La sindrome della demenza. Che fare? Un’esperienza genovese

di Guido Rodriguez *

Il disturbo neuro-cognitivo si presenta con un insieme di sintomi che costituiscono la sindrome della demenza. In primo luogo, come molti sanno, ci sono i disturbi mnesici che sono forse l’aspetto più noto: si dimenticano i nomi delle persone conosciute, quelli degli oggetti di uso comune, i fatti più recenti (esempio lo spettacolo che si è visto in televisione) o anche gli appuntamenti che si sono presi. Al contrario, si possono conservare i ricordi più lontani nel tempo.

Alla perdita di memoria si accompagna un’alterazione del ragionamento e della capacità di giudizio: compaiono difficoltà nel prendere decisioni logiche, nel fare progetti, nel gestire il denaro o nel seguire con regolarità le terapie farmacologiche.

Si manifesta spesso un disturbo del linguaggio, che diventa vago, pieno di espressioni come “coso” o “quello lì” e neologismi, perché si perdono le parole appropriate. Così anche le frasi possono risultare disorganizzate e incoerenti.

L’attenzione e la concentrazione si indeboliscono, per cui il malato si distrae facilmente e fa fatica a seguire una conversazione o a portare a termine compiti anche semplici.

A volte si nota un disorientamento temporale, per cui si perde la nozione della data, dell’ora o della stagione. Questa sintomatologia può accompagnarsi al disorientamento spaziale per cui non si riconoscono più i luoghi, anche se sono familiari.

Anche le funzioni esecutive possono essere compromesse, ovvero eseguire sequenze complesse come vestirsi, aver cura della propria persona e dell’igiene, si diventa incapaci di preparare il cibo o fare la spesa. A volte può essere presente una marcata perdita dell’iniziativa, apatia o comportamento disorganizzato. Compaiono così azioni bizzarre o senza scopo apparente, come spogliarsi in pubblico o parlare da soli in modo frammentario. Si notano risposte inadeguate agli stimoli, tipo ridere durante un racconto drammatico e infine atti motori disorganizzati, come camminare avanti e indietro senza motivo.

In molti casi, anche se non sempre, compaiono disturbi comportamentali: aggressività, agitazione, ansia, depressione, ritiro sociale e persino allucinazioni e deliri.

A causare questo insieme di sintomi possono essere diverse malattie. Le principali sono: la malattia di Alzheimer (responsabile di circa la metà dei casi), la malattia di Pick, la demenza fronto-temporale, la demenza tipo vascolare, e quella mista.

Dato questo lungo elenco di patologie appare chiara la difficoltà nel trovare farmaci in grado di bloccarle. Di recente l’Europa ha approvato l’uso del lecanemab, un anticorpo monoclonale che agisce sui depositi cerebrali di beta-amiloide. Questo, come altri farmaci simili, è molto costoso, richiede complessi esami funzionali e strutturali e presenta effetti collaterali significativi. Il dato meno positivo è che il farmaco – nel migliore dei casi – sembra solo rallentare, per un certo periodo di tempo, il decadimento cognitivo.

Ci si deve quindi attrezzare per una battaglia ancora di lungo periodo che sia in grado di dare risposte in settori differenti ma strettamente connessi: il contrasto allo stigma sociale, la prevenzione quando possibile e l’aiuto concreto alle famiglie e a chi soffre del disturbo neuro cognitivo.

È su queste linee di pensiero che circa 14 anni fa, insieme a Luca Borzani, allora presidente della Fondazione Culturale “Palazzo Ducale” decidemmo di provare a far nascere un’associazione che, dopo lunghe discussioni, venne chiamata CreamCafe, Creative Mind Cafè, o il Caffè della Mente Creativa. Finalmente, oltre alle tante parole ci furono i fatti: Luca trovò gli spazi nella centrale Piazza Matteotti a Genova, e da allora, il nostro Creamcafe è ai numeri 72-74 rosso.

