Antropologia della salute. Dalla biologia alla cultura: uno sguardo riflessivo su alcuni aspetti emergenti della vita

Di Antonio Guerci *

La scienza contemporanea, intesa in senso ampio come uno specifico sistema di produzione di conoscenza collettiva e di sviluppo tecnico, si trova da alcuni decenni in una situazione del tutto particolare, tale da suscitare molti quesiti in chi la osservi senza pregiudizi. Nel panorama scientifico attuale, più che mancare le risposte, sembrano far difetto le domande. Si tratta di un problema generale che coinvolge la totalità delle discipline e che chiama in causa l’intero stesso sistema disciplinare e la frammentazione che lo caratterizza. Le ragioni che stanno all’origine di questa situazione sono complesse e toccano tanto l’organizzazione paradigmatica del sistema scientifico quanto la sociologia della scienza, tanto la concorrenza interna quanto le mode, tanto l’economia quanto le politiche di lungo periodo. Dal punto di vista formale, l’uguale dignità delle discipline scientifiche è sancita da un duplice movimento che, allo stesso tempo, le separa e le unifica. Esso comporta il riconoscimento di tutte entro un unico orizzonte di valore e la loro rigorosa separazione metodologica. Pertanto tutte le discipline si identificano fortemente nell’impresa unitaria della conoscenza scientifica che, anche nella polimorfia dei criteri e nella varietà degli oggetti, rimane unica, imprescindibile e legittimante per tutte le modalità. Dall’altro lato, la distinzione degli oggetti di studio e delle tecniche di indagine garantisce che ogni singola disciplina possa e sappia (e infine debba) operare indipendentemente dalle altre, costruendo i propri oggetti secondo criteri interni e studiandoli attraverso metodologie specifiche, adeguate non tanto agli oggetti quanto al tipo di sguardo che si vuole gettarvi sopra. È questa, in estrema sintesi, la logica e la tragedia della specializzazione scientifica: ciascuna disciplina si trova, verso l’interno, a dover applicare un set di regole rigide a un segmento sempre più ristretto e controllato della realtà circostante e, verso l’esterno, a non poter comunicare, o comunque a comunicare scarsamente, con le altre discipline e gli altri metodi appartenenti alla medesima impresa di conoscenza scientifica. Il risultato è un sempre più crescente analfabetismo tra studiosi.

Intesa nel significato principale, e se vogliamo anche un po’ scontato, di discorso sull’uomo, l’antropologia inizia la sua indagine da alcune domande fondamentali, addirittura banali: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Come tutto ciò che contiene in sé qualcosa di profondamente infantile (ovvero, in termini tecnici, che presenta forte neotenìa), anche queste domande un po’ sciocche e un po’ troppo generiche possono, se usate con avvedutezza, disegnare linee d’indagine della massima importanza. Non si tratta, sia detto subito, di rintracciare risposte scientifiche a problemi che sono propriamente filosofici, ma di saper mantenere vitale la ricerca attraverso quella sana pratica che sta alle origini stesse della scienza: l’arte di farsi delle domande.

Intesa come disciplina accademica, l’antropologia patisce di un male da cui nessun settore è esente: la frammentazione dei saperi in accordo con le obsolete ripartizioni ministeriali delle aree scientifico-disciplinari. Basta scorrere il numero di facoltà e di corsi di laurea che, in Italia, prevedono l’insegnamento dell’antropologia, per accorgersi che esiste una molteplicità di approcci entro i quali l’antropologia biologica delle popolazioni attuali è un utile strumento o addirittura un asse portante della formazione. Di fatto, quello che si sconta nell’organizzazione accademica dell’antropologia è una delle opposizioni concettuali più perniciose della storia d’Occidente, quella cioè fra natura e cultura, nature e nurture, innato e acquisito, genetica e apprendimento.

Attorno a questa opposizione si sono scritte numerosissime pagine ma, ed è ciò che più conta, non si tratta affatto di un tema per pensatori oziosi: qualunque politica d’intervento sociale, dalla più minuta alla più radicale, assume come sua base sostanziale un assunto naturalistico ovvero culturalistico, si fonda su una precisa visione dell’uomo, del suo essere al mondo, delle sue potenzialità e dei suoi limiti, e agisce di conseguenza. Per questa ragione l’antropologia non ha mai potuto essere neutra rispetto alle scelte politiche: qualsiasi cosa si dica scientificamente su Homo sapiens ha un immediato riverbero – non sempre nella direzione attesa – in termini di scelte sociali e di visione condivisa del mondo. Questa situazione è vissuta da alcuni come una maledizione, da altri come una forza ma, in entrambi i casi, è qualcosa con cui fare i conti.

