di permettere o limitare l’accesso a tale informazione, in rapporto a esperienze, emozioni e idee concernenti l’attaccamento… Le differenze individuali dei modelli operativi interni non saranno correlate soltanto alle differenze individuali dei tipi di comportamento non verbale, ma anche a quelle dei tipi di linguaggio e di strutture della mente” (Main et al., 1985, p.109-110).
I MOI disporrebbero, quindi, della potenzialità di costituire non solo il contenuto delle rappresentazioni (per es., figura di attaccamento disponibile, Sé buono ed efficace, relazione reciprocamente soddisfacente, etc.) e delle aspettative sulle relazioni, ma anche di organizzare diverse competenze cognitive, come memoria e linguaggio, e metacognitive relative alle esperienze di attaccamento e, soprattutto, sarebbero rilevabili in età adulta. In linea con questi presupposti teorici, Main e il suo gruppo svilupparono l’Adult Attachment Interview (AAI, Main, Hesse e Goldwyn, 2008), un’intervista semi strutturata che indaga lo stato della mente rispetto all’attaccamento negli adulti con le proprie figure di accudimento ad un livello di memoria sia semantico, sia episodico e prevede domande che riguardano situazioni emotivamente connesse al sistema motivazionale dell’attaccamento (separazioni, perdite, minacce, malattie e turbamenti emotivi) finalizzate a “sorprendere l’inconscio”.
L’aspetto più centrale del complesso sistema di codifica dell’AAI (Main, Goldwyn e Hesse, 2003) è che l’individuazione delle differenze individuali dello stato della mente rispetto all’attaccamento – sicuro, distanziante, invischiato e irrisolto – si effettua non tanto in base al “cosa è raccontato” cioè al contenuto, positivo (es. “Andava tutto bene, mai nessun problema”) o negativo (es. “Non andavamo per nulla d’accordo”) della narrazione, quanto al “come è raccontato”, ovvero allo stile del discorso che emerge nella narrazione delle proprie vicende evolutive, valutato principalmente sulla base della coerenza narrativa. Questo costrutto comprende la capacità di un individuo di narrare la propria storia familiare in termini contemporaneamente verosimili, succinti ed esaustivi e che sottintende una comprensione del contesto situazionale dell’AAI, e quindi, di adempiere o meno al “principio di cooperazione” che, secondo il filosofo linguista J.P. Grice caratterizza gli scambi conversazionali intenzionali intesi come comportamenti finalizzati e riferiti ad uno specifico contesto verbale ed extra-verbale. Persone classificate come “sicure/autonome” nell’AAI esporranno ricostruzioni retrospettive rilassate, internamente coerenti e plausibili, e si dimostreranno riflessivi ed obiettivi nel valutare le conseguenze che le prime relazioni di attaccamento hanno avuto sullo sviluppo della loro personalità. Individui le cui AAI saranno classificate come “distanzianti” produrranno resoconti poveri di episodi autobiografici, incompleti, contraddittori e tendenzialmente idealizzanti e svaluteranno le esperienze di attaccamento. Gli intervistati “preoccupati/invischiati” nell’AAI presenteranno narrative confuse, poco obiettive e attualmente coinvolte nei precoci rapporti affettivi. Inoltre, potrà essere aggiuntivamente attribuita la categoria “irrisolti/disorganizzati”, qualora gli intervistati, manifestino, durante in risposta alle specifiche domande dell’AAI che affrontano la problematicità della perdita e dell’abuso, lapsus del linguaggio e del ragionamento che rimandano a fenomeni dissociativi (Main, Goldwyn e Hesse, 2003).
L’AAI e soprattutto la logica sottostante hanno avuto un enorme impatto sul piano scientifico e clinico. In ambito di ricerca ha offerto la possibilità di ampliare gli studi della teoria dell’attaccamento agli adulti e, quindi, di produrre un’ampia mole di risultati di ricerca in ambito evolutivo a sostegno della trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento tra genitori e figli, di sviluppare produttive aree di indagine come quelle legate all’adolescenza e ai legami di coppia, di esplorare le relazioni tra lo stato della mente dell’attaccamento e le condizioni psicopatologiche degli adulti. In ambito clinico, prestare attenzione ai processi narrativi in stanza di terapia dalla prospettiva dell’AAI e della coerenza del discorso, permette al terapeuta di organizzare in modo più sistematico quello che è sempre: <<Stato intrinseco a un buon ascolto clinico: l’ascolto dei cambiamenti della voce, delle contraddizioni logiche e/o fattuali, dei lapsus, delle divagazioni e dei fallimenti nella ricerca di significati, e delle sottili, progressive rotture e fluttuazioni nella struttura e nell’organizzazione del discorso. In verità, queste modalità di attenzione ai momenti in cui l’esperienza non può essere contemplata o mentalizzata offrono al terapeuta una visione del modo in cui il paziente difende se stesso dall’intrusione di sentimenti o di ricordi inaccettabili nel pensiero cosciente>> (Slade, 1999, p. 659-660).
