di Ferdinando Schiavo*
L’aumento dell’aspettiva di vita della popolazione italiana sta comportando un incremento del numero di persone anziane, spesso fragili e portatrici di diverse patologie croniche (comorbidità) alle quali consegue l’assunzione di diversi farmaci (politerapia). L’insieme di questi elementi, congiuntamente agli altri determinanti di ordine sociale, familiare, organizzativo sanitario, economico e politico è alla base di un modello di salute ricco di complessità.
Stiamo andando, per la prima volta nella storia dell’umanità, “contro natura” poiché nella natura gli animali più fragili o malati muoiono prima dei sani non riescendo a procurarsi cibo e acqua, mentre noi umani risentiamo positivamente degli interventi sociali e di sanità pubblica costruiti nell’ultimo secolo attraverso il miglioramento del sistema fognario, la potabilizzazione dell’acqua, i vaccini, gli antibiotici e i numerosi e magnifici ulteriori progressi tecnologici diagnostici e terapeutici, anche farmacologici, i quali tuttavia hanno portato ad un inevitabile aumento delle persone fragili e delle malattie croniche.
La fragilità rappresenta l’espressione di un’estrema precarietà degli equilibri dell’organismo, causata dalla compromissione contemporanea di più sistemi anatomo-funzionali. Questo deterioramento è dovuto all’accumulo di danni biologici legati all’età e derivanti da uno stile di vita inadeguato, nonché dalle malattie in atto o subite nel corso della vita.
L’anziano fragile non è in grado di reagire efficacemente agli eventi che disturbano il suo già incerto equilibrio, come ad esempio una temperatura ambientale inusualmente elevata (la lunga estate calda del 2003 in cui molti anziani morirono, soprattutto nelle grandi città europee; qualcosa di simile è accaduto in Italia nell’estate 2024).
Anche il riacutizzarsi di una malattia cronica, l’instaurarsi di una malattia acuta anche se di modesta entità (un banale episodio influenzale, una cistite), un evento traumatico sia di natura fisica che psichica, un procedimento diagnostico invasivo o incongruo, oppure condotto senza la dovuta cautela, un intervento farmacologico inappropriato, possono turbare la sua incerta autonomia. Più elevato è il grado di fragilità, maggiore sarà il rischio che fattori, anche apparentemente banali, inneschino una catena di situazioni “a cascata” con esiti catastrofici.
Il termine anziano fragile si applica a un soggetto più frequentemente di genere femminile (che risente di una più intensa e prolungata fragilità tardiva, non solamente a causa della maggiore sopravvivenza) e di età avanzata o molto avanzata, affetto da multiple patologie croniche, clinicamente instabile e a volte disabile, spesso con problematiche socio-economiche come la solitudine e la povertà.
Si tratta di un essere umano che vive indubbiamente in una situazione precaria, oscillando tra il mantenimento dell’indipendenza e il rischio di gravi eventi patologici e complicanze che purtroppo spesso si rivelano irreversibili. Le sue limitate capacità di recupero, poi, accrescono il rischio di depressione, malnutrizione, perdita di peso, disidratazione e delle conseguenze della frequente immobilizzazione a letto o in poltrona, conseguenze che a loro volta comportano la perdita muscolare (sarcopenia), le cadute, non trascurando infine le reazioni avverse agli interventi diagnostici e chirurgici e, tema di questo articolo, ai farmaci.
A complicare la gestione clinica di questo tipo di paziente concorre il fatto che le patologie di cui soffre si presentano a volte in maniera atipica, hanno un decorso variabile, coinvolgono altri organi e rendono problematico ogni tentativo di formulare una diagnosi precisa e di conseguenza un trattamento idoneo. Prendersi cura di un paziente fragile richiede una solida conoscenza in campo gerontologico, una grande preparazione clinica unita al “buon senso” e un’esperienza profondamente matura, in cui l’aspetto motivazionale deve svolgere un ruolo fondamentale. Significa apprendere ad affrontare i problemi di persone che presentano contemporaneamente o in veloce successione sintomi e bisogni molto diversi, tali da creare serie difficoltà nel ricostruire i rapporti di causa-effetto.
L’anziano fragile è un paziente ancora sottovalutato dalla medicina tradizionale, forse perché fino a pochi anni fa numericamente poco rappresentato, mentre oggi non sembra suscitare interesse o gratificazione professionale poiché viene considerato, a torto, inguaribile.
Ma inguaribile non significa incurabile!
