Attaccamento, intersoggettività e disabilità ad insorgenza precoce

di Alessandra Schiaffino *

L’attaccamento è un sistema motivazionale relazionale, comune ad altre specie, non solo ai mammiferi (indimenticabile il ricordo di Mark Solms, neuropsicoanalista, che imita con la voce il grido di richiamo dell’uccello). È innato, geneticamente predeterminato, ma trova espressione nell’interazione con l’ambiente. Ha come meta la vicinanza e il conforto da parte di un caregiver, di cui viene attivato il sistema di accudimento, anch’esso un sistema motivazionale relazionale, comune ad altre specie. È il sistema di attaccamento, la stabilità delle cure, l’esperienza del conforto e della regolazione emotiva che riporta a uno stato di calma, che permette di sperimentare una base sicura. Sovraordinato rispetto a quello dell’attaccamento e agli altri sistemi relazionali sottostanti (che si situano a livello limbico), è il sistema intersoggettivo, tipicamente umano, che trova la sua origine nella neocorteccia e che ha come meta la vicinanza mentale, l’intimità, la sensazione di essere tenuto/contenuto e compreso da un’altra mente, e costruisce il sentimento di esistere per l’altro.

La sintonizzazione affettiva in età precoce è asimmetrica, ma si radica nella reciprocità; la regolazione è fin dall’inizio co-regolazione. C’è una predisposizione all’intersoggettività, c’è dunque un’attesa potenziale di scambio intersoggettivo: da questo punto di vista, la soggettività nasce insieme all’intersoggettività. Come è noto, il costrutto della mentalizzazione, definito anche come sistema di regolazione affettiva secondario, si inquadra nel contesto della teoria dell’attaccamento (Fonagy P. et al., 2002). Vorrei sottolineare che è proprio l’esperienza della base sicura che consente di attivare e promuovere il sistema

 dell’esplorazione e della ricerca (seeking), base di ogni apprendimento e dello sviluppo delle funzioni adattive, fulcro e obiettivo degli approcci riabilitativi. Come la psicoanalisi ha sempre sottolineato, c’è una stretta connessione fra affettivo e cognitivo. Nella trama delle relazioni precoci, la centralità della relazione passa attraverso il corpo (dyadic embodied relation) e la memoria è essenzialmente implicita.

Cosa succede quando nasce un bambino con una grave malformazione o una patologia che comporta una disabilità permanente e che si manifesta nei primi tempi della vita, intra o extrauterina? Cosa succede quando la genitorialità è precocemente esposta a un tale evento traumatico? Come si dipanano le vicende dell’attaccamento? Come gli operatori sanitari e in generale quelli delle relazioni di aiuto accompagnano percorsi così ardui e difficili?

Ho lavorato per trent’anni in un Servizio di riabilitazione rivolto a minori e adulti, prevalentemente con patologie neuromotorie. Ogni famiglia, ogni storia è unica: le generalizzazioni sono inaccettabili, sia dal punto di vista clinico che del senso comune. Quante volte si è sentito, e anche scritto, di “famiglie handicappate”, di classificazioni di queste famiglie in tipologie ben definite, un approccio privo di fondamento teorico, che comporta conseguenze di stigma e distanza emotiva. Chiunque abbia operato in questo campo sa, e lavora con la consapevolezza, che non c’è alcun motivo per cui quanto accaduto a questa persona, a questa mamma, a questo papà, a questo nonno, a questa sorella che sto incontrando, sia accaduto a loro e non a me. E io non metto in discussione che la mia storia sia unica. Eppure, innegabilmente, ci sono fasi riconoscibili e parole che ritornano, del tutto simili, per descrivere i vissuti legati a ineludibili passaggi dolorosi. In realtà non si tratta di fasi, ma di posizioni — mai acquisite una volta per tutte — e assimilabili a quelle che caratterizzano la reazione a un evento traumatico: shock, incredulità, senso di estraneazione, rifiuto, confusione, rabbia, tristezza, ricerca implacabile di soluzioni, venire a patti, accettazione. Posizioni inizialmente ben studiate da Kübler-Ross in relazione alla comunicazione della diagnosi di malattia oncologica, un tempo evocatrice di incurabilità e di morte.

Considerando le patologie a insorgenza in età evolutiva che esitano in una disabilità permanente, la diagnosi può essere prenatale (“l’attesa delusa”), alla nascita o nel periodo perinatale (“nascere con e nel dolore”), oppure successiva, nei mesi in cui iniziano a emergere dubbi sullo sviluppo (“la tempesta sul futuro”), o ancora nelle età successive a seguito di una patologia acquisita (“una vita tagliata”) (Atti della Conferenza Prima comunicazione e handicap, 2001). Quest’ultima situazione sopraggiunge traumaticamente, ma in genere a sistema di attaccamento già consolidato, mentre le prime tre vanno a incidere direttamente sul percorso di attaccamento e sulla costruzione dell’intersoggettività primaria, ovvero sulla formazione della base sicura e sull’emergere del senso del Sé e della connessione relazionale. Specie nel caso di malattie rare, la diagnosi certa può arrivare dopo molti anni.