Nel quadro delle discipline scientifiche l’antropologia presenta una peculiarità che stenta oggi a trasformarsi in una forza e che, talvolta, si è perfino tradotta in uno svantaggio: è il suo posizionamento irriducibilmente a mezza strada, fluttuante, fin dalle origini, fra le scienze della vita e le scienze umane. Questa collocazione ha avuto, nel corso del tempo, un impatto notevole tanto per la storia della disciplina che, più in generale, nel ripensamento dell’impianto delle scienze dell’uomo. Nel Novecento, infatti, essa si è trovata nella posizione giusta per operare un importante rovesciamento: prima fra le scienze umane, ha rivolto il proprio armamentario concettuale non più solo verso “oggetti esterni” (ovvero verso popolazioni extraeuropee, esotiche), ma verso la stessa società di provenienza e appartenenza. Si può leggere questo movimento riflessivo come una sorta di teorema di Gödel delle nostre scienze: i risultati, come nel più celebre caso matematico, sono stati sorprendenti e hanno indotto per qualche tempo un ripensamento autoriflessivo che ha contagiato anche altre dottrine. Per alcuni aspetti l’antropologia è, fra le scienze umane, ciò che la logica matematica è fra le scienze “dure”, e la filosofia fra le discipline umanistiche: una sorta di collante universale, una disciplina specifica che è anche strumento e presupposto delle altre. Senza voler spingere troppo oltre una semplice analogia, l’antropologia potrebbe costituire per le stesse scienze una specie di centro dinamico, un punto d’osservazione in continuo movimento e l’interfaccia fra quanto già si sa e le possibili linee di ricerca che restano invece da percorrere. Lo status ibrido dell’antropologia potrebbe inoltre rivelarsi un’ottima pista per uscire dalle eccessive specializzazioni scientifiche.

Esiste nel mondo vivente almeno una specie in cui il corredo naturale non coincide immediatamente con il modo di vita e in cui il modo di vita modifica profondamente il corredo stesso: anche senza avanzare alcuna pretesa di unicità, Homo sapiens porta all’estremo, facendola compiere un importantissimo salto quantitativo, la progressiva tendenza alla cultura che già caratterizza i mammiferi superiori e i primati. Nello studio di questa specie, i dati della genetica sono tanto rilevanti quanto quelli della sociologia, quelli della fisiologia quanto quelli della storia, la medicina ha pari dignità della mitologia, la geografia e l’ecologia quanto la letteratura. Ma non basta: non solo questi dati, di provenienza scientifica eterogenea, si applicano a uno stesso oggetto/soggetto di studio, ma interagiscono fra loro finendo con il configurare un modello di analisi che, rispetto al canone classico della scientificità, introduce una variabile importantissima: quella storica della variabilità.

Gli esseri umani non sono l’esito deterministico di dati già disponibili (geni, situazione ecologica, fattori culturali), ma l’esito, in perenne divenire, di un lungo processo di umanizzazione che, filogeneticamente e ontogeneticamente, continuamente li trasforma e li plasma tanto nelle risposte culturali quanto in quelle, solo apparentemente immutabili, della fisiologia. Siamo di fronte a un processo di antropopoiesi.

Antropologia della salute

La terminologia medica è un bollettino di guerra: le malattie che colpiscono devono essere combattute, debellate e sconfitte; occorre difendersi dall’attacco degli agenti patogeni allertando le barriere immunitarie; esistono organi bersaglio, cellule bombardate, eserciti di globuli bianchi, invasioni batteriche, batteri killer, terapie d’urto ecc… Cellule il cui ruolo difensivo non è ancora chiarito vengono definite null-cell (nulle, codarde); porzioni di DNA che ostinatamente non hanno ancora svelato alla tecnocrazia il loro compito sono etichettate non-sense o spazzatura.

