Adolescenza e pandemia. Il confine tra le tappe evolutive proprie dell’adolescenza e le conseguenze di un arresto di sviluppo traumatico

di Valeria Castagnola*

Si sente spesso dire che “l’adolescente non sa né di carne né di pesce”, intendendo evidenziare che non si è più bambini, ma al contempo neppure adulti. 

Detto così suona come un pregiudizio difensivo e svalutante in cui si tende a dire ciò che l’adolescente non è piuttosto che tentare di comprendere la natura del suo essere.

Nella realtà, la fascia adolescenziale è caratterizzata da una complessità psicologica che consiste in una fase di passaggio da un’immagine di sé bambino a un’immagine di sé adulto (l’adolescente avverte in pieno la tensione trasformativa in atto della sua personalità e quindi percepisce e soffre dentro di sé la compresenza conflittuale di residui di bisogni e istanze infantili mescolati a tante nuove scoperte ed esigenze adulte).

Quindi, se reinterpretiamo la frase iniziale, l’adolescente vive un dramma esistenziale di essere “sia carne sia pesce”.

Nell’adolescenza vi sono principalmente 4 tipi di cambiamenti:

  • Completa maturazione fisica
  • Raggiungimento della maturità sessuale (scoperta/conferma e attuazione del proprio orientamento sessuale)   
  • L’acquisizione dello stato di adulto
  • Il conseguimento del pieno sviluppo cognitivo

In questo ciclo di transizione provano un vissuto di disagio legato essenzialmente a 2 fattori:

  • Immagine corporea
  • Ruolo sociale

Quindi l’adolescente vive 3 lutti:

  • Perdita del corpo infantile
  • Perdita dei genitori dell’infanzia (dapprima idealizzati)
  • Perdita del ruolo infantile (questo è il più disorientante perché il senso di mancanza di collocazione chiara e definita, l’emarginazione e confusione, possono esprimersi talvolta con comportamenti spavaldi e aggressivi, devianze, comportamenti a rischio, disturbi alimentari, uso di sostanze, stati depressivi, ecc…, o al contrario infantilizzarsi).

Comprendere l’adolescenza è fondamentale per entrare in contatto con l’adolescente in crisi, superando le sue forti resistenze difensive: non è semplice costruire un’alleanza terapeutica e mantenerla nel tempo, la psicoterapia con i ragazzi è un po’ diversa da quella con l’adulto, occorre plasmarsi e guardare il mondo con i loro occhi per meglio distinguere gli aspetti fisiologici della crisi adolescenziale, intesa come processo maturativo costellato da un turmoil – tumulto, turbamento – emotivo, (Jeammet, 1992) da quelli più patologici o conseguenza di esperienza traumatiche e sconvolgenti.

Gli adolescenti vedono gli adulti come i detentori di controllo e potere, una classe tirannica e privilegiata che li opprime (genitori, insegnanti, allenatori e altre figure di riferimento con cui hanno una relazione costante), mostrano diffidenza, li vivono come prevaricanti, ipocriti, incoerenti, truffaldini (“Che mafia” è una delle espressioni che più utilizzano).

Mentre i bambini vedono gli adulti come una sorta di “divinità onnipotente”, una volta adolescenti la loro posizione cambia diventando disprezzanti, sfiduciati e guardinghi (anche fisicamente: non si fanno toccare, baciare, gli dà fastidio, per fare un esempio, anche solo sentirli masticare, repellono tutto ciò che è vagamente legato a uno stimolo verosimilmente sessuale, visto che in sé, le prime sconcertanti spinte libidiche  pulsionali, iniziano a far rumore). Ma anche i genitori hanno un atteggiamento molto tollerante nei confronti del bambino e diventano poi spesso indulgenti e impietosi una volta diventato adolescente. Pensiamo a un bambino e a un adolescente che urlano al ristorante: nel primo caso viene spesso, neanche come richiesta bensì come pretesa, l’accettazione e la clemenza del disturbo giustificandolo con l’età anagrafica; nel secondo caso invece viene immediatamente disapprovato, censurato e castigato un comportamento che in teoria dovrebbe essere considerato inadeguato in generale, a prescindere dalla fascia d’età. Eppure l’adulto cambia le regole all’improvviso e l’adolescente non comprende immediatamente il perché di tale, a suo dire, ingiustizia per cui o si ribella o, sempre di più negli ultimi tempi, passivamente si adegua remissivo covando poi dentro un malessere che, presto o tardi, viene a galla.

