di Giuseppina Masini e Manuela Venturelli *
In questa breve riflessione abbiamo scelto di intrecciare due prospettive complementari, nate da un’esperienza comune di tirocinio in due differenti RSA, la struttura “Santissima Concezione” e la residenza “Domiziana”, appartenenti entrambe al gruppo Gheron.
I nostri percorsi ci hanno offerto la possibilità di condurre piccoli gruppi di supporto ai familiari e di lavorare anche – in modo separato – con alcuni residenti e altri familiari attraverso colloqui clinici individuali.
Il lavoro di gruppo, ispirato dai gruppi di auto mutuo aiuto di origine americana, è nato dall’idea che il confronto tra pari con vissuti simili possa ridurre e contenere i sentimenti di dolore e sconforto che si sperimentano entrando in residenze assistenziali durante la cura di un proprio caro. Nell’accogliere la proposta si è pensato di modificare l’assetto del gruppo proponendo uno spazio di parola di ispirazione psicoanalitica, attraverso una conduzione silenziosa ma attiva, volta a raccogliere e restituire i significati principali emersi durante il lavoro. Gli incontri, della durata di un’ora e mezza, si sono svolti a cadenza mensile.
I colloqui individuali sono stati pensati all’interno di un progetto di prevenzione del burn-out, che inizialmente prevedeva il coinvolgimento sia dei familiari che degli operatori. Il lavoro si è poi concentrato esclusivamente sui familiari poichè gli operatori non hanno partecipato. Sono stati proposti colloqui terapeutici individuali all’interno di un setting psicoanalitico, con incontri settimanali della durata di 50 minuti. Gli incontri erano completamente gratuiti, in quanto parte del tirocinio.
In entrambi i casi l’obiettivo che ci ha guidate è stato quello di sostenere chi attraversa in prima persona il peso emotivo del caregiving con tutte le sue implicazioni psichiche: assistere all’irreversibile decadimento del proprio caro, reggere la fatica della visita e il suo possibile vuoto di senso, tollerare l’ambivalenza della presenza dove amore, colpa e impotenza si intrecciano, spesso senza possibilità di sintesi.
E tutto entro la cornice inesorabile della finitezza, scandita da una temporalità profondamente diversa da quella che crediamo di sperimentare nell’esistenza ordinaria.
In questi contesti il tempo appare immobile, cristallizzato: un’esperienza liminare che assume i tratti del vuoto, della colpa, del significato che la cura può incarnare e, talvolta, del desiderio della fine.
In questo articolo proviamo a restituire le risonanze, le divergenze e le connessioni che abbiamo incontrato.
Il tempo condiviso: appunti da un gruppo per familiari in RSA
Essere presenti come psicologi in una struttura assistenziale per anziani, a contatto con gli ospiti e i loro familiari, assume un significato peculiare, sia per i differenti ruoli svolti che per la complessità dei vissuti che si raccolgono. I gruppi di supporto rivolti ai familiari costituiscono un prezioso osservatorio emotivo e relazionale: uno spazio in cui il tempo si dilata, si popola di ricordi, di domande sospese, di parole che spesso non trovano posto altrove. La parola “tempo” si presenta e ritorna spesso durante i gruppi. E’ stato inevitabile allora soffermarsi sui molteplici significati, spesso contraddittori, che questo tempo porta con sé: tempo prezioso perché condiviso con il proprio caro, ma anche tempo faticoso, abitato dal peso e dall’inadeguatezza.
E’ comunque un tempo che non è mai neutro: è il tempo della cura, ma anche della colpa (“Sto abbastanza con lei?”); del dovere (“Non so mai cosa dirgli”), ma anche dell’impotenza (“Non mi riconosce più, ma io continuo ad andare”). Talvolta è vissuto come un rituale svuotato, un obbligo che si ripete senza nutrimento, dove il gesto della visita perde il suo senso originario e diventa un copione da adempiere; altre volte è un tempo che, paradossalmente, si carica di un’intimità nuova, di una vicinanza che la vita precedente non aveva consentito.
Nei racconti portati dai familiari emerge la fatica di costruire senso, quando il tempo sembra rallentare o svuotarsi: “Stiamo lì, seduti. In silenzio. Lei non parla, io non so che fare.” Eppure è proprio in quel silenzio che a volte si apre uno spiraglio: un gesto, uno sguardo, un sorriso. Un evento minimo, fragile, che però resta.