Per avvicinare le esperienze di cui sto parlando ho scelto due situazioni, la prima tratta da un’autobiografia scritta dalla mamma di una bambina con una malformazione cerebrale, in questo caso diagnosticata nel periodo perinatale (ma spesso riconosciuta con diagnosi prenatale); la seconda tratta da una terapia genitore-bambino da me condotta all’interno di un servizio pubblico di riabilitazione territoriale. Si tratta di un bimbo con anomalie dello sviluppo e incertezza diagnostica che si è risolta solo dopo i cinque anni.

Daria

“Come d’aria” è un libro da leggere. È una sorta di diario, non organizzato cronologicamente, in cui l’autrice, Ada D’Adamo, rivolgendosi direttamente alla figlia Daria, racconta la loro storia. Daria è affetta da oloprosencefalia (HPE), una grave malformazione cerebrale: non cammina, non parla, non vede, non ha alcuna autonomia ed è quindi bisognosa di cure continue. La vita di Ada e Daria, inscindibilmente intrecciate, è segnata da una mancata diagnosi prenatale, che avrebbe portato alla decisione di aborto terapeutico. Questa posizione, chiaramente esplicitata (<<Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta. Ma, se avessi potuto scegliere, io avrei scelto l’aborto terapeutico>>), nulla toglie all’infinito trasporto e alla dedizione di Ada verso la figlia, nel tentativo di entrare in comunicazione con lei e garantirle la migliore vita possibile. Intorno ai cinquant’anni, Ada scopre di avere una malattia che si rivelerà incurabile. È in quel momento che decide di scrivere il libro per mettere ordine nella mente, ritessere la trama di sé e delle sue relazioni: con Daria, con il suo compagno, con amici e compagni di strada, alcuni incontrati profondamente, altri solo di sfuggita. Sa o scopre che la scrittura è creativa, può curare, nutrire, consolare, riparare. Morirà due giorni prima di sapere che il suo libro era entrato tra i finalisti del Premio Strega, che avrebbe poi vinto nel luglio 2023.

Qui non seguirò l’andamento dell’intero libro (quando Ada lo conclude Daria ha ormai 16 anni), ma mi concentrerò sul primo periodo: le trame relazionali precoci, i vissuti di angoscia dei genitori, l’avvio del legame, gli intoppi e le risorse, la fatica fisica ed emotiva che segna l’ingresso in “un mondo a parte”. Il legame di attaccamento si costruisce intorno alla fisicità di due corpi che lentamente imparano a conoscersi, passando attraverso fatiche indicibili, angoscia, rabbia, tenerezza. Ada, ballerina, coreografa, studiosa di danza, è alla ricerca di un ritmo, di una sintonia ma, come vedremo, all’inizio sembra davvero difficile. A poco a poco, riuscirà a trovare la bellezza di Daria, la bellezza del loro rapporto, e anche di quello con il padre, che è un terzo elemento di sfondo ma fondamentale: forte e amorevole nel supportare la famiglia. Il libro ci restituisce questa bellezza, senza fare alcuno sconto sulla sofferenza e l’angoscia che il percorso di vita con Daria ha comportato, e anche riconoscendo che, seppure spesso ci si senta infinitamente soli, è altrettanto vero che non si può essere e fare da soli.

<<Il primo giorno era ancora quello della letizia e dell’incanto. Non avevo mai visto un neonato, certo eri piccola, un’arancia al posto della testa e quelle due gocce nere lunghe e sottili invece delle pupille tonde. La prima notte ero in uno stato di sospensione e di attesa che preannunciava la tempesta…>> Il giorno seguente, la pediatra comunica l’agenesia del corpo calloso e la necessità di Risonanza Magnetica. Al terzo giorno arriva la diagnosi di HPE. <<Di quei primi giorni ho ricordi confusi, il ruggito dei pensieri che si affollavano>>. Ada diventa un’osservatrice, tenta un distacco emotivo: <<Quello che mi sta succedendo è insopportabile>>. Come il gatto sotto la pioggia che osserva dalla finestra dell’ospedale: <<Io sono così, una bestia sola nella tempesta>>. Intanto inizia a riconoscere la Grande Fuga di molti — non tutti — amici, parenti e anche di molti sanitari. In ospedale, nota gli sguardi che si abbassano al suo passaggio. Quando Daria viene trasferita in TIN (Terapia Intensiva Neonatale), Ada vi passa la giornata e ogni sera torna a casa. <<Nessuno mi spiega nulla, nessuno mi dice una parola di conforto. Solo ordini e procedure da imparare in fretta. C’è ancora il latte da tirare, per stimolare quel seno da cui ogni slancio di vita sembra sfuggito>>. <<Il termine oloprosencefalia entra nel nostro vocabolario quotidiano. Leggo su internet, ma ci vorrà qualche mese prima che la Rete si trasformi in uno strumento per capire. E per colmare il vuoto lasciato dai silenzi e dai sarcasmi di qualche medico al quale, con timore, mi azzardo a chiedere notizie. … Stupida me, che idiota, che imbecille a chiedere se la testa rimarrà sempre così piccola… La verità è che non sono minimamente pronta al compito che mi aspetta>>. Eppure, arriva il giorno di portare Daria a casa. <<Insieme al tuo babbo rincorriamo nei corridoi la prima pediatra che ci ha dato la diagnosi funesta: tra tutti i medici ci era sembrata la più disponibile. Mi dice che devo considerarti una neonata come tutti gli altri. Una frase rassicurante e apparentemente innocua, banale, sulla cui superficialità non smetterò mai di recriminare. Come si può dire una cosa tanto sbagliata alla madre di un bambino con malformazione cerebrale? Come si può approfittare della propria autorevolezza di medico e, così facendo, instillare in una donna il seme di un senso di colpa che nei giorni e nei mesi successivi le crescerà nel petto come una mala pianta fino a soffocarla? Quando, molto presto, cominceranno i pianti e le urla interminabili, le lunghe ore su e giù per il corridoio, quella madre si convincerà che è normale, che tutti i neonati piangono, si rimprovererà di non avere abbastanza pazienza, si convincerà di essere lei quella sbagliata. Perché in quell’occasione non pronunciare almeno una parola sull’eventualità di crisi epilettiche, di disfagia, di insonnia… solo alcune delle patologie connesse all’HPE? Forse avrebbe giovato, forse avrebbe risparmiato mesi di un inferno quotidiano impossibile da raccontare a parole>>.