Spesso i genitori hanno la convinzione di rimanere statici e di assistere inermi, quasi vittime, alla trasformazione del “mostro” che, da docile e ammaestrabile bambino diventa un ingestibile e ribelle individuo. In realtà vi è una dinamicità da ambo i lati: quel senso di smarrimento dei genitori i quali sembrano non riconoscere più il figlio è esattamente il sentimento che prova il minore. Ci si distacca, senza che spesso nessuno dei due rompa la distanza facendo un passo verso l’altro.

L’adolescente oscilla continuamente vivendo in uno stato confusionale col rischio di regredire a una posizione più infantile o al contrario adultizzarsi precocemente.

Teme la sua stessa emotività e sensibilità, ha la pelle sottile, delicata, ha una percezione amplificata, nel bene e nel male, di ciò che vive internamente o che accade intorno a sé (tutto è descritto in termini superlativi: “tantissimo”, “malissimo”).

Al contempo ha paura a mostrarsi troppo sensibile, temendo di scivolare verso l’infanzia appena salutata, percependo la dipendenza dagli adulti (per questo spesso vuole apparire goffamente duro come a voler dire “io non ho bisogno di te e di nessuno”).

Questo è il conflitto principale che caratterizza la “normale” sofferenza mentale di un adolescente (condizione con cui, nella maggior parte dei casi, si presenta l’adolescente in terapia, per essere sostenuto e supportato in questo ordinario periodo di smarrimento e sbandamento).

È difficile che la richiesta d’aiuto peraltro arrivi dall’adolescente stesso, spesso la segnalazione arriva dai genitori, scuola, pediatra, comunque da un adulto.

Con il terapeuta inizialmente si approcciano coerentemente con la visione che hanno degli adulti: sono prudenti, frenati e diffidenti (dal mio punto di vista è un approccio sano non conoscendoci inizialmente, la fiducia si costruisce pian piano, come è giusto che sia), temono la manipolazione da parte del terapeuta, il giudizio, la critica, il rimprovero (d’altronde dalla maggior parte degli adulti questo ricevono: voti, regole, rimandi frequenti e costanti di inadeguatezza). 

Le tipologie più frequenti di adolescenti che giungono in terapia sono:

  • L’adolescente che resta intrappolato in una fase di latenza, vive una vita iper protetta in una famiglia poco tesa alla spinta e all’accompagnamento verso l’acquisizione di nuove autonomie, ha una visione della realtà ovattata e irreale, costantemente protetto dalle frustrazioni da parte delle figure di riferimento e isolato dai pari (e dalle conseguenti esperienze dal vivere con essi);
  • L’adolescente che freme per raggiungere al più presto l’indipendenza, atteggiamento giudizioso e adultizzato che stride con l’età, frainteso dai genitori che non ne vedono il limite ma solo il vantaggio di avere dei figli che non recano disturbo né destano alcuna preoccupazione;
  • L’adolescente che ha difficoltà a relazionarsi con i pari, nello stare in gruppo, problemi nell’accettare la maturazione sessuale, soffre le dinamiche competitive e le regole di inclusione/esclusione;
  • L’adolescente che ha vissuto dei traumi, inespressi verbalmente ma agiti attraverso comportamenti disfunzionali (chiusura invalidante, devianza, uso di sostanze, condotte alimentari disfunzionali, aggressività, silenzi e altro);
  • L’adolescente isolato (manifestazione della condizione psicopatologica più grave): si ritira via via sempre più in se stesso, irrigidendosi in un’organizzazione narcisistica autocritica, vivendosi come unico garante della propria autonomia (è come se si sentisse inquieto in una missione da compiere completamente da solo). Oppure si convince di bastare a se stesso e di non aver bisogno di niente e di nessuno sentendosi, in maniera troppo inflessibile e assolutistica, inascoltato e incompreso. Sottolineando che questa, per i compiti evolutivi da assolvere e a cui è chiamato, non è una scelta consapevole di goduta solitudine, bensì una rinuncia, un arrendersi nascondendosi.