M. racconta delle sue visite al padre, affetto da demenza. Nel progressivo deteriorarsi del genitore, M. è riuscito a trovare un varco, un dialogo che prima della malattia era assente. Non ci sono parole ma gesti — le passeggiate, giocare a carte insieme, l’offerta di un gelato — che sono diventati linguaggio nuovo. Eppure M. porta al gruppo una domanda che in lui emerge dolorosa: “Come ascoltare il desiderio di quell’Altro sconosciuto, che è diventato mio padre? Come distinguere il suo sentire dal mio? Saprò accogliere e raccogliere il suo desiderio di finire, se sarà necessario?”.
Il tempo del figlio si muove tra nostalgia e mancanza, tra la voglia di fermare il tempo e la consapevolezza che il tempo, invece, scorre inesorabile verso la perdita.
Il tempo degli anziani ospiti, raccolto durante colloqui individuali, è invece raccontato da una sensazione di sospensione: “Non so che giorno è”, “Qui i giorni sono tutti uguali”, “Mi sembra di non vivere”. Il presente può diventare monotono, il futuro sempre più sfumato, e il passato – a volte rimpianto, altre volte rimosso – torna a farsi sentire in modo confuso o idealizzato. Ma anche il tempo interno muta. Gli anziani raccontano. Lo fanno spesso, lo fanno facilmente. Ma dietro il racconto si cela una trasformazione: il passato non è solo un archivio, è una materia viva, urgente. Il futuro si restringe, si assottiglia. Il presente si fa fragile. Il tempo interno non segue più la logica della produttività: si popola di ricordi, di fantasmi, di tentativi di dare un senso alla propria traiettoria esistenziale.
André Green (2000) parla del tempo come di un lavoro psichico profondo, di un tempo morto: nella vecchiaia è il tempo del lutto, della rielaborazione, della preparazione alla morte, ma anche — e non meno — del tentativo di dare un senso all’intero percorso esistenziale. Christopher Bollas (1987) ci invita a osservare la discontinuità del Sé, che si sfilaccia se non riusciamo più a tessere un ponte tra ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò che (forse) possiamo ancora diventare. L’invecchiare porta con sé la necessità di rinegoziare le proprie temporalità. Lasciare spazio a nuovi significati o cadere in un eterno presente senza margini.
A questo proposito, Bachelard (1936) ci ricorda come il tempo vissuto non si misuri secondo la scansione lineare, ma attraverso la sua intensità psichica: è nella qualità dell’esperienza che si annida la verità del tempo. Ricorre, nella consapevolezza degli anziani, l’incomprensione e il tormento per la dissonanza tra il tempo trascorso, segnato dal calendario che sembra essersi divorato in un lampo l’esistenza, e la sua percezione soggettiva: «Non mi sento vecchio, non me ne capacito di avere 90 anni», dicono…
Ma il corpo segna, limita, richiama all’ordine cronologico, mentre l’inconscio continua a muoversi in un tempo che non ha età. Ed è in questo scarto profondo che si muove gran parte della sofferenza psichica della vecchiaia.
Nei contesti istituzionali, si tende a riempire il tempo con attività: laboratori, giochi, ginnastica dolce. C’è un valore reale in tutto questo, soprattutto quando le attività sono pensate con rispetto e ascolto. Ma il rischio è che diventino una forma di “riempimento difensivo”: un modo per evitare il confronto con ciò che nel tempo della vecchiaia è più difficile da sostenere — la solitudine, il senso della perdita, il declino, la morte.
E’ nelle ore libere che il tempo può invece trasformarsi in luogo del non detto, del rimosso, del dolore non pensato. Ed è proprio qui che emergono i significanti più ingombranti, quelli che spesso restano fuori dalla narrazione quotidiana: il desiderio di morire, la vergogna per la dipendenza, la paura di essere dimenticati, il rifiuto del corpo che cambia. Ritorna con un nuovo senso la domanda di M.: “come posso riuscire a comprendere il desiderio di mio padre?”
C’è ancora spazio per il desiderio nella vecchiaia? E se sì, quale desiderio? Desiderio di vita, sicuramente – è forte e struggente l’attaccamento alla vita di certi anziani, ma spesso – ed è qui che tutto si fa più difficile e doloroso per chi assiste – desiderio di finire. Il tabù più difficile da nominare.