Evidentemente la medicina, come affermava Edoardo Sanguineti, malgrado il suo pesante corredo tecnologico, non è ancora completamente uscita dalla fase originaria e arcaica, essenzialmente magica e sacrale, religiosa e rituale. Questo linguaggio sottende un approccio teso a individuare aspetti divini nell’incombere delle patologie. Rimozione di antiche paure, da cui esorcizzazione terminologica. Ma lo studio delle malattie è importante per l’antropologo soprattutto perché permette di criticare un’interpretazione troppo rigida e teleologica dell’adattamento dell’uomo e degli esseri viventi in generale. Gli esseri viventi sono il risultato dell’evoluzione e le malattie potrebbero sottolineare l’imperfezione e i limiti dell’adattamento all’ambiente.

Antropologia e medicina

In generale, i rapporti dell’antropologia medica con le due discipline madri sono stati più facili sul versante dell’antropologia che su quello della medicina. Ciò deriva, almeno in parte, dalla necessità storica dell’antropologia di essere disciplina di frontiera, con la conseguente maggiore apertura (o, quantomeno, con l’assenza di pregiudizi) nei confronti di prospettive di studio atipiche e non convenzionali. La medicina ha aspirato spesso a porsi come scienza hard (da cui i tentativi di fondazione epistemologica sulla fisiologia, sulla biologia molecolare o sulla biochimica), con una visione unitaria sulla salute e sulla malattia che risulta di difficile mediazione con approcci differenti.

La posizione eccentrica dell’antropologia ha attratto critiche recenti alla stessa definizione disciplinare. È stato infatti notato che le radici dell’antropologia medica non si trovano soltanto, e neppure principalmente, nella medicina, ma affondano anche nella pratica infermieristica, nel dibattito e nelle politiche sulla salute pubblica e, in generale, in tutte le attività che riguardano il mantenimento della salute e la presa in carico della malattia o della crisi attraverso le normali transizioni vitali degli individui. Inoltre, una volta posto il problema dei rapporti fra biomedicina e sistemi medici non occidentali, le prospettive amplissime (culturali, scientifiche e sociali) aperte dagli studi etnomedici e medico-antropologici non potevano non trasformarsi in approcci critici alla medicina occidentale.

Innanzitutto, com’era da attendersi, la medicina occidentale è stata equiparata dall’antropologia a qualsiasi altro sistema medico, e cioè interpretata come il sistema di cura tipico di una società specifica (quella occidentale industrializzata) in uno specifico tempo della sua storia (quello del capitalismo avanzato). Di fronte a una lettura di questo genere, fortemente relativizzante, la biomedicina si è trovata costretta, almeno nella sua parte più sensibile, a ridefinire i propri criteri di universalità e scientificità e a riconoscere il profondo senso storico implicito nel suo impianto concettuale. In secondo luogo, l’antropologia ha criticato la prospettiva fortemente riduzionista della biomedicina contemporanea e il suo imporsi senza riguardo per le particolarità culturali e sociali di gruppi umani diversi.

Infine la ricerca medico-antropologica ha messo in crisi alcune categorie specifiche del pensiero biomedico, fra cui le distinzioni tra diagnosi e trattamento, tra cura tecnologica e non tecnologica e tra specificità e generalità del processo terapeutico. Questa situazione non ha tuttavia impedito, in numerosi paesi europei, un vivace quanto costruttivo dialogo fra i differenti sistemi di cura che ha indotto a sua volta, in seno alla biomedicina, una nuova corrente critica associata all’antropologia, che vede coinvolti in modo particolare igienisti, epidemiologi, medici sociali e psichiatri.

Ma il confronto non è solo con il pensiero biomedico. Nella ricerca medico-antropologica è infatti sempre presente una serrata dialettica di categorie scientifiche e schemi provenienti dalle scienze umane, di pensiero applicativo e pensiero critico. Si tratta di temi complessi e di problemi pressanti: l’antropologia, come tutte le discipline che operano all’interfaccia fra biologia e cultura, riflette contraddizioni e lacerazioni che sono presenti nel mondo reale e che sarebbe utopico pensare di risolvere nel campo delle mediazioni teoriche. Tuttavia, proprio l’incrocio e il meticciamento di istanze provenienti da campi diversi hanno permesso preziosi chiarimenti, illuminando nello stesso tempo tutti i nodi critici irrisolti e talvolta perfino innescandoli. Di particolare interesse ci è sembrata la dichiarazione finale rilasciata dai medici di base al termine di un loro congresso di categoria: “Le parole del paziente hanno la validità d’un campione biologico. Narrare la malattia e ascoltare la malattia è un dovere scientifico, culturale ed etico”.