E quando l’isolamento è imposto dall’esterno e per lungo tempo (vedi i lunghi periodi di lockdown da Covid-19) cosa succede? Una pandemia è quella che viene definita “trauma collettivo”: si riferisce all’impatto che un’esperienza traumatica ha su un gruppo di persone, comunità o società. 

Ciò non significa che tutte le persone che vivono un’esperienza definita trauma collettivo (pandemia, terremoto, tsunami, guerra, eccetera) ne escano traumatizzate.

Ma sicuramente, in una fase di sviluppo così dinamica come l’adolescenza, essa ha causato delle conseguenze significative che si distinguono dai normali sconvolgenti compiti evolutivi propri di questa fascia d’età. 

Immediatamente dopo la pandemia si è evidenziato come i ragazzi dai 13 ai 20 anni siano coloro che prevalentemente hanno accusato i maggiori danni a livello psicologico: nonostante la fascia d’età sia stata quella meno a rischio in termini di contrarre il virus (da un punto di vista di salute fisica, ma accollandosi più di tutti la responsabilità di preservare i propri cari), il distanziamento sociale e l’interruzione della normale routine scolastica hanno provocato conseguenze considerevoli.

Innanzitutto la paura: paura di contrarre il virus (più che per sé stessi, il pericolo di contagiare i propri cari). Tra l’altro la categoria è stata ingiustificatamente anche quella più additata, screditata e accusata di avere un approccio leggero e superficiale, i cosiddetti “untori”. 

L’angoscia costante e l’incertezza per il futuro (gli adolescenti non sopportano l’incertezza, basta vedere la reazione intollerante e irrequieta di fronte a un: “Poi vediamo”, per loro è inaccettabile non sapere). In aggiunta sono da tenere in considerazione anche l’angoscia, l’ansia e la paranoia proprie degli adulti che, inconsapevolmente o meno, amplificate dallo stato di emergenza, hanno proiettato sui figli.

Gli adolescenti vivono il tempo presente, per loro il passato spesso è fumoso (sovente ricordano poco della loro infanzia nonostante appena trascorsa) e il futuro è molto prossimo (il weekend) si fa fatica a proiettarsi molto avanti essendo un tempo che vedono lontano e ignoto, fanno fatica a pensarsi, influenzati dalla frustrazione di non sapere. 

Al termine delle varie restrizioni è stata inquietante la richiesta a valanga di intervento psicoterapeutico su pazienti adolescenti. Rispetto a questo, ho racchiuso, sulla base della mia esperienza professionale, a partire da ciò che ho avuto modo di osservare, una serie di motivazioni che evidenziano come l’isolamento ha avuto sicuramente conseguenze per tutti, giovani e adulti (nell’adulto ad esempio ha slatentizzato delle problematiche che sono emerse potenti e, “all’improvviso” a loro dire, che fino ad allora erano latenti o tenute difensivamente sotto controllo), ma per i ragazzi in particolare, che sono abituati a vivere e a strutturarsi principalmente insieme ai pari, si ha idea dell’angoscia data da questa privazione?