La morte, in RSA, è una presenza silenziosa. Si parla d’altro, la si nega, si distoglie lo sguardo. Si preferisce dire che il tempo è stato “ben riempito”, piuttosto che interrogarsi sul senso che quel tempo ha avuto per il soggetto.
Ci si confronta con un tempo che non è solo biologico o sociale, ma profondamente psichico. Un tempo che richiede ascolto, simbolizzazione, contenimento. Il lavoro analitico, anche in contesti istituzionali come questi, può creare uno spazio di parola dove questo tempo possa essere detto, abitato, anche trasformato. In questo senso, Fonagy e Target (2005) evidenziano il ruolo della mentalizzazione nel contenere gli affetti primitivi, aiutando il soggetto a costruire senso e continuità.
Nei gruppi per familiari, quando si apre questo discorso, lo si fa con cautela e rispetto. Lo spazio della parola, in un gruppo che accoglie e raccoglie, permette di legittimare anche il desiderio di morire del proprio genitore in quanto parte della sua verità, del senso della sua esistenza. Darne dignità non significa colludere con il desiderio del genitore ma – al contrario – può far fiorire inaspettatamente e sorprendentemente nuovi spunti di vita: legame, cura, tenerezza.
L’altra faccia del tempo: colloqui individuali con i familiari
Anche in questi incontri è emersa una gamma di vissuti molto densa: lo sforzo di comprendere l’individualità del genitore diventata altra, perché alterata dalla malattia, l’accettazione di questa identità anomala dove non c’è nemmeno spazio per il riconoscimento degli affetti di una vita, il peso della visita che questa condizione comporta, il senso di inadeguatezza dei propri gesti e manifestazioni d’affetto, la fatica di sostenere la relazione dove, spesso, permangono ancora nuclei conflittuali irrisolti.
In tutto ciò il fulcro del rapporto terapeutico è reggere l’ambivalenza. Offrire uno spazio in cui non si è giudicati, dove anche l’amore stanco e la speranza della fine, che spesso è il non detto che aleggia, perché “osceno”, possano essere ascoltati e nominati, senza deformazione morale.
Qui il tempo non è il tempo cronologico della malattia, né quello interno della persona anziana: è il tempo del familiare che resiste, che si consuma, che si interroga sul senso del suo continuare a esserci.
La visita spesso è un rituale gravoso, a volte svuotato, altre volte portatore di residui d’intimità. Ma non c’è linearità. Alcuni familiari, generalmente le figlie, parlano a lungo del genitore malato. Altre, molto presto, iniziano a raccontare di sé. Di quello che è successo prima, di quello che resta adesso.
In tutto questo il sentimento che emerge più spesso è la colpa. Ma una colpa strana, opaca, non legata a una inadempienza specifica. Si tratta di una colpa particolare: non ha un reato, ma ha un peso.
È qualcosa che resta anche quando razionalmente “non ci si dovrebbe sentire in colpa”. E’ misterioso il senso profondo di questa colpa senza colpa, che sembra impedire ogni movimento.
Si può provare ad interrogarla come se fosse un linguaggio, una traccia.
Cosa dice? Cosa evita? Cosa protegge?
La colpa può essere un modo per dire addio?
1. La colpa come l’altra faccia dell’amore che non sa più come esprimersi.
Una figlia ha curato la madre per anni, vivendole accanto con dedizione quotidiana. L’amore ha trovato forma concreta nell’accudimento, nella presenza, nella fatica della cura.
Quando però arriva il momento della separazione (l’inserimento in struttura), quel canale si chiude. Il corpo non è più lì, la quotidianità perde i suoi gesti abituali.
La figlia smette di essere il riferimento primario. Si rompe l’identità attiva del prendersi cura. L’amore resta, ma non sa dove dirigersi. È libero e smarrito.
E se non trova subito una nuova forma, può paradossalmente trasformarsi in colpa. Come se l’inconscio dicesse:
“Se provo colpa, almeno continuo a sentire qualcosa per lei. Non la sto dimenticando, non sto diventando indifferente”
2. È più facile sentirsi in colpa che sentirsi impotenti.