<<In dimissione dalla TIN, un’infermiera mi aveva detto: ‘Questa le farà passare guai’. Non avevo dovuto aspettare molto per vedere avverarsi la profezia. Ben presto avevi cominciato a piangere. Era impossibile lasciarti anche solo pochi minuti da sola nella culla. Metterti nella carrozzina significava sfidare la sorte e gli sguardi di riprovazione dei passanti, allarmati dalle tue urla, mi costringevano a battere in ritirata>>. Ada si trasferisce con Daria nella città dove lavora il babbo, ma la scelta non si rivela buona. <<I primi sei mesi sono stati un incubo. Il pianto era l’unica freccia al tuo arco. Un’arma semplice, povera, ma potentissima, capace di trafiggermi il cuore e il cervello. Potevi piangere anche tutta la giornata, senza stancarti mai. Io non avevo scudi, solo la mia disperazione, ero stanca, estenuata da te, bisognosa di sonno, rinchiusa in gabbia. In genere ti placavi la sera, quando il babbo arrivava. Avresti riattaccato per il turno di notte. Non ho mai capito dove trovassi tutta quella forza. Durante tutte quelle nottate, io e il babbo ci alternavamo per tenerti in braccio e cullarti. In piedi, naturalmente>>. Per il resto, una immobilità totale. <<Decisi che bisognava fare qualcosa per salvarti, e che se ti fossi salvata tu mi sarei salvata anch’io. Mi avevano parlato dell’importanza di un intervento riabilitativo precoce. Contattai due centri. Anche noi, lentamente, cominciavamo a mettere il muso fuori dalla tana. Venivamo da un letargo senza sonno, puzzavamo di lacrime, ma da quella terra bagnata qualcosa piano piano sarebbe sbocciato>>.

Ada e Daria tornano a Roma. Qualcosa si mette in moto. <<Un’ostetrica consigliata da un’amica, pur del tutto spaesata dal tuo pianto anomalo, mi ha insegnato come contenerti avvolgendoti stretta come in un bozzolo, in modo che ti sentissi protetta. Ho imparato che creare dei punti di contatto — fronte contro guancia, mani contro pancia, polso contro collo — riduce l’esplosione degli arti, l’inarcarsi della schiena, la torsione del busto>>. Il rapporto è basato sulla fisicità.

A volte torna la rabbia, la disperazione. <<Avere un figlio invalido significa essere soli. Irrimediabilmente e definitivamente soli. Indietro non si torna. Uguale a prima non sarà più. È come se dentro di te si fosse accomodato il punteruolo delle palme, che rosicchia la pianta dall’interno, piano: la trasforma in un involucro pieno di segatura. La superficie resta uguale, ma sotto i bordi, sotto la pelle, non resta più niente. La solitudine è fatta di puntini piccoli, uno vicino all’altro. Non te ne accorgi>>.

Ma non si può fare tutto da soli. A poco a poco arrivano nuovi compagni di strada. Fra questi, i riabilitatori: della vista, del movimento, della comunicazione. <<Il pensiero va riconoscente verso il mondo della riabilitazione: persone che non perdono tempo a rimpiangere quel che manca, ma sfruttano il poco che hai. E quel poco diventa tanto. Brevi attimi di felicità fioriscono tra le pieghe dei giorni. Durano un istante, ma è grazie a questi istanti che si può andare avanti>>.

Fra le nuove risorse, per Ada, c’è l’Associazione HPE. <<Su internet si trova di tutto. Se vuoi farti male, accomodati. Io ci ho messo un po’ a orientarmi, a capire cosa evitare (ad esempio foto di neonati o feti deformi) e cosa potesse servirmi. In principio avevo bisogno di informazioni scientifiche — cause genetiche, statistiche, centri di ricerca… Cercavo un perché. Ma a servirmi erano soprattutto informazioni pratiche, talvolta vere e proprie strategie di sopravvivenza. Cercavo un come. Per questo sono state preziose le risposte dei genitori. Imparavo che eravamo più o meno tutti nella stessa barca>>. Grazie ai consigli di qualche mamma americana, Ada trova un piccolo sedile di gomma dentro al quale, dai sei mesi in poi, Daria riesce finalmente a stare senza lamentarsi, come succedeva quando era messa in un normale passeggino. <<Era morbido, tu ti sentivi protetta, come in un guscio di noce>>.