Lo stato dell’arte della teoria dell’attaccamento in psicoterapia
Premesso che possiamo considerare ormai un dato il bridging the gap tra ricerca e pratica clinica nell’ambito della teoria dell’attaccamento, nello specifico contesto dell’intervento psicologico-clinico e psicoterapeutico sono stati messi in luce due principali tipi di approcci, il primo si potrebbe chiamare attachment informed (o attachment oriented) psychotherapy e il secondo tipo si potrebbe, invece, definire attachment-based psychotherapy (Obegi e Berant, 2009). Le differenze potrebbero essere sintetizzate come segue:
- l’approccio attachment-informed: riguarda tutti i clinici, prevalentemente di orientamento psicodinamico, che hanno integrato la prospettiva dell’attaccamento nel trattamento psicoterapeutico mutuandone metodologie e costrutti. Pur considerando le dinamiche inerenti l’organizzazione dell’attaccamento e i principi organizzativi che sorgono dalle prime relazioni con un adulto come i punti centrali nella psicoterapia di pazienti che lottano contro gli effetti di un attaccamento insicuro o disorganizzato e pur promuovendo come funzione principale del terapeuta quella di fornire una base sicura al paziente che gli consenta di esplorare i propri modelli rappresentazionali del Sé e delle figure di attaccamento, questo folto gruppo di clinici e ricercatori – all’interno del quale annoveriamo tra gli altri Arietta Slade, Howard e Miriam Steele, David Wallin, Robert T. Muller – ritiene che i costrutti dell’attaccamento non definiscano l’individuo in tutta la sua complessità, per cui mantengono sostanzialmente immodificate le tecniche di intervento psicoanalitico contemporanee;
- L’approccio attachment-based: riguarda invece gli interventi psicologico clinici – sviluppati prevalentemente all’interno dell’orientamento cognitivo-comportamentale – molto strutturati, brevi, focalizzati, time-limited, che fanno ampio riferimento alle concettualizzazioni dell’attaccamento e che delineano obiettivi circoscritti riferiti a costrutti specifici alla teoria dell’attaccamento (es. migliorare la sensibilità genitoriale, implementare la funzione riflessiva, la capacità di regolazione diadica, etc.), impiegando un vasto raggruppamento di tecniche rogersiane, dinamiche, sistemiche e cognitivo-comportamentali. All’interno di questo approccio tra gli esempi più rappresentativi e che hanno dato prove di efficacia troviamo: il Video-feedback Intervention to promote Positive Parenting and Sensitive Discipline (VIPP-SD) del gruppo olandese (Juffer, Bakermans-Kranenburg, van IJzendoorn, 2007) che lavora sulla relazione diadica caregiver-bambino (1-5 anni) utilizzando il video-feedback per promuovere la sensibilità genitoriale; il Circle of Security (COS) di Marvin e colleghi (Marvin, Cooper, Hoffman, Powell, 2002) un programma di intervento precoce per genitori ad alto rischio e i loro bambini il cui scopo principale è aiutare i caregiver a ridefinire l’accuratezza delle rappresentazioni del bambino e del sé nel momento in cui sono chiamati a svolgere la funzione di base sicura o di rifugio sicuro nei confronti dei figli; il Connect Parent Program (CPG®), un intervento di gruppo per genitori e caregiver di adolescenti sviluppato da Marlene Moretti (Moretti e Obsuth, 2009) per promuovere le diverse componenti dell’attaccamento sicuro del caregiver, ovvero la sensibilità, il funzionamento riflessivo, la reciprocità condivisa e la regolazione diadica degli affetti, cruciali per sostenere lo sviluppo sano e l’autonomia dell’adolescente, mantenendo al contempo una connessione emotiva positiva con i genitori.
Per concludere questa disamina a volo d’uccello sul paradigma dell’attaccamento – che ribadisco non ha alcuna pretesa né di esaustività né di rappresentatività – mi piace sottolineare che il desiderio espresso da Bowlby nel suo ultimo scritto: <<Mentre io accolgo con piacere i risultati di queste ricerche (nel campo della psicologia dello sviluppo), che estendono enormemente le nostre conoscenze sullo sviluppo della personalità e sulla psicopatologia e quindi hanno la più ampia rilevanza clinica, sono però deluso del fatto che i clinici siano stati così lenti nel sottoporre a verifica le applicazioni pratiche della teoria>> (Bowlby, 1988, trad. it. pag. XIII) possa ora considerarsi soddisfatto poiché, come sottolinea egregiamente Sroufe: <<Forse la cosa più importante è che l’AAI e il campo dell’attaccamento in generale ci ricordano che siamo una specie sociale, che la nostra umanità si sviluppa in un contesto relazionale e, per il clinico, che il cambiamento psicologico avviene al meglio in tale contesto relazionale>> (Sroufe, 2008, p. XII).
Nota 1 Per comodità, in questo lavoro, utilizzerò il termine “bambino” in senso generico, per indicare gli esseri di entrambi i sessi.
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*Cecilia Serena Pace: Psicologa, psicoterapeuta, Professoressa Associata di Psicologia Clinica dell’Università degli Studi di Genova