In queste stanze si alternano, dal lunedì al sabato mattina, circa quaranta volontari. Alcuni si occupano del problema dell’accoglienza, spiegano a chi si avvicina a noi per la prima volta le motivazioni che sono all’origine della nostra attività e come questa si svolga. Altri sono i conduttori dei molti laboratori cognitivi che concretizzano l’obiettivo di tenere attiva la mente.

Per meglio comprendere il senso generale della nostra proposta è necessario partire dalla scelta del nome. Il Cream, come lo chiamano gli habitué, è una sfida. Tredici anni fa decidemmo di non chiamarci Caffè Alzheimer Ducale, una delle prime proposte, nome assimilabile a quello di tante iniziative che si stavano diffondendo nel nostro paese, a volte sostenute da importanti finanziamenti. La motivazione che portò al rifiuto di quella proposta, era stata quella di non voler caratterizzarci con un nome che si rivolgeva ad un piccolo, seppure importante gruppo, di “malati”, di persone considerate perse, a volte da isolare anche se per la loro protezione. Ci pareva che mettere Alzheimer nel nome della nostra iniziativa avrebbe negato quello che era il nostro primo obiettivo: la lotta allo stigma, alla ghettizzazione!

Il Creamcafe doveva e poteva rivolgersi a tutti i cittadini. Questa decisione contrastava, almeno in parte, la motivazione con cui lo psico-geriatra Bere Miesen, aveva fatto nascere nel 1997, all’interno dell’Università di Leida, in Olanda, il primo caffè Alzheimer. La struttura offriva un momento di riflessione e di chiarificazione sui vari aspetti della malattia, e l’intervento, gestito da esperti, si svolgeva in concomitanza alla diagnosi, in modo che le persone potessero affrontare il lungo percorso della malattia munite di conoscenze adeguate. Questo approccio che è molto significativo nel contesto sanitario, presenta limiti se promosso in un tessuto cittadino.

Qui, un luogo che abbia la parola “Alzheimer” nella propria insegna consolida la propensione a separare persone malate e chi le assiste da tutti gli altri, quelli che si ritengono “normali”. Il nome sancisce una separazione, anche se non voluta, tra chi si accompagna al disturbo cognitivo e il mondo “altro”.

Come già detto il primo obiettivo della nostra associazione è la battaglia allo stigma della demenza, obiettivo purtroppo difficile da essere realizzato a pieno. Lo stigma infatti è il frutto avvelenato di false credenze e, come dimostra anche Il World Alzheimer Report (www.alzint.org/reports-resources/) quando confronta i dati del 2024 con quelli del 2019, le cose nel tempo non sembrano migliorare, ma addirittura peggiorare.

Lo studio ha analizzato lo stigma e la sua diffusione in ogni ambito dei rapporti tra il malato e “gli altri”, siano i medici, le persone della propria famiglia, o quelle con cui sono gestiti i legami più intimi.

L’indagine fatta su oltre 40.000 persone di 166 Paesi, rileva che l’80% del pubblico (nel 2019 era il 66%) considera erroneamente la demenza una parte normale dell’invecchiamento. Purtroppo addirittura il 65% degli operatori sanitari commette questo errore, ritardando così la diagnosi e i possibili interventi.

Dallo studio si apprende che l’88% delle persone con demenza afferma di aver subito discriminazione (nel 2019 era l’83%). Molti evitano relazioni sociali: il 31% non frequenta ambienti comunitari e il 36% smette di lavorare per timore di stigmatizzazione. Anche i caregiver rimangono isolati: quasi la metà rifiuta inviti o non ne fa più.

Le conseguenze sono drammatiche: isolamento sociale, depressione, peggioramento cognitivo e declino fisico.