Tramite l’associazione, Ada scopre che a pochi chilometri di distanza c’è un’altra bambina, più grande, con HPE. Non la incontrerà mai, ma i contatti fra le famiglie sono mantenuti a distanza e con l’invio di foto: <<A suo modo, nella mia mente, c’è sempre stata. Era viva, cresceva, diventava adulta, e sua madre e la famiglia con lei. Per me era la prova vivente di una possibilità che andava oltre la condanna all’eterno presente: la possibilità che anche tu sopravvivessi e noi con te. … Oggi c’è un luogo dove mamme italiane si scambiano consigli e informazioni utili. Concretezza, pudore e poca retorica>>.

Come scorgere, in questo groviglio di amore e disperazione, l’emergere dell’attaccamento e dell’intersoggettività? Alla base di tutto sta il corpo. Quando i corpi cominciano a conoscersi e a intrecciarsi inscindibilmente? Quando Ada comincia a vedere la bellezza di Daria, a vederne l’incanto? <<Desideravo la bellezza e, a dispetto di tutto, tu eri una bella bambina>>.

Giorgio

Passiamo ora alla seconda storia, alla psicoterapia genitore-bambino al cui centro sta Giorgio. È il racconto una lunga relazione terapeutica che si è trasformata nel tempo e di cui percorreremo il periodo iniziale.

Vedo per la prima volta Giorgio insieme ai suoi genitori e al collega medico che me li invia il giorno del suo primo compleanno. Inizio così ad ascoltare la sua storia, a conoscere lui e la sua famiglia. Giorgio è un terzogenito desiderato. I genitori si sono sposati molto giovani; la mamma lo ha voluto come figlio della maturità, per goderselo più di quanto abbia potuto godersi gli altri due figli: Emilia di 13 anni e Alessio di 8. Le reazioni della famiglia alla comunicazione della gravidanza sono state tuttavia inaspettate e fuori misura, soprattutto quelle della sorella, che aveva evidentemente sofferto di forte gelosia alla nascita del primo fratellino. I nonni materni hanno reagito con incredulità e lo hanno creduto a lungo uno scherzo, facendo provare alla mamma rabbia e vergogna. Col passare dei mesi, la situazione appare rasserenarsi, e la mamma fantastica un bel parto e un lungo allattamento.

Giorgio nasce con taglio cesareo, molto grosso; tutti lo definiscono “un fiore”, ma la mamma ne è sconcertata, prova un senso di estraneità, lo percepisce diverso dal resto della famiglia (“noi siamo tutti magri”). Ambedue i genitori lo ricordano come un bimbo buono, ma così pesante, anche da tenere in braccio, che spesso lo appoggiavano alla spalla con il viso rivolto all’esterno, oppure lo sistemavano sul tavolo da cucina, sdraiato sulla sua seggiolina inclinata, con gli occhi rivolti al soffitto. La mamma ricorda un allattamento al seno felice ma non sufficiente, che con rincrescimento termina a tre mesi. A sei mesi sembra verificarsi un arresto dello sviluppo, cui nessuno, pediatra compreso, dà particolare importanza, considerato il peso del bambino.

Giorgio perde funzioni e vitalità, ma per parecchio tempo la causa sembra essere un’infezione delle vie urinarie. Il ritardo motorio diventa via via più evidente, e in occasione di un controllo ospedaliero, ai genitori increduli si parla di danno neurologico grave e di “scollamento fra i due emisferi”. Viene proposto un trattamento fisioterapico che, non compreso e mal tollerato sia dalla mamma che dal bambino, viene presto interrotto. Il trattamento avveniva in una grande stanza, con molti terapisti che trattavano ciascuno un bambino, e il setting non prevedeva il coinvolgimento del genitore. Un ricovero per broncopolmonite porta a un’ulteriore visita NPI e all’invio al nostro servizio, ancora con indicazione di fisioterapia. I segnali preoccupanti di ritiro relazionale, in particolare la difficoltà di contatto visivo e l’attrazione verso il soffitto, i vetri, la superficie dei quadri, convincono il medico a una presa in carico con tempestivo invio alla psicologa.

La difficoltà della relazione madre-bambino, ma anche la grande sofferenza e sensibilità dei genitori nei confronti di un bambino così diverso da quello che si erano aspettati, mi ha convinto a iniziare un intervento di psicoterapia madre-bambino, a cui il padre era sempre invitato. La frequenza era settimanale, e l’orario fissato consentiva al padre di arrivare verso la fine della seduta quando poteva o lo desiderava. Due sedute sono state padre-bambino. Il lavoro di sostegno al legame e alla comunicazione viene proposto e riconosciuto come prioritario, pur lasciando in sospeso la definizione della diagnosi. Il medico decide di non effettuare trattamento fisioterapico, mentre vengono programmati controlli fisiatrici ambulatoriali. Nel primo periodo, due volte viene invitata in seduta la fisioterapista, per aiutare concretamente i genitori con indicazioni di facilitazione posturale. Il servizio, attraverso la presenza al suo interno di competenze diverse e non confuse, garantisce un contenitore sicuro, e per il bambino un solo setting: uno spazio, un tempo e un terapeuta di riferimento.