Antropologia e dolore

L’Occidente contemporaneo opera oggi una rimozione pressoché totale del dolore. Nella nostra cultura il dolore, tendenzialmente, non si dice, non si condivide, non si mostra, viene gestito in spazi appositi, isolati dal contesto circostante, è reputato del tutto inutile, un sinistro regalo della natura, qualcosa di cui sbarazzarsi quanto prima possibile. Il dolore è rimosso dall’esperienza quotidiana, dalla coscienza individuale e, in generale, anche dai sistemi teorici che stanno alla base delle discipline scientifiche e sociali. Perfino la filosofia dell’ultimo secolo ha abbandonato (con poche eccezioni) qualsiasi tentativo di dare senso e voce al dolore, preferendo orientarsi verso l’epistemologia, l’ontologia e l’etica formale. In Occidente, insomma, il dolore è un oggetto privo di senso. Se l’assenza di un discorso articolato sul dolore coincidesse con la scomparsa, o comunque con una forte riduzione del fenomeno, ci sarebbe molto di cui rallegrarsi. Ma le cose non stanno così. Due elementi che, con particolare evidenza, segnalano che si tratta di una rimozione e non di un superamento sono la diffusione del male mentale (che, in questi anni, ha preso la forma prevalente della depressione) e la contemporanea assenza di qualsiasi riflessione sul piacere. La coppia percettiva fondamentale è dovunque velata di silenzio. Il meccanismo fondamentale di questa rimozione è forse da ricercare anche nella naturalizzazione del dolore. Nella sua versione naturalizzata il dolore è del tutto astratto dalla trama culturale e considerato come fenomeno a sé, indipendente dalle condizioni circostanti, universale e univocamente quantificabile. Il dolore e la sua esperienza sarebbero insomma determinati dalla costituzione stessa del generico corpo umano. Questo approccio è stato storicamente della massima importanza all’epoca in cui era necessario strappare l’esperienza del dolore dall’orizzonte religioso, che lo legge come punizione divina o come prova da superare con rassegnazione, e trovare molecole efficaci per contrastarne la potenza. L’esito di questo movimento può difficilmente essere sovrastimato: il rapporto col dolore degli occidentali contemporanei discende infatti per via diretta dall’efficacia e dalla facile disponibilità di antalgici (per rendersene conto basta pensare alla modificazione nella costellazione delle virtù personali, che oggi non include più la capacità di resistere al dolore che era invece un tratto fondamentale per le generazioni dei secoli passati). Questo stesso orientamento perde tuttavia forza esplicativa nel momento in cui, facendo esclusivo riferimento all’efficacia degli antalgici di sintesi, proietta sul dolore le qualità universali e astratte che sono della molecola, insistendo allo stesso tempo nel separare il dolore dalla trama culturale entro cui esso acquista senso. Il fisiologo vorrebbe separare il dolore dal mondo allo stesso modo in cui il fisico classico separa i propri oggetti dalle circostanze normali per studiarli nelle loro proprietà intrinseche, universali, astratte. Ma questo, tuttavia, nel caso del dolore non è concesso. Se, infatti, l’aspirina può agire con uguale efficacia sulla nevralgia del manager stressato e sul mal di testa del pastore transumante, nulla autorizza a dedurre che i meccanismi che stanno alla base dei due dolori siano analoghi, né che i due soggetti doloranti abbiano assunto la molecola alla stregua di un principio disincarnato, al di fuori di una rete di senso che ne specifica l’azione e la portata. Ma non basta: la naturalizzazione del dolore fa parte di un paradigma più ampio che ha radici storiche precise e che oggi sopravvive nonostante la sua insufficienza sia diventata più evidente. Basta una veloce consultazione del vocabolario per accorgersi che esistono in Occidente pochissimi termini per definire il dolore: rispetto a tutti gli altri lessici riferiti a sensazioni o a emozioni, quello del dolore è di una povertà sconcertante. Perfino in ambito medico, dove una sistematica precisa delle modalità di dolore sarebbe estremamente utile, si è andati poco al di là di una scala quantitativa. Le poche parole a disposizione sono inoltre tutte caricate di un’opposizione concettuale tipica ed estremamente resistente: quella fra il dolore fisico e quello spirituale. Definitivamente persa a inizio Novecento l’antica associazione del dolore al male, alla colpa e all’espiazione, l’unica griglia semantica disponibile alla contemporaneità per leggere l’esperienza del dolore distingue solo il dolore del corpo dalla sofferenza dell’anima. Esistono quindi, secondo l’Occidente attuale, due sole modalità fondamentali di dolore: fisico e spirituale. Il primo è attivato dalla risposta di particolari recettori a modificazioni dell’ambiente esterno o interno al corpo fisico del soggetto; il secondo è causato dall’impatto sulla sua mente di eventi gravi e ineluttabili. Il debito (cosciente e incosciente) verso Cartesio è ancora abissale. Non si tratta di essere pro o contro questa opposizione, ma semplicemente di segnalarla e indagarla: essa è talmente radicata nella mentalità occidentale che è quasi impossibile riuscire ad aggirarla completamente. Infatti la stessa medicina psicosomatica, che ha il merito di aver intuito precocemente che la partizione fra fisico e spirituale è, per molti aspetti, eccessiva, non ha fatto che riproporla all’interno dello stesso concetto di psicosomatico.