Malgrado in tutte le malattie croniche la guarigione non sia un obiettivo perseguibile, noi professionisti della Salute, in ogni ruolo, abbiamo lo scopo di prospettare e procurare degli small gains, piccoli guadagni, miglioramenti che posseggono anche una loro valenza psicologica per la persona fragile. Evitare la solitudine amara e invitare a fare una passeggiata piuttosto che intristirsi in poltrona davanti a un televisore acceso, cucinare assieme, persino prendersi cura dei piedi della persona anziana (aspetto rilevante nella popolazione anziana!) rappresentano una piccola parte della moltitudine di interventi possibili.
Il lavoro di cura (non dimenticando l’attenzione fondamentale, prioritaria, alla prevenzione!) dovrebbe evolvere da un approccio focalizzato e purtroppo frammentato su singole malattie e competenze ad un modello integrato in cui si richiede una visione olistica, ovvero che tenga conto di tutti gli aspetti della salute compresi quelli familiari e sociali: la persona anziana vive in solitudine, non ha familiari e, se li ha, questi sono in grado di accudirla in maniera appropriata? Ha un MMG responsabile della coordinazione delle varie fragilità e malattie in una visione ampia? Ha risorse economiche? Sono solamente alcune delle infinite domande necessarie per operare attraverso una medicina fatta col cuore e “senza fretta”.
A livello medico la frammentazione delle competenze comporta una diminuzione delle responsabilità: chi gestisce una persona con diverse malattie e relativi farmaci? Emerge spesso una difficoltà ad indicare a chi spetti l’onere di tirare le fila ed avere una visione globale. Non è un aspetto di poco conto.
In conclusione, le malattie croniche sfidano il modello dominante della medicina e dell’attuale assistenza, costruita per le malattie acute, per le mono-malattie delle persone più giovani, in cui le dinamiche di salute sono più chiare basandosi in genere su una causa evidente e su una conseguenza dimostrabile (es. occlusione di un ramo coronarico e infarto del miocardio), curando le quali attendiamo fiduciosi gli effetti positivi, tra cui la completa guarigione.
Nello smantellamento del nostro SSN si assiste sempre più ad una medicina per acuti (adatta a giovani e adulti) in un mondo popolato però da anziani fragili e cronici.
Il medico possiede le sue conoscenze (e, come tutti, alcuni dannosi pregiudizi) che influenzano l’impalcatura delle cure che tenga conto della specificità delle condizioni dell’anziano, con la sua variabilità nel tempo, la quale impone un controllo frequente della malattia e la revisione del trattamento impostato. Chi assiste un anziano con diverse malattie dovrebbe dedicare più tempo a rivalutare periodicamente se i farmaci prescritti siano necessari. Tutti i pazienti che assumono più di 4 farmaci contemporaneamente dovrebbero essere sottoposti a specifica rivalutazione da parte del clinico (MMG, internista o geriatra o neurologo dotato di spirito geriatrico) a causa del rischio di interazioni e di effetti «domino».
Un diamante è per sempre, si dice, ma un farmaco magari no, aggiungo!
Nei corsi di laurea in medicina e nelle scuole di specializzazione, una buona volta, si dovrebbe dedicare più spazio all’insegnamento delle dinamiche farmacologiche nell’anziano, allo scopo di migliorare l’appropriatezza prescrittiva e, quando serve, la de-prescrizione, che mi piace chiamare “coraggiosa”.
Ancora pochi spunti su cui mi soffermo brevemente:
L’anziano rappresenta un valore? No per chi pratica l’ageismo. Il termine ageism è stato coniato nel 1967 da Robert Butler, direttore del National Institute on Aging di Baltimora (USA), per indicare la discriminazione della persona anziana basata unicamente sul fattore età. Assieme al sessismo e al razzismo è uno dei 3 ismi del nostro tempo, da cui tuttavia differisce perché tutti saremo potenzialmente vittime dell’ageismo… se vivremo sufficientemente a lungo! L’ageismo è presente in campo medico e nella società in cui i medici si rispecchiano, è costruito sulla passività ipocrita, superficiale, omissiva e comoda, dettata dal razzismo dell’età… «è solo vecchio», da nichilismo… «non c’è niente da fare», da fatalismo… «rassegniamoci, accettiamo lo stato delle cose, è destino», dalla pigrizia mentale del “si è fatto sempre così”.
Nell’epoca che viviamo questo pregiudizio é duro da combattere, vanifica gli sforzi di chi invece si impegna con scienza, coraggio, rispetto, responsabilità, ascolto, pazienza e umanità, senza indulgere in atteggiamenti di accanimento da una parte e senza omissioni dall’altra quando si prende cura di un anziano fragile.