Il primo contatto avviene il giorno del primo compleanno, e la mamma spesso parlerà di quel giorno come la vera nascita di Giorgio: questo le consentirà di prendersi/dargli tempo, ma anche di avvicinarsi al bambino reale e prendere via via le distanze dal bambino atteso e mai nato che tanto l’aveva ingombrata nel primo periodo di vita. Giorgio è un bambino alto e grosso, ma ipotonico (come la mamma di Daria, anche i genitori di Giorgio usano la parola “pesante” per esprimere la sensazione percettiva del caregiver rispetto al quadro di ipotonia); lo sguardo sembra spesso assente, a volte fa strani movimenti con le mani, sembra non sappia bene cosa farsene; qualche volta tocca e accenna a esplorare alcuni oggetti.

La mamma è una donna giovane, con un viso bello ed espressivo, ma appare spaventata e bloccata, è convinta di non saper giocare con il suo bambino, ne è la scrutatrice attenta e implacabile. Il papà, con il suo ottimismo esibito, sembra esprimere un profondo bisogno di negazione, che non solleva la mamma e la relega nella parte di chi porta sofferenza, a volte venata fino alla disperazione. Sento subito una grande solitudine. I nonni materni non offrono sostegno, sollevano dubbi, propongono nuove visite mediche, con interferenze che la mamma sente come messaggi di sfiducia.

Come ben descritto dagli studi sugli interventi precoci genitore-bambino (a partire dalla pioniera S. Fraiberg, 1969; la scuola di Ginevra con Cramer e Palacio Espasa, 1993; Stern, 1985; Sameroff, 2006; Salomonsson, 2016; le estensioni della consultazione partecipata, Vallino, 2009; Anderloni, 2011), la possibilità di ascoltare, dare significato, sostenere, valorizzare il genitore — in questo caso la madre — ha un immediato impatto a livello relazionale. La funzione di rêverie, ma anche la funzione di attivare e vitalizzare il proprio bambino, non avevano avuto la possibilità di emergere e avevano bisogno di essere introiettate attraverso un modello esterno, in una prima fase anche piuttosto attivo: io dovevo accogliere, dare senso e restituire digerita la sua preoccupazione, ma anche attivarla sia sollecitando l’attenzione condivisa  e il rispecchiamento marcato e contingente sia come mamma capace di fare la mamma, valorizzando le sue intuizioni, dandole fiducia. Alla terza seduta, Giorgio inizia a gattonare (esempio significativo di come la motivazione all’esplorazione sia in stretta connessione con il sentirsi tenuto nella mente dell’altro): ogni tanto sembra incantarsi, e allora la mamma immediatamente lo richiama: ‘Stai qui con noi’, ma ancora riesce poco a prendere l’iniziativa, mentre è attenta e responsiva se è Giorgio a volgersi a lei, se si sente chiamata.

A poco a poco, attraverso i racconti dei genitori, che io rendo circolari tenendo conto della presenza di Giorgio, in seduta cominciano a entrare anche i fratelli, la storia delle famiglie di origine, la narrazione familiare, in cui forse potrà trovare spazio anche Giorgio.

Nella prima fase della terapia i genitori sembrano davvero prendere tempo e cercano di sfuggire ai controlli diagnostici. Viene vissuta con grande dispetto e rabbia la prescrizione del Nido fatta dal neuropsichiatra ospedaliero, quasi si trattasse di un farmaco; tale proposta, rielaborata insieme come opportunità da confrontare con altre risorse, in vista del rientro al lavoro della mamma, viene poi gradualmente accolta. Al momento dell’iscrizione, la mamma è contenta che Giorgio sia inserito nella sezione dei lattanti: aveva paura che i più grandi lo calpestassero, che gli facessero male.

Intanto, in seduta, la mamma comincia a proporre routine di giochi corporei che provocano in Giorgio anticipazioni e larghi sorrisi. A poco a poco emergono la tenerezza e i nomignoli affettuosi. Comprensione e contatto emotivo da una parte, osservazione scrutatrice e richiesta incalzante di alcune abilità dall’altra, oscillano ancora, ma con grande consapevolezza. Contemporaneamente possono essere espresse la rabbia causata dagli inevitabili confronti con gli altri bambini, l’invidia nei confronti delle altre mamme, il timore di essere compatita, l’esplosione del “Perché proprio a me?”, con l’emergere di angoscia e senso di colpa.

Nell’ultima seduta prima dell’interruzione estiva, Giorgio inizia a fare tentativi di spostarsi in piedi fra mamma e papà: adesso “c’è”, e c’è il rifornimento affettivo della mamma, che è diventata chiara figura di riferimento.

Alla ripresa delle sedute, la mamma mi comunica che ha finalmente deciso di sapere come stanno le cose. A una visita ospedaliera, tuttavia, il responso del medico è quanto meno confuso e mi viene sintetizzato così: <<Non è grave, ma il problema c’è; non è proprio vuoto, ma ha una marcia in meno rispetto agli altri bambini; però non preoccupatevi: tra sei mesi correrà>>. Angosciata, ma più decisa, si chiede/mi chiede: <<È handicappato o no?>> L’ambivalenza si riveste di sfiducia nel sapere medico.