Il rapporto distingue quattro principali forme di stigma:

pubblico: stereotipi e pregiudizi diffusi (ad esempio percepire chi ha demenza come pericoloso o imprevedibile; falsi miti sull’incapacità di fare);

personale: il malato prova vergogna e tende a isolarsi, spesso nasconde la diagnosi per timore di un giudizio negativo;

strutturale: barriere istituzionali, politiche inadatte, mancanza di piani nazionali che facilitino l’accesso a cure e servizi dignitosi;

sociale: i caregiver sperimentano isolamento sociale e senso di colpa, si sentono marchiati perché seguono una persona con demenza.

Il rapporto infine consiglia di promuovere piani nazionali sulla demenza che includano esplicitamente misure anti-stigma. Servono formazione sanitaria, date le false opinioni di molti sanitari, supporto ai caregiver e accesso equo a servizi sanitari. Inoltre si consigliano campagne pubbliche mirate non solo all’informazione, ma alla diffusione di comportamenti: favorire atteggiamenti inclusivi e rispettosi, e, cosa molto importante, coinvolgere persone con demenza e caregiver nei processi di decisione e propaganda per contrastare lo stigma.

La lotta allo stigma implica anche una maggiore attenzione all’uso di quei termini come “demenza senile” che da anni l’inglese NICE (National Institute for Health and Care Excellence) consiglia di abbandonare. Eppure, in ambito assistenziale si usano queste parole: “non si preoccupi, è solo un po’ di demenza senile”. Per ignoranza, disinteresse, fretta, scarsa attenzione delle conseguenze del proprio comportamento comunicativo?

Queste considerazioni hanno accompagnato la nascita della nostra associazione, anche se eravamo consci che, per quanto potessimo impegnarci, non avremmo da soli potuto soddisfare un bisogno così diffuso e, per altro, in crescita. In Liguria si stimano tra 30.000 e 40.000 persone malate. A Genova, su quasi 564.000 abitanti, gli over 65 rappresentano il 30%. Considerando la stretta relazione tra l’allungamento dell’aspettativa di vita e una possibile comparsa dei sintomi del disturbo cognitivo, risulta evidente la difficoltà del compito. E se tra le cause del fenomeno includiamo anche l’isolamento sociale, la situazione diventa allarmante: in città, quasi la metà degli over 65 vive da sola.

Il secondo obiettivo era quello della prevenzione, certo non delle malattie cerebrali degenerative primarie di cui ancora troppo poco sappiamo, ma della sindrome della demenza.

Quando costituimmo l’associazione credevamo che si potesse offrire a tutti un luogo dove condividere esperienze motorie e cognitive capaci, almeno, di rallentare la comparsa dei sintomi del processo degenerativo.

Poi nel 2020 è stato reso noto al grande pubblico un rapporto scientifico commissionato dalla rivista “The Lancet”. Gli esperti comunicano di aver individuato 12 fattori di rischio modificabili che, se affrontati nel corso della vita, potrebbero prevenire o ritardare fino al 40% dei casi di demenza.

I fattori suddivisi per fascia d’età, sono: 

Nell’infanzia (fino a 20 anni)

Il mantenimento dell’istruzione fino almeno alla scuola secondaria permette di costituire una importante riserva cognitiva.

Nell’ età adulta (45-65 anni):

Il controllo pressorio.

Combattere l’obesità.

Combattere la perdita dell’udito, uno dei fattori più rilevanti e troppo sottovalutati.

Il trauma cranico ripetuto, come quello causato da sport violenti.

Il consumo eccessivo di alcol (non più di 21 unità a settimana).

L’esposizione all’inquinamento atmosferico.

Nella terza età (oltre i 65 anni):

Il fumo raddoppia il rischio.

La depressione che non è solo un sintomo precoce, ma anche un fattore autonomo.

L’inattività fisica, che incide negativamente sul sistema cardiovascolare e cervello.

L’isolamento sociale e la solitudine.

Infine il diabete, soprattutto se non ben controllato.

La commissione fa quindi queste raccomandazioni:

Promuovere istruzione e alfabetizzazione precoce.

Migliorare l’accesso agli apparecchi acustici.