Fa da contraltare all’invecchiamento in Italia un ulteriore fenomeno, la denatalità: continuano a nascere pochi bambini. Le conseguenze saranno drammatiche già nell’immediato futuro per motivi diversi e immaginabili: economici (chi foraggerà i fondi pensioni?), sanitari e assistenziali.
Infine, appare ovvio che l’invecchiamento avviene in modo diverso per ciascun individuo. In questa ottica è necessario ribadire che la componente genetica di numerose condizioni e malattie ha perso consistenza a favore dello stile di vita e dei fattori sociali e ambientali. In poche parole, una longevità sana e indipendente è responsabilmente in buona parte nelle nostre mani.
L’anziano fragile e la neurologia dei vecchi
L’invecchiamento sta provocando ovvie conseguenze significative sull’incidenza di varie patologie e sull’organizzazione dei sistemi sanitari e socio-economici. Limitandoci al carico delle malattie neurologiche e sensoriali della tarda età (le sottodiagnosticate demenze e il delirium, i parkinsonismi, gli esiti di ictus cerebrale, i problemi di equilibrio e le cadute, il corollario fatto di alterazioni della vista e dell’udito, non dimenticando le limitazioni articolari) si osserva un aumento inesorabile che diventerà uno dei maggiori costi diretti e indiretti per la società.
Nel 2022, la Società Italiana di Neurologia (SIN) ha istituito la Prima Giornata Nazionale della Neurologia il 22 settembre, avviando la campagna «Proteggi il tuo cervello, affidati al neurologo». Secondo un sondaggio condotto tra la gente dalla stessa SIN, solo il 13% degli intervistati conosce tutti i sintomi dell’ictus, il 12% quelli dell’Alzheimer (e cosa sanno delle altre demenze? E del sottovalutato delirium?), il 5% quelli dell’epilessia, mentre la percentuale scende al 2% quando si parla di sclerosi multipla e malattia di Parkinson (e cosa conoscono i cittadini dei parkinsonismi?).
Il Delirium, in sintesi energica, può essere nominato “uno stato confusionale”. Capita spesso negli anziani fragili con demenza in atto oppure ancora “latente” e misconosciuta dai familiari o dai medici curanti (“é l’età, é normale!” dicono i praticanti l’ageismo) ed é scatenato, favorito, da varie cause. A volte ne basta una, altre volte c’é un concorso di vari fattori che si concatenano: ad es. frattura femorale oppure broncopolmonite, anestesia, disidratazione, antibiotici, psicofarmaci (contenzione farmacologica), contenzione meccanica, lo stesso cateterismo vescicale, ecc. Circa il 22% dei ricoverati nel mondo occidentale è in preda a un delirium nel momento in cui state leggendo questo articolo.
Le malattie neurologiche occupano, peraltro, il primo posto tra le condizioni, acute o croniche, responsabili della perdita dell’autonomia, rappresentando la metà di tutte le cause di disabilità. In altre parole, la maggior parte delle persone non è a conoscenza della neurologia e dell’impatto economico, sanitario e assistenziale delle diverse malattie neurologiche.
Lancio due provocazioni. Sicuri di dovere andare dall’oculista se “vedete doppio”? Sono numerosissime e prevalenti le malattie neurologiche che possono creare diplopia.
O che sia un problema delle vene o dell’arterie se un familiare, magari diabetico, avverte una certa invadente debolezza che dai piedi risale verso le ginocchia associandosi a qualche deficit di sensibilità “a calza”? E’ una possibile polineuropatia diabetica, in drastico aumento peraltro, secondo dati OMS.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’OMS, ci ha confermato nel 2024 (GBD 2021 Collaborators, 2024) che persiste una sottovalutazione del ruolo del neurologo, avviene impunemente malgrado le problematiche neurologiche siano responsabili di più di un terzo delle situazioni di invalidità e che 3,4 miliardi di persone in tutto il mondo, il 43%, conviva con una condizione neurologica. Le malattie neurologiche sono, quindi, al primo posto fra le condizioni, acute o croniche, responsabili di perdita dell’autonomia.
La prigione di tanti pregiudizi: il neurologo è un internista, ancora di più un neurologo dei vecchi! Quasi nulla a che vedere con lo psichiatra, allora!
Il neurologo si occupa di AIT, ictus e vasculopatie cerebrali, tra cui anche patologie come le arteriti autoimmuni, di malattie neurodegenerative come demenze, parkinsonismi, SLA, Coree, di delirium, sclerosi multipla, alterazioni dell’equilibrio e vertigini, cefalee, perdite e alterazioni di coscienza ed epilessia, malattie che coinvolgono il midollo spinale (mielopatie: da tumori, processi infiammatori, traumi ecc.), neuropatie e polineuropatie, malattie muscolari (miopatie), la complessa miastenia (una delle cause di diplopia descritta sopra), encefaliti e meningiti, tumori e patologie malformative vascolari endocraniche, patologie malformative della cerniera\giunzione cranio-cervicale, idrocefalo, stati comatosi indotti da patologie internistiche come insufficienza renale o epatica.