  1. Spaventoso blocco nello sviluppo che lascia un vuoto spazio-temporale alienante e angosciante.

Moltissimi adolescenti giunti in terapia nel post hanno usato l’espressione “è stato come cadere in un pozzo, rimanerci 1 o 2 anni e poi uscire” riprendendo la similitudine con la serie tv “Manifest” (in cui un gruppo di persone sale su una aereo e giunti a destinazione scendono in un mondo collocato temporalmente 5 anni dopo rispetto al decollo qualche ora prima). Teniamo presente che la solitudine, per tutti, può avere due valenze: o una prigione o un lusso. Nel secondo caso, la solitudine può essere tale se, in presenza di una socialità, viene scelta come momento privilegiato con se stesso. Se imposta, senza possibilità di alternative, non può che essere una gabbia da cui si vorrebbe uscire, ma al contempo si ha paura a farlo (un po’ come le persone rapite che, abituate ad essere recluse per lungo tempo in un unico piccolo spazio, una volta liberate proseguono l’isolamento a casa propria). Il senso di solitudine non è un’emozione bensì un sentimento: le emozioni sono guidate dagli eventi mentre i sentimenti sono comportamenti appresi che sono di solito in letargo fino a quando vengono innescati da un evento esterno. Le emozioni ci dicono quello che fondamentalmente ci piace o non ci piace, i sentimenti ci dicono “come vivere”. Per questo motivo l’atteggiamento nei confronti della solitudine si è differenziato a seconda di come ciascuno lo ha introiettato ed esperito crescendo, ad esempio ho rilevato che i figli unici, abituati fin da piccoli a giocare da soli, nel lockdown hanno ritrovato un’abitudine che alla fine hanno gestito meglio di altri, tutti i miei pazienti adolescenti arrivati immediatamente nel post Covid hanno fratelli.

Questo blocco li ha inibiti anche per quanto riguarda l’esplorazione nel campo della sessualità. Il disabituarsi al contatto fisico unito alla totale assenza di esperienza per lungo tempo, hanno generato in loro una spinta desiderosa e necessaria all’erotismo, ma in compresenza di forti impacci, complessi e disagi.

  1. Comparsa accelerata di disturbi o difficoltà probabilmente latenti, manifestati attraverso una sintomatologia più accentuata e inquieta:
  • Disturbi del sonno (insonnia, ipersonnia, inversione ritmo sonno/veglia, eccetera);
  • Disturbi dell’alimentazione (restrizioni severe o alimentazione sregolata, eccetera);
  • Disturbi d’ansia (ipocondria con timore eccessivo da contaminazione dal virus, paranoia di riportare dei danni irreversibili a seguito del contagio, ansia sociale con relativa difficoltà nel reintrodursi in una quotidianità sociale e interattiva coi pari o nella ripresa delle attività esterne, attacchi di panico);
  • Disturbi psicosomatici (coliti, eruzioni cutanee, asma, eccetera);
  • Paranoia, pensieri irrealistici intrusivi riguardanti la loro identità personale e sessuale (“ho paura di essere disforica”, “ho paura di ammalarmi” e molti altri);
  • Sviluppo di comportamenti di dipendenza (da internet, gioco d’azzardo, play station, abuso di sostanze);
  • Gesti autolesivi, tentativi di suicidio, suicidi, ritiri scolastici, ricoveri psichiatrici.
  1. Incontro ravvicinato con i genitori. Sia in termini di vicinanza, sia in termini di tempo a cui non erano mai stati abituati. Molti minori sono stati costretti a una presenza costante di genitori disfunzionali, che non erano in equilibrio con se stessi, che hanno perso o ridotto il lavoro, vivendo in presenza di conflitti fino alla separazione.

Molti di loro sono stati esposti costantemente a un malessere famigliare via via in crescita che ha contribuito ad amplificare l’insofferenza e l’impotenza, non vi era più via di fuga.

Molto spesso i ragazzi vengono portati in terapia come detentori di un problema quando sovente non sono altro che stufi spettatori di genitori da cui si sentono presi in giro e che sono il nucleo problematico della famiglia (la casa non è un luogo sicuro per tutti). Per questo è molto importante coinvolgere la coppia genitoriale, per rendere tutti responsabili e consapevoli della situazione instabile a cui è necessario dare una risoluzione.

  1. La didattica a distanza (DAD).

Chiusi in camera soli davanti a un pc. Il contesto in cui si apprende condiziona tantissimo le capacità di attenzione, di memoria, di percezione, di immagazzinamento di informazioni. Ad esemopio, quindi, se si riscontra un calo del profitto occorre parlargli con interesse e preoccupazione nel tentativo di capire qual è il problema e come aiutarlo a risolverlo, non vivere come una delusione personale il fatto di avere un figlio che prende le insufficienze. La delusione deve arrivare a provarla lui, non deve preoccuparsi di inorgoglire e compiacere l’altro e assolvere le aspettative degli adulti, così facendo diventa uno strumento di soddisfazione altrui perdendo di vista il focus su se stesso).