Attuare politiche per ridurre l’inquinamento ambientale.

Sostenere interventi pubblici e individuali per:

          •        la salute cardiovascolare,

          •        la salute mentale,

          •        stili di vita sani (alimentazione, movimento),

          •        la connessione sociale.

Il CreamCafe ha da sempre con i suoi laboratori cercato di dare risposte concrete a queste raccomandazioni.

Infatti le attività si esplicano in vari ambiti cognitivi (musica, lingue straniere, espressione artistica e scrittura creativa, teatro, mindfulness, fotografia) e in pratiche motorie (psicomotricità, Tai chi, Qi gong, ginnastica dolce cinese, metodo Feldenkrais, danza creativa). I laboratori si svolgono dal lunedì al sabato, mattina e pomeriggio, con orari e attività che vengono comunicati settimanalmente ai quasi 800 soci. Per le persone malate, sono attivi due laboratori di rinforzo cognitivo: il lunedì mattina e il giovedì pomeriggio. Il venerdì mattina è aperto uno sportello Alzheimer, dove è possibile ricevere tutte le informazioni utili per affrontare il difficile percorso dell’assistenza. Per offrire un aiuto concreto a chi assiste un malato, è stato redatto, con il patrocinio del Comune di Genova, un opuscolo con le istruzioni fondamentali.

Tutte le attività, nessuna esclusa, sono gratuite.

Infine, il giovedì pomeriggio, si svolge un gruppo di supporto ai familiari, che seduti in cerchio possono liberamente raccontarsi e confrontarsi tra loro:

“Non sapevo che fare. Mi sentivo perso. Abbandonato. Poi, per caso, sono arrivato qui. Ho parlato e, mentre parlavo, capivo. Capivo me stesso e capivo quello che nessuno mi aveva mai detto. Capivo, lentamente, perché anche quel “semplice” capire mi chiedeva tantissima sofferenza, e perché dovevo liberare la mia mente da me ed entrare nell’altro. E non è facile. Assolutamente difficile. Ho ricostruito il mio pensare con voi e grazie a voi. Senza di voi mi sarei perso.”

Questa è la risposta che il Cream cerca di dare a chi, spesso chiuso nel dolore e nella vergogna, non riesce a trovare alcuna soluzione. La condivisione del processo di cura, le sue difficoltà, i timori di sbagliare e di non aver capito che fare, la necessità di un confronto costante sono le molle permettono alle persone di aprirsi e di provare ad adattarsi, per quanto possibile, a quanto accade.

Crediamo però che un’associazione in un tessuto cittadino come quello genovese sia solo un inizio. Dovrebbero essere le istituzioni a creare le condizioni affinché si consolidino e si diffondano realtà come il CreamCafe.

Infine va ribadito che tutto questo non sarebbe possibile senza il contributo degli oltre quaranta volontari, che mettono a disposizione il proprio tempo e competenze a titolo gratuito. È una grande forza, un grande patrimonio morale, l’unico e vero motore che ha permesso di vincere la scommessa di far vivere il Cafè della Mente Creativa.

Quasi tutti i volontari hanno un alto livello di istruzione e provengono dal mondo della scuola, dell’università o della ricerca. Tutti hanno compreso quanto l’impegno nel Cream rappresenti anche una crescita personale. Il contatto quotidiano con la sofferenza, ma anche con la gioia della relazione, ha cambiato tutti, nessuno escluso, facendo capire quanto sia importante combattere lo stigma e i falsi pregiudizi legati al disturbo neuro-cognitivo.


* Guido Rodriguez è medico, dal 2011 in pensione con il titolo di Professore Straordinario di Scienze Tecniche Mediche Applicate. Ha diretto per molti anni il servizio di Neurofisiologia Clinica dell’Università di Genova. Ha svolto attività di volontariato per le persone con disturbo neurocognitivo.

Per contatti:

creamcaffe2013@gmail.com

Per informazioni:

www.creamcafe.it