Il neurologo deve tener conto anche di diverse condizioni internistiche: anemia, ipo e ipertiroidismo, ipoparatiroidismo, carenze vitaminiche, varie patologie infiammatorie, autoimmunitarie, prioniche (mucca pazza…), paraneoplastiche (un tumore in organi diversi può provocare una sofferenza severa a distanza di parti del sistema nervoso centrale e periferico).
A completare il quadro, molti sintomi o segni che si incontrano in neurologia possono essere indotti da farmaci e a volte, associandosi fra di loro, possono dar luogo a manifestazioni cliniche che mimano certe malattie idiopatiche come quella di Parkinson (parkinsonismo da farmaci) oppure un coinvolgimento cognitivo che fa sospettare una demenza, o favorire lo stesso delirium. Certi farmaci, lo vedremo dopo, possono favorire o indurre strani movimenti del corpo in toto o di alcune parti (distonie), la sconosciuta acatisia (incapacità di stare fermi, zitti, ansia “interna” terribile: il paradosso è dato dal fatto che molto spesso a determinarla sono farmaci ad azione sedativa…), altri possono indurre cefalea, turbe visive, del gusto e dell’odorato, crisi epilettiche e sincopi.
Il viaggio di un farmaco
Alcune semplificate e, mi auguro, comprensibili, nozioni.
Un farmaco, anche a causa dei possibili ovvi effetti negativi che può provocare, prima di essere commercializzato deve subire un’attenta sperimentazione che richiede diversi anni per arrivare sugli scaffali della farmacia. Viene testato inizialmente su animali e, se supera questa prima fase, verificato nell’essere umano, quasi sempre, soprattutto in passato, giovane e di genere maschile. La scelta avviene perché la donna ha una ciclicità mestruale che può turbare l’esperimento, può andare incontro a gravidanza durante la sperimentazione e partorire un essere malformato (teratogenesi, dal greco teratos = mostro). In questo caso l’industria del farmaco può avere conseguenze legali che prevedono risarcimenti. Le donne giovani sono, in conseguenza, restie a partecipare ma, parimenti, le case farmaceutiche sono (erano) contrarie ad arruolarle!
I maschi “costano meno”, sono meno problematici, fisiologicamente più stabili e disponibili.
Valutati, quindi, rischi e benefici di una molecola, questa viene immessa nel mercato con delle avvertenze utili, continuando ad essere comunque monitorata per anni in modo da poter individuare eventuali effetti avversi precedentemente non emersi nella sperimentazione o una incompatibilità con altri farmaci (o alimenti).
Un farmaco “nuovo”, infatti, può incontrarne un altro che magari la stessa persona sta assumendo da decenni, e creare degli eventi avversi (EA) non evidenziati in precedenza nella sperimentazione singola, e questo a maggior ragione può accadere nella popolazione anziana, in quanto, statistiche alla mano, assume diversi farmaci.
Allo scopo di proteggere la persona anziana, la Società Americana di Geriatria periodicamente aggiorna dei criteri, i Beers Criteria, dal nome del geriatra Mark Howard Beers deceduto prematuramente nel 2009 a 55 anni per complicazioni di un diabete giovanile, un collega molto attento all’aspetto farmacologico nella popolazione anziana. Un esempio: i criteri possono avvertirci che il farmaco nuovo A, assunto anche a distanza di ore da un altro B, provoca insufficienza renale, magari non prevista. Un ulteriore motivo per confermare il ruolo “internistico” del neurologo e la necessità di un adeguato controllo delle persone che assumono più farmaci da parte di tutti i medici.
Il viaggio del farmaco non è terminato. Alcuni alimenti o bevande possono interferire con il suo assorbimento e metabolismo. L’interazione cibo-farmaco avviene principalmente a livello gastrointestinale e questo vale ovviamente per i farmaci assunti per bocca, peraltro la maggioranza. Cito qui solamente il succo di pompelmo: può creare EA tragici se associato ad alcuni farmaci come, ad esempio, le statine (i farmaci usati per ridurre il colesterolo).
Tali attenzioni supplementari ci confermano ancora una volta che la medicina deve essere attenta e non andar di fretta: con la fretta si corre il rischio di omettere, tra l’altro, informazioni estremamente fondamentali per la salute: “non beva succo di pompelmo se assume quel farmaco”.