Nel complesso, questa partizione pone oggi più problemi di quanti contribuisca a scioglierne, anche nello stesso settore clinico dove l’esigenza di superarla è stata variamente espressa dal personale medico e, più in generale, dagli operatori della salute. La direzione in cui ci si è mossi, tuttavia, è ben diversa da quanto ci si poteva attendere. Invece di un reale superamento della partizione fra dolore fisico e dolore spirituale attraverso l’uso di una griglia semantica più raffinata, o semplicemente diversa, oggi ci troviamo di fronte a una sorta di collasso cartesiano che riduce tutto il dolore a un solo polo, quello fisico. Lontana dallo sviluppare strumenti più potenti per l’analisi delle diverse forme di dolore, la tendenza è oggi quella di descrivere anche i dolori dell’anima con il vocabolario, le metafore e i criteri dei dolori del corpo. Ne deriva una sorta di monismo, fortemente riduzionista e monolitico, che tutto sommato sembra ancora più inadeguato del vecchio dualismo a descrivere un’esperienza tanto complessa come quella del dolore. La ricerca, insomma, si è orientata verso la scoperta di precise cause fisiche esaustive anche per i dolori dell’anima, riducendo così il vivere umano (e i suoi reali effetti sulla materia di cui siamo costituiti) a una semplice questione di funzionamento meccanico.

L’etnomedicina e l’antropologia della salute e della malattia hanno prodotto negli ultimi due decenni eccellenti analisi dei sistemi di cura non occidentali, delineandone punti di forza e debolezze, e mostrando all’Occidente quanta razionalità si celasse nelle pratiche terapeutiche altrui. Ma, dopo aver analizzato e descritto le pratiche mediche degli altri, l’antropologia si è anche, per così dire, girata su sé stessa e sulle proprie origini e ha studiato la medicina occidentale con i medesimi criteri adoperati per le altre. Questo movimento riflessivo ha permesso di impostare subito la questione teorica e politica del rapporto fra la biomedicina e gli altri sistemi di cura, trasformandosi rapidamente in approccio critico alla medicina occidentale, cui sono state mosse diverse critiche circostanziate. Innanzitutto l’antropologia della salute, come scritto precedentemente, ha equiparato la biomedicina a qualsiasi altro sistema terapeutico, interpretandola come il complesso delle cure di una società particolare (quella industrializzata e terziarizzata) in un preciso punto della sua storia: la biomedicina come sistema terapeutico della tribù degli aristotelici. Nel tentativo di trasmutazione epistemologica indotto dalla storica aspirazione della medicina occidentale a divenire una scienza hard, al pari della fisica o della chimica, lo sguardo medico, come ha insegnato Michel Foucault nel 1963, si è fatto progressivamente più rigido ed è oggi in una posizione in cui è difficile ogni mediazione che non sia affidata alla buona volontà (e alla buona coscienza) dei singoli operatori. Di fronte a una lettura così relativizzante, i settori più sensibili della biomedicina hanno tentato di ridefinire i criteri di universalità e scientificità e, soprattutto, hanno apertamente riconosciuto le radici storiche del proprio impianto concettuale. Altre critiche sono poi state fatte in base all’analisi della pratica biomedica. Alcune delle categorie apparentemente più proprie al pensiero della medicina scientifica, fra cui le opposizioni diagnosi-trattamento, cura tecnologica-cura non tecnologica, specificità-generalità, sono state messe in discussione, così come la dipendenza della ricerca biomedica dall’industria farmaceutica. Un’ampia analisi si è poi incentrata sulla prospettiva fortemente riduzionista invalsa negli studi biomedici e proprio qui ha cominciato a venire in luce la questione più spinosa, oltre che più complessa e rischiosa: quella della razionalità. Ancora una volta ci si è ritrovati a discutere di parole, e ancora una volta un problema apparentemente solo semantico, tutt’al più filosofico, ha rivelato implicazioni decisamente materiali.