Spesso sono imputati di impenetrabili silenzi di fronte ai quali i genitori si sentono impotenti e sconfitti, optando di frequente alla resa.

L’adolescente in terapia parla, subito o dopo tempo, come portatore di un dialogo proficuo; per questo nel lavoro terapeutico sono inclusi i genitori favorendo anche il loro mettersi in discussione (oltre al figlio) ragionando su quale problema comunicativo non riesca ad agevolare una fluida comunicazione con lui/lei (andando oltre al pensiero superficiale che possa essere solo un momento o un capriccio che spontaneamente passerà, perché non accade). 

Le persone che noi conosciamo meno (come persone intendo e non solo come ruoli) sono i nostri genitori (che tipi sono, come si comportano quando sono soli), e lo stesso vale per i genitori nei confronti dei loro figli; senza un dialogo il non conoscersi/riconoscersi più porta di frequente a un’irreversibile distanza.

L’adolescente si comporta a specchio con l’adulto: se l’adulto lo giudica e lo ammonisce senza possibilità di confronto, essi iniziano a fare la stessa cosa, senza quasi neanche più quella sana ribellione adolescenziale che contribuisce alla creazione di un proprio spazio di indipendenza. Privandosi della possibilità di una contrattazione rispetto al senso di ingiustizia che sentono di subire. Conseguentemente si lamentano, passivi, sempre più frequentemente con terzi così che si riducono ulteriormente nel tempo gli scambi di scontro costruttivi tra il minore e l’adulto e venendo meno la reazione attiva del minore.

Rimanendo nel contesto scolastico tra l’altro, a distanza di 3 anni dal Covid, nel 2023 si è rilevato un numero spropositato di ritiri scolastici.

La cosa che più mi lascia perplessa è che, anche in questo caso, alla luce di un’espressione di malessere passiva, tesa al ritiro piuttosto che all’azione, anche in questo caso il focus del problema si va a circoscrivere esclusivamente al mondo adolescenziale. Relativamente a ciò vedasi la proposta di intensificare l’attività dello psicologo scolastico come unica soluzione al problema, senza mai tenere in considerazione anche un altro punto di vista, pensando o proponendo, in contemporanea, anche un intervento sulla selezione o su obblighi di formazione degli insegnanti che non sempre sono impeccabili esempi educativi per i ragazzi, diventando a loro volta motivo di sofferenza per gli stessi.

Non è una caccia alle streghe e l’obiettivo non è a chi affibbiare la colpa, termine che non mi piace mai usare: preferisco parlare di responsabilità, che in ogni situazione problematica occorre indagare, comprendere, intervenire e risolvere da ambo le parti.

Ma quando si parla di adolescenti, nella vita comune, si perde quasi sempre la reciprocità.

Immagino possa essere una riflessione condivisa tra colleghi, personalmente ho riscontrato che chi ha chiesto aiuto a un terapeuta nel post Covid è arrivato in codice rosso, saturo di uno stato d’ansia pervasivo di cui sentiva la necessità di liberarsene il prima possibile.

Lì ho capito, o forse solo sentito (senza riuscire a dare neanche un nome definito a quella sensazione, urgenza e angoscia) che dovevo procedere un pochino diversamente da come sono solita avviare i miei percorsi di terapia “canonici”.

C’era un impellente e improrogabile bisogno di sfiatare, e così è stato. Fiumi in piena, molto spesso ridondanti e ripetitivi, quasi a voler materializzare ad alta voce tante volte l’accaduto, il loro vissuto, la loro esperienza di totale isolamento, i loro stati d’animo, come se di fondo ci fosse un bisogno di rendere reale ciò che, non solo per loro, per tutti, è stato un avvenimento surreale e incredibile. 