Poco dopo, Giorgio inizia la frequenza al Nido ed è il papà ad accompagnarlo. I nonni sono contrari, ma i genitori restano fermi nella decisione presa: i confini generazionali cominciano a definirsi. La mamma sperimenta l’attenzione delle educatrici, via via trova risposte spontanee alle domande difficili degli altri genitori (<<Una signora continuava a dire: ‘Cosa ci fa un bambino così grosso nei lattanti?’ Dopo un po’ una diventa cattiva. ‘Perché ha dei problemi’. Allora si è zittita. Una maestra è intervenuta: ‘È pigro nel camminare.’ Lo so che non è vero, ma ugualmente le sono stata grata>>). Conosce, molto incuriosita, i genitori di altri bambini “con problemi”: <<Ho un interesse morboso per gli altri. Come la prendono? Meglio? Peggio?>>.

Al Nido ha visto un bambino con gravi e visibili malformazioni ed è stupita quando conosce la mamma: la trova bellissima, si rende conto che se la aspettava bruttissima, e ci si può rispecchiare. Un mese più tardi, quando questo bambino viene portato fuori città per esami diagnostici, commenta: <<Io invece finora ho fatto lo struzzo>>.

Continuano le sedute settimanali. Giorgio ha cominciato a camminare, ma spesso inciampa, cade, bisogna seguirlo a vista. La mamma sa bene che Giorgio sta facendo grandi progressi — li vede e li sostiene — ma vede anche il divario con gli altri bambini, a differenza del papà che ripete il suo ottimismo in modo quasi automatico. Al secondo compleanno, Giorgio non butta più gli oggetti; quando entra nella stanza si rivolge a me, spesso cerca l’orsacchiotto introdotto in seduta da alcuni mesi. Qualche tempo dopo, andrà a dare un bacino alla foto della bambina che trova nel libro che sempre lo aspetta sul tavolino verde dello studio. Il mio ruolo è cambiato, perché la mamma ha imparato a giocare con Giorgio anche traendone gioia. Ma possiamo condividere che è ancora difficile fare davvero festa con lui e per lui. D’altra parte, lo spostamento della rabbia, espressa soprattutto nei confronti dei medici e dell’ambiente di lavoro poco disponibile, consente sia il consolidarsi dell’attaccamento sia l’emergere di idee di crescita e di “svezzamento” (a breve sarà la mamma a proporre lo spostamento nel gruppo dei divezzi).

Un mese dopo, in seguito a un esame elettromiografico, viene comunicata l’ipotesi diagnostica di malattia neuromuscolare che genera un’atmosfera di morte. Giorgio, a volte, sembra tornato il bambino ritirato delle prime sedute. Tutti si ammalano. La mamma stessa commenta che otite e faringite sembrano proprio esprimere il non voler sentire e dire: “È troppo grossa.” Alcuni, nella famiglia, parlano per gli altri: il fratello fa domande sulla morte, il nonno ha un grave episodio depressivo di tipo anoressico che richiede trattamento farmacologico. Accompagno la mamma in un processo di elaborazione che non è dissimile da quello di tanti altri genitori, ma che è caratterizzato da un bisogno radicale di verità e condivisione emotiva. Piange, confessa i suoi pensieri ricorrenti: <<Giorgio è una palla al piede (…) Chi ce l’ha fatto fare (…) Ho come idee omicide (…) Sono arrabbiata con lui.’ Ma nella seduta congiunta sperimenta come rabbia e tenerezza possano coesistere, ambedue ugualmente vere. In questa fase io riprendo un ruolo più attivo, ma questo può essere restituito e in poco tempo la mamma torna a occupare la centralità nello “stare con” il suo bambino. Siamo così arrivati al mese di giugno. Nel colloquio con i genitori condividiamo che Giorgio è ormai pronto per un suo percorso riabilitativo individuale. Insieme, ripercorriamo il pezzo di strada fatto. La mamma dice che è stato come un po’ di luce nel buio, una pausa, un contenitore per la sua sofferenza e preoccupazione. E mi chiede timidamente se può continuare a venire senza Giorgio.

Dopo l’estate, Giorgio inizia il trattamento individuale e la famiglia trova nella terapista un nuovo buon compagno di strada. Anche la mamma inizia il suo lavoro individuale. È una fase difficile, perché si è in attesa della conferma diagnostica. La mamma è spaventata, teme a volte di perdere il controllo: <<Temo di picchiare mio figlio>>, mi dice, ma poi, con sollievo: <<I pensieri, una volta detti, sembrano meno mostri>>. E ancora: <<Sono più leggera, ma più pesta>>. Subito dopo, con sguardo radioso, mi racconta i progressi di Giorgio: <<Ha fatto la pipì da solo e poi ha detto pi-pì>>.

La diagnosi di malattia neuromuscolare non viene confermata.  Si aprono nuove speranze, ma anche nuovi dubbi. Se è vero che Giorgio fa continue conquiste, è anche vero che basta poco perché si accentui la precarietà della sua organizzazione motoria. La mamma sente meno rabbia e maggiore tristezza: tutte le emozioni sembrano attutite. Al terzo compleanno ancora non si può fare festa. <<Forse sarebbe meglio avere un bimbo morto su cui piangere>>, dice. La difficoltà di comunicazione nella coppia è dolorosamente evidente. Un ricovero diagnostico in un’altra città non approda ancora ad alcuna certezza. Giorgio è: <<Un bambino strano (…) Il mio bambino eccezionale>>. Il contesto ospedaliero lascia profondi solchi nei genitori: per la prima volta, la mamma si sente invidiata da altre madri e sente con certezza che un nuovo legame con Giorgio si è costituito. Questo bambino “che c’è” ha preso il posto dell’altro, quello atteso e mai nato, che sta scivolando via. <<Con Giorgio ho capito cose che altrimenti non avrei capito>>.