Il Museo di Etnomedicina Antonio Scarpa dell’Università di Genova

Il Museo (www.medicina.unige.it) conserva materiale e documentazioni raccolti durante 55 anni di viaggi e di attività da Antonio Scarpa, spinto dalla curiosità di comprendere come si curavano e si curano i popoli dei cinque continenti con le proprie medicine tradizionali. La collezione, nella sede attuale, rappresenta un percorso didattico all’interno delle scienze antropologiche tramite approfondimenti attorno ai procedimenti che ogni cultura mette in atto per alleviare le sofferenze e mantenere un benessere biologico, mentale e sociale.

Obiettivo auspicabile e prioritario è favorire una migliore conoscenza e riconoscenza dell’apporto offerto dalle pratiche tradizionali al progresso di tutte quelle scienze che operano nel tentativo di alleviare le sofferenze umane. È un percorso didattico attorno a Homo sub specie medicinae.

Il Museo ha assunto nel tempo un ruolo strategico per la ricerca in ambito antropologico assolvendo al contempo a molteplici e specifiche funzioni di conservazione/esposizione, di divulgazione scientifica/public engagement, di didattica/ricerca.

Nel 2013 l’UNESCO ha riconosciuto l’eccellenza a livello internazionale della ricerca condotta dal settore dell’Antropologia genovese istituendo presso l’Università di Genova la Cattedra UNESCO “Antropologia della salute. Biosfera e sistemi di cura”, diretta dal prof. Antonio Guerci, che è anche il Direttore scientifico del Museo, promuovendo l’approccio bio-culturale e il pluralismo metodologico poco conosciuto nell’università italiana a causa dell’intercomunicabilità tra obsoleti raggruppamenti disciplinari.

Il centro di eccellenza si inserisce all’interno del programma UNITWIN (University Twinning and Networking) creato nel 1992 dall’UNESCO con la finalità di promuovere la ricerca e la formazione, nonché di favorire la cooperazione tra università e scuole, la circolazione e l’integrazione dei saperi tra Paesi.

Il progetto della Cattedra intende coniugare una esigenza culturale, che tiene conto delle tendenze contemporanee nella ricerca scientifica volte a riconoscere un nesso tra i concetti di salute, di ambiente e di cura.

NOTA BIBLIOGRAFICA

Il testo cui l’Autore fa ampio riferimento, con la relativa bibliografia, è: Guerci, A. (2007), Dall’antropologia all’antropopoiesi. Breve saggio sulle rappresentazioni e costruzioni della variabilità umana. C. Lucisano Editore, Milano.

* Antonio Guerci

Professore Emerito

Cattedra UNESCO “Antropologia della Salute. Biosfera e Sistemi di Cura”

Museo di Etnomedicina A. Scarpa, Università di Genova

Via Mura del Molo, 18 – 16128 Genova

Mosaico della Moschea del venerdì a Kerman

Mosaico della Moschea del venerdì a Kerman (Iran); il disegno geometrico traduce un’idea che sottende tutto il pensiero antropologico: l’uno è presente nel multiplo dal quale ne emana e vi ritorna.