È accaduto davvero…”

Tra gli adolescenti che ho accolto negli ultimi tre anni, molti avevano solo bisogno di uno spazio in cui depositare un peso che hanno sostenuto soli fino a quel momento, sfogarsi, convincersi che non stavano “impazzendo”, era inconsueto il fatto, non loro. Autorizzarli a sentirsi disorientati, rinforzando la convinzione che il loro stato umorale era pertinente e adeguato alla situazione. La maggior parte figli di buone famiglie che hanno desiderato e richiesto spontaneamente uno spazio terapeutico nella maggior parte dei casi, nessun trauma, disagio, conflitto; per questo l’intervento sufficiente si è rivelato un breve periodo di terapia atto esclusivamente a riassestarsi e ridurre l’ansia e la paura, non necessariamente doveva esserci l’obbligo un lavoro terapeutico corposo con questa tipologia di ragazzi scossi in apparenza esclusivamente dall’isolamento per il Covid. Loro decidevano la fine dell’intervento la decidevano, appena si “sentivano meglio”, che significa di nuovo autonomi nell’affrontare la quotidianità senza blocchi emotivi paralizzanti, una volta che si sono sentiti ascoltati, compresi nel loro disorientamento, sollevati e alleggeriti.

Altrettanti adolescenti invece durante il lockdown – che per gli adolescenti in generale è stata vissuta come una minaccia (essendo in totale conflitto con la spinta alla costruzione identitaria che avviene insieme ai pari) – hanno slatentizzato o esasperato dei disagi psichici e conseguentemente comportamentali di una certa rilevanza che hanno condizionato notevolmente la ripresa e il ritorno a una normalità. Con essi si intraprende un lavoro psicoterapeutico più lungo e profondo perché, a differenza degli altri succitati, l’obiettivo non è solo svuotare bensì contenere e ridefinire.

Le riflessioni che si possono sostenere sull’adolescenza nel post Covid sono ancora timide e caute.

È ancora troppo presto per poterle delineare con certezza, ad oggi, a parer mio, e possono essere presentate solo sotto forma di ipotesi.

Uno degli effetti indesiderati psicologici più sollecitati da un fatto come una pandemia è il Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS) che può avere diverse manifestazioni: se la durata dei sintomi è inferiore ai tre mesi è acuto e vi è rapida risoluzione, se la sintomatologia perdura oltre diventa cronico e bisogna tenere conto che la sintomatologia ansiogena può anche manifestarsi dopo molti anni dall’evento scatenante, per questo ad oggi, ci si limita alla mera osservazione prudente. Non si sono ancora visti gli effetti sul lungo tempo essendone trascorso troppo poco.

Per questo l’intento di questo scritto non è quello di fissare dei concetti chiusi, definiti, insindacabili ma, al contrario, iniziare ad appoggiare un pezzetto di pavimento su cui posare e abbozzare dei quesiti per incuriosire e a cui tentar di dare risposta nei prossimi anni.

Il “blocco” bio-psico-sociale vissuto è andato o va in risoluzione spontaneamente o avrà delle conseguenze nell’area personale, affettiva, relazionale nella vita del giovane adulto?

È utile, o avrebbe senso, attuare uno studio longitudinale mettendo a confronto un campione di adolescenti (trattati tempestivamente in terapia e non) attraverso un follow up per verificare se è migliorata o meno la gestione del disagio psichico tra gli uni e gli altri e rilevare, a distanza di tempo, la comparsa o meno di nuove manifestazioni sintomatologiche di malessere e disequilibrio? 

Pongo questi interrogativi per concludere con il principale di essi.

Il bagaglio delle conseguenze psichiche del Covid-19, specifiche alla categoria adolescenziale, può essere definito un nuovo e a sé stante fenomeno psicologico che vale la pena indagare e approfondire?

BIBLIOGRAFIA

Jeammet, P. (1992), Psicopatologia dell’adolescenza. Borla, Roma.

*Valeria Castagnola è psicologa, psicoterapeuta, docente della Scuola di specializzazione in Psicoterapia “Il Ruolo Terapeutico di Genova”