Le attenzioni dovute ai farmaci però non sono finite!
La farmacodinamica riguarda in buona parte i meccanismi attraverso cui un farmaco agisce, una volta superata questa prima fase, su un recettore cellulare, come agonista, inducendo un potenziamento dell’effetto fisiologico, o antagonista, bloccandone l’attività.
In questo articolo mi soffermerò su due categorie di “mine invisibili”: i farmaci “contro” il neurotrasmettitore dopamina e quelli “contro” un altro neurotrasmettitore, l’acetil-colina, ambedue molecole indispensabili e al servizio di tutto il corpo ma con una certa predilezione per il nostro cervello: in estrema semplificazione, la dopamina impegnata a rendere fluido ed elegante il nostro movimento, l’acetil-colina fondamentale per i meccanismi dell’attenzione, della memoria e di altre abilità cognitive.
Prima di ampliare l’argomento delle “malattie da farmaci”, ovviamente sempre in maniera sintetica e, mi auguro, comprensibile a tutti, devo rimarcare un aspetto: a creare EA può essere la politerapia, i tanti farmaci assunti ogni giorno, a volte può essere sufficiente un solo farmaco assunto in maniera non appropriata.
“Mine invisibili contro” il neurotrasmettitore dopamina
I farmaci incriminabili nei parkinsonismi (e altre manifestazioni denominate extrapiramidali) appartengono a varie classi e si somministrano per diverse malattie o sintomi: si tratta in preponderanza di psicofarmaci per psicosi e turbe comportamentali (antipsicotici o neurolettici) o antidepressivi per la depressione, altri servono a curare vomito e dispepsia, vertigini, emicrania e cefalea a grappolo, aritmie cardiache, epilessia, ipertensione arteriosa.
Essi agiscono “negativamente”, bloccando i recettori cerebrali della DOPAMINA che si trovano al “centro” del cervello.
Da più di 50 anni conosciamo gli EA a carico del sistema extra piramidale (quello che ci fa muovere con scioltezza, equilibrio, persino eleganza), causati dai “vecchi” antipsicotici tradizionali (AT) adoperati in ambito psichiatrico. I nomi sono noti a tutti i medici: Serenase e Haldol (il famigerato aloperidolo), Entumin, Clopixol, Trilafon, Moditen, Largactil, Talofen ed altre molecole ancora.
L’uso più o meno prolungato degli AT è segnato da importanti effetti avversi, anche in relazione ad età biologica, genere (le donne sono più soggette) e predisposizione:
Parkinsonismo, con o senza tremori, ovvero una strana lentezza e rigidità nel cammino e nei movimenti volontari e automatici, che si manifesta come riduzione o persino scomparsa delle fisiologiche oscillazioni delle braccia quando si cammina, accompagnandosi a perdita dell’espressività facciale, ad una certa monotonia della voce che può smarrire il suo vigore, a un incurvamento in avanti del busto e del capo.
Discinesie e distonie acute più spesso cervicali o nei distretti facciali, lingua e bocca comprese, sindrome della Torre di Pisa per distonia asimmetrica della colonna vertebrale. Nelle persone anziane la terribile discinesia tardiva é spesso persistente.
Acatisia: è una sindrome neurologica estremamente stressante caratterizzata da severa agitazione, incapacità a rimanere fermi, a volte di stare zitti, assaliti da ansia continua. Si tratta di una manifestazione estremamente ingannevole e non molto conosciuta dalla classe medica (consiglio la lettura della Storia Clinica di Acatisia descritta su). Esistono due tipi di acatisia, a volte associati, uno ben visibile caratterizzato dall’incapacità a restare fermi, l’altro, ancora più importante perché sottodiagnosticato, si mostra come uno straordinario senso di terrore che la persona stessa sente «dentro». In ogni caso, l’acatisia non riconosciuta rischia di essere “curata” attraverso l’aumento degli stessi farmaci che l’hanno provocata! Infine, chi è affetto da acatisia può andare incontro a suicidio.
Sindrome maligna da antipsicotici, rara, e così pure quella da sospensione acuta.
Alcuni di questi farmaci (ma anche di altre categorie: consultare il sito dell’AIFA, Agenzia Italiana del farmaco) possono creare pericolose alterazioni cardiache attraverso l’allungamento del QT cardiaco (rappresenta il mio terzo tipo di “mina invisibile” su cui non mi soffermerò in questo articolo), e pure modifiche metaboliche.
