Andrà tutto a bagasce

La resilienza della razza umana ha risvolti grotteschi.
Mauro Carosio*
“Andrà tutto bene”. Questo slogan dalle intenzioni ansiolitiche sta accompagnando le nostre vite da quando “l’intruso”, ovvero il Covid 19, è comparso a destabilizzarle. “Andrà tutto bene” lo si ripete come un mantra, alla radio, in TV e poi sui terrazzi, dalle finestre. Insieme alle bandiere per la pace ora la scritta “Andrà tutto bene” è diventato un marchio di fabbrica come a dire: “qui abita una famiglia modello mulino bianco, siamo sereni”. “Andrà tutto bene” è stato appeso alla culla di un neonato durante il lock down in un ospedale genovese, in questo caso è chiaro che ai neogenitori è sfuggita un poco la situazione di mano.

“Andrà tutto bene” ha un potere apotropaico. Noi che abbiamo orgogliosamente appeso lo slogan in questione pensiamo positivo, spargiamo energie positive perché ci crediamo. Insieme ci facciamo forza e seguendo il protocollo filo statunitense del “noi ce la faremo” ci facciamo coraggio sicuri delle nostre capacità. Credo che “Andrà tutto bene” significhi questo. Ne sono certo? No, non ne sono certo. Sono però certo che il buontempone che ha appeso al suo balcone un altro cartello d’ispirazione punk-mugugnista (il mugugno genovese è un brand) abbia idee diverse. Il signore, o la signora, che ha scritto “Andrà tutto a bagasce”, con malcelata genovese ironia, ha pensato diversamente. “In direzione ostinata e contraria”, come si dice da queste parti, ha osservato quanto sta accadendo da un’altra prospettiva e grazie a una battuta ribalta un quadro rassicurante.

Ma “Andrà tutto a bagasce” non è un malaugurio. E’ un invito a pensare a come procedere. Uno spunto per staccarsi dall’infodemia da cui la maggior parte di noi è “infetta” per cercare un senso a tutto quello a cui abbiamo dovuto abituarci e a fare davvero i conti con un evento stra-ordinario. Un evento che ha visto trionfare il delirio dell’opinionismo. I social lo hanno dimostrato ampiamente: pare che meno si sa di qualcosa e più si pretende di sapere e di voler spiegare. Avremmo potuto fare diversamente. Avremmo potuto utilizzare il tempo che il lock down ci ha imposto per capire e non per parlare dal momento che chiunque lo stava già facendo. Questa pandemia ci ha chiamato tutti in causa come esseri della stessa specie e tutti allo stesso modo in grado di contagiare e di essere contagiati. Si è posto dunque il problema: come relazionarsi all’altro in presenza di una reciproca “contagiabilità”? In poche settimane abbiamo scoperto piatteforme sociali sconosciute che ci hanno permesso di attivarci. E vai con Zoom, Google Meet, Teams e altro! Grazie al web abbiamo scatenato le nostre fantasie più nascoste. Aperitivi su Zoom, lezioni di zumba su Skype, corsi di telaio etiope su Teams e la pizza fatta in casa! La pizza fatta in casa è stata uno degli articoli più postati su instagram. Contemporaneamente a tutto ciò è arrivato lo smart work che nel giro di una settimana ha cancellato le lotte sindacali per tutelare i diritti dei lavoratori. Con lo smart work non esiste più un orario di lavoro. “Intanto sei a casa per cui se anche ti mando una mail alle 21 non disturbo vero?”, “Non mi disturbi affatto! Ho il tablet sul tavolo apparecchiato”.

È parte dei luoghi comuni sulle conseguenze della tecnologia digitale che il tempo trascorso davanti allo schermo (di uno smartphone o di un computer) sia tempo sottratto alla socialità; che il dilagare di social, con chat, messaggi, profili, immagini post, video, ecc. ci renda meno pronti cognitivamente, passivi esecutori di azioni pre-disegnate; che l’uso dei social media incrementi le tendenze già forti nelle società contemporanee a un individualismo esasperato. D’altra parte, è ormai acquisito nella ricerca sociale sulle nuove tecnologie che i social media siano di fatto un altro spazio dove le persone vivono, che si affianchino agli altri spazi della loro vita “reale”, l’ufficio, la casa, il bar, la piazza del villaggio. Una modalità della socialità che si aggiunge. Chi ha ragione? I social e le tecnologie digitali producono pericolose trasformazioni “antropologiche” della nostra umanità, del tipo alienazione, passività cognitiva, automatismo? Oppure sono unanuova modalitàche si aggiunge a quelle già note di generare relazioni sociali? Così scrive Vincenzo Matera: (https://www.parliamoneora.it/2020/05/13/il-distanziamento-ovvero-la-socialita-al-tempo-del-coronavirus/ )

Siamo davvero sicuri che il tempo trascorso davanti a uno schermo sia tempo sottratto alla socialità? Non potrebbe essere che davanti a uno schermo abbiamo inventato una nuova e più ricca socialità? Proprio grazie allo schermo gli insegnanti sono entrati per la prima volta in casa degli studenti e viceversa. I dirigenti d’azienda sono entrati nelle case dei dipendenti e tutte le volte che abbiamo partecipato a una riunione sul web abbiamo ospitato gente a casa nostra. Qualcuno più accorto ha scelto cosa mostrare della propria vita domestica altri più distratti no. Qualcuno ha accuratamente preparato un setting da presentare pubblicamente sedendo compito davanti a una libreria o a una parete che lasciasse poco trapelare dell’ambiente casalingo, altri hanno incautamente lasciato il figlio o la figlia “a scuola” col nonno in mutande che transitava sullo sfondo durante la lezione. “Valentina la spremuta!”, “mamma la prof. mi sta interrogando”.

E così, tra una “dad” e una “call” abbiamo proceduto fino alla fine dell’anno scolastico e alle meritate ferie estive. La fine del lock down e l’inizio dell’estate hanno segnato un nuovo corso di un periodo già di per sé delirante. Ecco quindi che Angela Chianello, meglio conosciuta come la signora Noncenecoviddi, 150.00 follower su instagram in pochi giorni dopo la sua apparizione a un programma televisivo, ha dato voce all’esasperazione che il popolo italiano aveva raggiunto. Negazionisti in piazza, grigliate in spiaggia e “Briatori” di turno hanno contribuito alla famosa seconda ondata dando vita a una nuova pletora di opinionisti che “intanto il virus è cambiato e oggi non muore più nessuno”. Questo è accaduto nel mondo “reale” tanto caro a quelli che denunciavano “la scomparsa del corpo” e ai problemi ad essa connessi. Resta chiaro che l’esclusione del corpo dai setting psicanalitici, medici, scolastici e affettivi abbia posto seri problemi di rinegoziazione delle relazioni. E’ altrettanto chiaro quanto grazie alla resilienza umana ci siamo dati un gran da fare per sopperire alla mancanza di socialità ognuno a seconda dei propri strumenti e capacità. I risultati? Troppo presto per dare un giudizio esaustivo, non demonizziamo nulla e restiamo criticamente consapevoli. E ora? E’ tornato l’autunno, “più tamponi per tutti”, l’accelerazione digitale prosegue il suo corso e la “vita sociale” continua a scorrere accompagnata come al solito da inquietudini che necessitano narrazioni e ripensamenti. “Andrà tutto…”

Per approfondire:


Mauro Carosio*, antropologo, è Scientific Adviser cattedra UNESCO, Antropologia della salute, biosfera, sistemi di cura presso l’Università degli studi di Genova.