Viene decisa la prosecuzione di un anno in Asilo nido. È rassicurante l’idea di un “anno ponte”, ridefinito come una “pista di lancio”, seppur ancora in assenza di una diagnosi certa. Permane la grave crisi di coppia. Qualche tempo dopo, con improvvisa drammaticità, emerge il disagio dei siblings, cui di fatto era stato chiesto — dandolo per scontato — di crescere in fretta, senza dare problemi. Il disagio di Emilia, la sorella maggiore, si esprime attraverso un agito di marca adolescenziale, richiesta urlata di ascolto e di aiuto, che apre nuovi scenari familiari. Al rientro dalle vacanze, la signora esprime un nuovo desiderio di provare a stare meglio anche come donna e nella coppia. Mentre tutti i figli entrano in seduta, ciascuno diverso e diversamente, adolescenza, separazione, sessualità diventano i temi dominanti con cui ripensare la sua storia: quella di ieri come figlia, e quella di oggi come madre e come donna.

Ci fermiamo qui nel racconto di una terapia che durerà ancora a lungo. Ancora in fase di incertezza diagnostica, dopo essere stata tenuta in borsa per due anni, viene presentata domanda di riconoscimento della Legge 104/92, che agevola le persone con disabilità e i loro familiari: per i genitori è un passaggio doloroso ma ineludibile.

Vissuti e parole che tornano

Quali sono dunque i vissuti e le parole che ritornano nelle storie di transizione alla genitorialità segnate da una disabilità riconosciuta in età precoce, qui esemplificate da quelle di Daria e Giorgio? Tempesta, frattura, estraneità, dolore insopportabile, solitudine. Sono risposte a una esperienza traumatica: sconvolgimento, congelamento della temporalità, spaesamento, senso di assurdità e di alterità radicale.

Tempesta: è una violenta precipitazione di vento e pioggia, può essere in arrivo o in corso; “tempesta di fuoco” evoca l’abbattersi di colpi/proiettili e rimanda a comunicazioni drammatiche e traumatiche che precipitano, spesso dall’alto (ad esempio del sapere medico) su chi è in basso e le riceve. Come dice Ada: un “personale cataclisma”. La vita degli altri va avanti, la propria no.

Frattura, cesura: un prima e un dopo, qualcosa che si rompe e non sarà mai più come prima. Scrive Ada: <<Tu, arrivando, hai spazzato via tutto ciò che ti ha preceduta, come eventi naturali la cui potenza eccezionale ridisegna i luoghi. E i volti delle persone che li abitano. Esiste un prima e un dopo. E quel che è stato anche poche ore prima di te, dopo non ha più avuto importanza. Oppure ha assunto un significato diverso>>. Un’altra madre dice: “È come ripercorrere tutta la propria vita… e cambia tutto.” Simone Korff-Sausse (2007) ha intitolato il suo libro “Le miroir brisé”, nella traduzione italiana “Specchi infranti”. Una madre racconta: <<L’immagine è quella di un vetro rotto di un’auto dopo un incidente: tanti minuscoli frammenti che riflettono un tutto spezzato. È lì che il fluire della comunicazione si è interrotto: non sapevamo più chi Cecilia fosse>>.

Estraneità e spaesamento: la nascita di un figlio disabile confronta con un problema radicale. Come riconoscersi in lui?                                                                                                                                                                                                   

<<L’handicap infligge uno shock emotivo percepito come una violenza, provoca una ferita narcisistica che attacca in modo insopportabile l’immagine che abbiamo dell’integrità umana.  La sua vulnerabilità ferisce, la sua anomalia sconvolge, tutto il suo essere suscita un turbamento profondo>> (Korff-Sausse, 2017). Molti genitori dicono di sentirsi in un “mondo a parte”, sconosciuto. Alcuni trovano metafore potenti e molto simili: “Siamo in viaggio senza valigie”, “È come arrivare in Thailandia vestiti da lapponi”, “È come scalare l’Himalaya con ai piedi un paio di sandali”.

Dolore insopportabile, paralizzante, indicibile. “Non si può né sentire né dire. È troppo grossa.”

Il tempo si blocca. Occorre tempo — molto tempo — per integrare l’evento nel tessuto psichico. Ma uscire dall’isolamento richiede di lasciarsi alterare dall’alterità. Ada scrive: <<Anche se mi ha stravolta la vita, adoro la mia figlia imperfetta>>. Un’altra madre dice: <<Ho accettato la sua diversità quando ho accettato la mia>>.

Julia Kristeva (2012, 2019), filosofa e psicoanalista, madre di un figlio con disabilità, propone di sostituire al paradigma della mancanza quello della singolarità: <<L’amore è desiderio che la singolarità dell’altro illumini la propria. Si creerà l’incontro tra individuo e individuo, non solo tra disabile e normale improntato sull’aiuto a diventare normale. …La fragilità ci rende più solidi, e anche più capaci di tenerezza>>.