Abbastanza lacunosa risulta, tuttavia, ancora nel 2025, la conoscenza degli effetti avversi extrapiramidali determinati da quelli che chiamo “farmaci trappola”; in alcuni casi si tratta di antipsicotici tradizionali “mascherati”, da soli oppure associati ad altra molecola (ad esempio ad un antidepressivo) in prodotti commerciali dai nomi spesso accattivanti o fuorvianti (Mutabon ansiolitico o mite o antidepressivo, Dominans, Deanxit fanno pensare ad antidepressivi e ad ansiolitici!).
Ecco l’elenco degli ANTIPSICOTICI TRADIZIONALI “MASCHERATI”
• Ansia e depressione: Dobren, Levopraid, Deniban, Solian, Sereprile, oppure all’interno di associazioni di farmaci come Mutabon mite, ansiolitico e antidepressivo, Deanxit, Dominans
• Vomito: Stemetil
• Vomito, nausea, svariati disturbi digestivi: metoclopramide (Plasil, Randum, Geffer), clebopride (Motilex). Vesalium (non più in commercio)
• Cefalea: Difmetré. Alius (non più in commercio)
• Disturbi da menopausa: Agradil (non più in commercio)
• Vertigini: Torecan
• Allergie: Fargan, Farganesse, Nuleron
Si tratta di molecole di cui non è sempre conosciuto, da parte del cittadino e forse anche di una parte della classe medica, l’appartenenza alla categoria degli AT.
Sento il dovere di soffermarmi in particolare su una molecola, la metoclopramide ovvero Plasil, Randum e Geffer per un motivo etico. Lo spot su GEFFER si vede tuttora nelle televisioni nazionali ed è presente, col suo carico di pericolosità, almeno dal 2023 (. In caso di “non apertura” del file, basta cercarlo sul web: Pubblicità TV del Geffer).
Il video ci propina, intanto, un messaggio di rischiosa faciloneria: “Mangia ciò che vuoi, tanto, dice il giovane dirimpettaio della ragazza, c’é GEFFER che ti risolverà il problema! Cosa vuoi che ti faccia una bustina?”.
Come molti farmaci – e noi clinici accettiamo questo compromesso – può accadere che la molecola abbia degli effetti avversi. Sintetizzo, a costo di ripetermi, quelli relativi al GEFFER:
Nel soggetto giovane la metoclopramide può provocare le discinesie descritte prima. Realmente preoccupanti, malgrado la loro benignità: ma è meglio che ci sia a portata di mano un competente che sdrammatizzi dopo avere appurato il nesso di causalità farmaco-evento avverso! Può succedere, seppur raramente, persino con una o poche dosi. Un caso è descritto in MALATI PER FORZA, il mio libro edito da Maggioli nel 2014, purtroppo – vale per tutti il “purtroppo” – ancora attualissimo (Schiavo, 2014).
Nel soggetto anziano più saltuariamente si possono osservare le reazioni motorie appena descritte, mentre dopo pochi giorni o settimane, pochi mesi al massimo di trattamento continuativo, potrebbe comparire un parkinsonismo. Diverse vicende umane sono descritte sul mio libro e sul mio sito. Per questo farmaco esiste una nota AIFA 2014 (!), riportata in tempo anche su MALATI PER FORZA, che avverte di non superare i 5 giorni di somministrazione nel soggetto anziano.
Le mie segnalazioni in varie sedi, tra cui l’Ordine dei medici a cui sono iscritto, non hanno ricevuto finora risposta.
Il cittadino (e i miei colleghi o i farmacisti?), guardando il video pubblicitario, può pensare che le bustine di Geffer siano simili ad alcuni antiacidi in commercio, in fondo innocui sotto questo profilo, come il Maalox e il Gaviscon. Assolutamente no: il Geffer è un derivato della famiglia degli antipsicotici!
Attenzione! Anche gli usatissimi Antipsicotici Atipici di nuova generazione (quetiapina-Seroquel, olanzapina-Zyprexa, risperidone-Risperdal, aripiprazolo-Abilify ed altri) possono provocare EPS seppure in maniera ridotta rispetto agli AT! (Ane Nørgaard et al.,2022).
Segnalo altri gruppi di farmaci che, con meccanismi diversi dai precedenti e in buona parte poco conosciuti, possono provocare soprattutto Parkinsonismo, con o senza tremori.
ALTRI FARMACI e EA
• Vertigini: Flunarizina (Flugeral, Fluxarten, Flunagen, Gradient, Issium, Sibelium) e Cinnarizina (Stugeron, Cynazin, Toliman, Arlevertan)
• Aritmie cardiache: Amiodarone (Cordarone, Amiodar), Mexiletina (Mexitil)
• Epilessia: Ac. Valproico (Depakin, Depamag)
• Ipertensione arteriosa: Aldomet, Reserpina (poco usati da anni)
• Depressione: alcuni serotoninergici (SSRI: Prozac-Fluoxetina, Fluvoxamina-Maveral, Paroxetina-Sereupin e altri nomi commerciali …)
• Disordine bipolare e Cefalea a grappolo: Litio.