L’handicap ci confronta con la morte e con la norma. Scrive ancora Kristeva: <<Non voglio che mio figlio non sia considerato diverso nella società, voglio aiutarlo a trovare i suoi desideri. Bisogna cominciare da un cambiamento dello sguardo materno. E dell’immagine della responsabilità genitoriale: madri e padri non devono considerare i figli come realizzazione dei loro ideali, ma aiutarli a svilupparsi nei loro limiti e desideri>>.

Ma quanta solitudine si attraversa prima di arrivare a queste posizioni mature?Ada racconta e descrive in pagine estremamente toccanti madri e padri incontrati nelle sale d’attesa e nei reparti ospedalieri. Uno specchio silenzioso e potente.

Qualche orientamento

Abbiamo imparato che i famosi “primi mille giorni” sono la matrice decisiva per la salute futura: è lì che si sviluppano attaccamento e con esso il sistema di regolazione affettiva. Al contrario il fallimento della funzione di regolazione emotivo-affettiva e l’interiorizzazione di modelli operativi disfunzionali diventano la base del disagio psichico e contrastano le potenzialità di sviluppo e di apprendimento. Mi chiedo se per alcune storie contrassegnate da ripetute e prolungate ospedalizzazioni, ricoveri, interventi chirurgici, incertezze diagnostiche, prolungati stati di malessere e da una genitorialità esposta al trauma, non occorra a volte un tempo più lungo, perché, evocando il libro di Pontiggia (2000), questi sono bambini “nati due volte”.

Sintonizzazione, rêverie, cornice intersoggettiva: tutti passaggi vitali per ogni bambino, ma difficili quando, come abbiamo visto, la specificità della patologia e la vulnerabilità del contenitore neurobiologico rendono complessi non solo l’ingaggio reciproco ma anche la fisicità dell’holding e dell’handling. Dopo lo shock iniziale, il bambino rischia di diventare oggetto di cura, di assistenza, di vigilanza e soccorso continuo, di una somma di interventi di abilitazione funzionale.

Come passare da bambino da riparare a bambino da incontrare?  E prima ancora: a bambino a cui prestare una mente per iniziare a costruire un senso di sé, anche embrionale? Si può sostenere questo percorso? La risposta è sì, si può e si deve. Il dibattito è sul come. Dice Ada: <<Prima mi chiedevo perché, ora mi chiedo come>>.

Ricerca psicoanalitica, Teoria dell’Attaccamento, Infant Research, neurobiologia relazionale, psicologia clinica perinatale, Developmental Psychopathology, che oggi hanno iniziato a integrarsi in un dialogo transdisciplinare, devono e possono dialogare anche con la riabilitazione pediatrica, in particolare in età precoce. C’è ancora molto da fare, la forza delle conoscenze oggi a disposizione può offrire direzione e orientamenti: la qualità delle prime cure determina lo sviluppo e le potenzialità di apprendimento, il contatto sensitivo-sensoriale intercorporeo sostiene il legame e contribuisce alla strutturazione di un primitivo senso del sé. Come dice Winnicott, la mente si installa nel corpo.  Tale consapevolezza principia scelte tecniche e organizzative, assetti e setting.

In età precoce non si può curare né il bambino singolarmente né la madre o i genitori da soli: “il nuovo paziente” (Tambelli 2012), o “il vero paziente” (Sameroff, 2004) è la relazione genitore-bambino, quello che Gallese chiama lo spazio noi-centrico (we-ness). I genitori inoltre vanno sempre considerati nella rete della famiglia, intesa ed estesa come sistema di relazioni affettive stabili, e della comunità, quella basata sul territorio ma anche quella allargata mediata dalla comunicazione a distanza, come spesso avviene tramite le associazioni dei familiari. Occorre qualcuno che aiuti. La responsabilità istituzionale degli operatori sanitari, della cura e della riabilitazione, è con evidenza molto alta, per garantire interventi competenti, continuativi, coordinati fra ospedale e territorio. L’aiuto viene anche all’interno delle reti di vita, familiari e amicali, dagli operatori dei servizi educativi. Se come abbiamo visto, spesso viene usata la metafora del viaggio, occorrono allora compagni di strada.

I genitori sono adulti con proprie competenze e proprie risorse che nelle prime fasi devono essere rimesse in moto, perché la transizione alla genitorialità è stata segnata dal trauma. Come scrive Simone Korff-Sausse, i genitori sono spesso “medusés”, pietrificati come chi guarda il volto della Medusa. Nel racconto mitologico, tuttavia, Perseo la sconfigge con uno stratagemma, usando lo scudo come specchio. Anche noi operatori formati possiamo fare da specchio, intermediari che guardano senza paralizzarsi. Se noi possiamo guardare, i genitori possono rispecchiarsi e incontrare il loro bambino, non come difetto, non come problema, ma nella sua singolarità, nella sua unicità, promuovendone potenzialità, a volte anche impreviste e imprevedibili, senza negarne limiti e vulnerabilità, a volte estremi, presentificazione della vulnerabilità e del limite di tutti.

BIBLIOGRAFIA

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Vallino D., (2009), Fare psicoanalisi con genitori e bambini. Borla, Roma.

*Alessandra Schiaffino:  Psicologa e Psicoterapeuta, per oltre trent’anni dirigente presso la ASL 3 “Genovese” nelle U.O. Assistenza Disabili e Riabilitazione Territoriale; è formatrice presso Scuole e Istituzioni Universitarie