Questi sono gli elementi indicativi per la diagnosi di parkinsonismo da farmaci:
• rapporto temporale tra assunzione di un farmaco sospettabile e la comparsa dei sintomi
• miglioramento progressivo fino alla scomparsa dei sintomi, se non è stato assunto per anni, dopo la sospensione del farmaco
• ricomparsa dei sintomi alla ri-somministrazione del farmaco (di molto dubbia eticità…)
• bilateralità frequente dei sintomi e segni
• minore frequenza del tremore e caratteristiche differenti rispetto al tremore tipico della malattia di Parkinson (MP), quando è presente
• coesistenza di altre manifestazioni extrapiramidali (distonia, acatisia, ecc.).
Restano da fare altre considerazioni nel rapporto intricato fra farmaco incriminabile e sviluppo di parkinsonismo:
• la comparsa di parkinsonismo dipende da diverse variabili – lo ripeto – quali il tipo di farmaco, la durata dell’assunzione, la presenza di altri farmaci, l’età, il genere (prevale nelle donne) e la predisposizione individuale. Può manifestarsi dopo poche settimane o mesi.
• nella maggioranza dei casi il soggetto, dopo settimane o pochi mesi dalla sospensione del farmaco incriminato, torna alla normalità.
In una minore percentuale il farmaco può rivelare la presenza di una malattia di Parkinson o di un parkinsonismo latente, per cui si può assistere ad una regressione parziale o totale della sintomatologia parkinsoniana e, nel tempo, alla sua prevedibile ricomparsa. Il farmaco, in questi casi, non ha fatto altro che “anticipare” l’inizio clinico della sintomatologia parkinsoniana in un soggetto predisposto, che “covava” la malattia ma ancora senza l’emersione dei sintomi.
• appare ovvia l’affermazione che questi farmaci possono aggravare il quadro clinico preesistente di malattia di Parkinson, o di parkinsonismo di varia natura
“Mine invisibili contro” il neurotrasmettitore acetil-colina
I farmaci ad azione anticolinergica (AC) bloccano un importante messaggero chimico che agisce su diverse funzioni del corpo ed in particolare nel cervello, l’acetilcolina. Si tratta di sostanze note, la cui azione a livello del sistema nervoso è molto spesso insospettabile; sono alcune centinaia, con una debole, intermedia o potente azione rivolta a contrastare, nel bene e nel male, un indispensabile neurotrasmettitore.
Provocano secchezza delle fauci (toccare la lingua delle persone anziane! Può trattarsi di un effetto di queste molecole ma anche di una dannosa e sottovalutata disidratazione! “Ma beve!”), stitichezza, visione offuscata, difficoltà nella minzione, sonnolenza, alterazioni dell’equilibrio.
Nel cervello l’acetilcolina ha un ruolo chiave anche nell’attenzione, nella concentrazione e nella formazione/consolidamento della memoria, nonché sul comportamento. Tali farmaci, quindi, sono in grado di “favorire” lo sviluppo di problemi cognitivi (memoria e tanto altro) fino a quadri di demenza oppure essere in parte o in modo assoluto la causa di delirium, dipendendo come sempre dalla dose, dalla durata del trattamento, dalle condizioni generali, neurologiche in particolare.
Un utile seppur parziale elenco:
Farmaci usati in passato in abbinamento alla terapia antipsicotica per tentare di evitarne gli effetti antidopaminergici (sì, è così): Akineton, Artane, Tremaril, Kemadrin, Sormodren, Disipal. In passato adoperati per la cura della malattia di Parkinson ma da evitare in maniera assoluta se sono presenti alterazioni comportamentali e cognitive che facciano sospettare una demenza.
Antispastici viscerali: Valpinax, Buscopan, Alginor, Rilaten, Debrum, Debridat, Digerent, Lexil, Duspatal, Spasmomen, Antispasmina colica…
Farmaci attivi a livello urinario: ossibutinina (Ditropan, ecc.); tamsulosina (Pradif, Onmic e vari altri nomi commerciali).
Farmaci attivi a livello bronchiale: ipratropio, tiotropio, glicopirronio, umeclidinio, aclidinio (numerosi nomi commerciali).
Antidepressivi triciclici: Laroxyl, Anafranil, ecc.
Antidepressivi “serotoninergici” (SSRI): paroxetina (Sereupin, ecc.) in particolare.
Antipsicotici atipici: Clozapina, Quetiapina, Olanzapina, altri.
Antiepilettici: Tegretol, altri.
Cortisonici: prednisolone.
Farmaci per cardiopatie, ipertensione: digossina, nifedipina, furosemide (Lasix), atenololo, isosorbide, warfarin (Coumadin, noto anticoagulante orale).
Oppiacei morfino-simili: codeina
Anti ulcera gastroduodenale: (meno usati dopo l’arrivo degli IPP) cimetidina, ranitidina
Broncodilatatori: teofillina
Allergie: antistaminici vari, soprattutto quelli di prima generazione.
Nello scenario già descritto di sottovalutazione delle malattie neurologiche va rimarcata la incompleta segnalazione sul “bugiardino” degli effetti sul sistema nervoso di svariati farmaci anticolinergici. Ad esempio, in quello della difenidramina (Benadryl e Allergan) viene riportato quanto segue: “Per i suoi effetti anticolinergici il prodotto non deve essere utilizzato in caso di glaucoma, nell’ipertrofia prostatica, nell’ostruzione del collo vescicale, nelle stenosi piloriche e duodenali o di altri tratti dell’apparato gastroenterico ed urogenitale”.
Nulla che riguardi il sistema nervoso.
Il carico anticolinergico: una esposizione cumulativa e protratta a questi farmaci (De Vreese, 2019), oltre a peggiorare la qualità della vita della persona anziana, va ad aumentare il rischio di mortalità come ha confermato un serio studio del 2011 (Fox et al., 2011), il primo che ha evidenziato tale associazione significativa, confermata da altri lavori scientifici successivi.
Dal 2012, gli anticolinergici sono stati esposti nella lista dei farmaci che l’American Geriatrics Society Beers Criteria ha indicato come potenzialmente inappropriati per gli anziani (Gray et al., 2015).
Il carico anticolinergico è peraltro un fattore di rischio responsabile di demenza (Richardson et al., 2018).
Tra i tanti, infine, desidero citare una ricerca che ha coinvolto 688 adulti, divisi equamente per sesso, con un’età media di 74 anni. Nessuno dei partecipanti mostrava problemi cognitivi o di memoria all’inizio dello studio. Ognuno ha riferito se stava assumendo farmaci anticolinergici: un terzo dei partecipanti assumeva tali farmaci, con una media di 4,7 anticolinergici per persona. I partecipanti sono stati sottoposti a test cognitivi annuali per un massimo di 10 anni.
Lo studio ha rilevato che 98 pazienti che hanno sviluppato MCI (Mild Cognitive Imparment, “lieve coinvolgimento cognitivo”, molte volte – ma non sempre – il primo gradino che porterà ad una franca demenza) sono migliorati per tornare ad essere cognitivamente normali con la sospensione del farmaco o dei farmaci anticolinergici (Weigand et al., 2020).
Per chi mi scrive mail che esordiscono con “lei che è contro i farmaci…” rispondo con un copia-incolla già predisposto in cui affermo categoricamente che i farmaci non vanno assolutamente demonizzati ma adoperati in maniera corretta e responsabile.
BIBLIOGRAFIA
De Vreese Luc P. (2019), Gli effetti anticolinergici nella persona anziana: strumenti di misurazione del carico anticolinergico. Psicogeriatria 2: 50-66.
Fox C. et al. (2011). Anticholinergic medication use and cognitive impairment in the older population: The Medical Research Council Cognitive Function and Ageing Study. J Am Geriatr Soc. 59: 1477-1483
GBD 2021 (2024), Nervous System Disorders Collaborators Global, regional, and national burden of disorders affecting the nervous system, 1990–2021: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2021. The Lancet Neurol. Volume 23.
Gray Shelly L. et al. (2015), Cumulative Use of Strong Anticholinergics and Incident Dementia. JAMA Internal Medicine; 175 (Nørgaard et al., 2022): 401
Nørgaard A. et al. (2022), Effect of antipsychotics on mortality risk in patients with dementia with and without comorbidities. JAGS 14 https://doi.org/10.1111/jgs.17623
Richardson K et al, (2018). Anticholinergic drugs and risk of dementia: case-control study. BMJ, Apr
Schiavo F. (2014), Malati per forza. Gli anziani fragili, il medico e gli eventi avversi neurologici da farmaci. Maggioli Ed.
Weigand Alexandra J. et al. for the Alzheimer’s Disease Neuroimaging Initiative(2020), Association of anticholinergic medication and AD biomarkers with incidence of MCI among cognitively normal older adults.
*Ferdinando Schiavo è Neurologo