L’impotenza è una delle emozioni più difficili da tollerare. Ci mette di fronte alla realtà che non possiamo fare nulla per salvare, proteggere o migliorare la vita nostra e di chi amiamo.
Il senso di colpa, per quanto doloroso, è invece attivo: dà l’illusione di avere ancora un margine d’azione, un potere.
Sentirsi in colpa significa dire:
“Avrei potuto fare di più. Posso ancora fare qualcosa”.
E questo è più sopportabile che ammettere:
“Non potevo – o non posso – fare più nulla”.
3.La colpa come anestetico al dolore della perdita.
Qui si intrecciano le due dimensioni precedenti.
Il senso di colpa può essere la copertura di sentimenti più profondi e più spaventosi: il lutto, la tristezza, la perdita, il vuoto.
La colpa allora diventa una sorta di riempitivo emotivo: un dolore più sopportabile del vuoto, un rumore che copre il sentirsi silenzio.
Meglio accusarsi, che avvertire la presenza del baratro.
Sentire davvero la tristezza, il vuoto, significa iniziare il vero processo di separazione, di elaborazione del lutto. Mettere al centro la consapevolezza della perdita. Della vita “senza”.
La colpa come identità: fedeltà, mandato e separazione
Accanto alla colpa come espressione affettiva e difensiva, emerge un’altra forma di colpa, più antica e radicata: quella connessa al mandato morale implicito che attraversa molte relazioni madre-figlia:
“Esisti solo se ti prendi cura di me. Non mi lasciare mai sola.”
Questi comandi non detti si annidano nei legami fusionali, dove la distanza è percepita come abbandono e la libertà come tradimento. In questo contesto, la colpa non nasce da azioni oggettivamente sbagliate, ma dal semplice fatto di essere sopravvissute o essersi separate. È la colpa di chi prova a diventare altro da ciò che è stato chiamato a essere.
La relazione con la madre si mostra come una miscela di dedizione e ambivalenza: un amore profondo ma anche rabbia repressa e desideri di autonomia mai autorizzati.
La colpa agisce come forza coesiva dell’identità:
“Se mi sento in colpa, almeno continuo ad essere quella buona. La figlia giusta.”
Così la colpa diventa il modo per rimanere fedeli all’oggetto interno, un’immagine idealizzata della madre interiorizzata come fragile, sofferente, bisognosa di protezione.
Questa forma di colpa è morale nel senso più profondo del termine: riguarda la coerenza con un ruolo, con un mandato, con un’idea di sé. È la colpa come pegno di lealtà, come ostacolo alla possibilità di essere libere senza sentirsi cattive.
Una figlia “sufficientemente buona”
Nel lavoro clinico, intercettare la colpa come emozione primaria, senza volerla estirpare o correggere ma lasciandola parlare, forse può lentamente accompagnare il paziente verso l’altro lato del dolore. Là dove la colpa tace – o almeno si ammorbidisce – possono affiorare emozioni più autentiche e meno punitive: la tenerezza, la tristezza, il rimpianto, la memoria.
Emozioni che fanno spazio al lutto e, insieme, al permesso di cominciare a lasciar andare.
È qui che può prendere forma, lentamente, la possibilità di costruire un Sé nuovo. Un Sé che non ha bisogno di espiare per legittimarsi, che non deve portare il peso del passato per dimostrare amore o fedeltà.
Possiamo pensare al concetto di good enough mother di Winnicott, e provare ad invertire i ruoli: perché non ipotizzare anche una “figlia sufficientemente buona”? Non onnipotente, non salvifica, che non si annulla, ma capace di restare nella relazione nella misura umana del suo possibile.
Una figlia che può anche iniziare a provare compassione per sé stessa, sotto lo sguardo del terapeuta che accompagna e sostiene, e che può esistere anche come donna, soggetto, individuo — al di là del ruolo.
Forse è proprio questo il modo in cui la colpa smette di essere l’unico modo per restare legati.
In tutto questo, qual è il ruolo dell’analista?
Essere analista in una RSA significa confrontarsi con un tempo sospeso, spesso segnato dall’attesa senza oggetto, dal lutto non ancora compiuto, dalla stasi.
Il tempo qui non è solo quello lineare della biografia o della degenerazione cognitiva, ma è soprattutto un tempo psichico alterato, denso di fantasmi, di colpe antiche che si riattivano, di conflitti irrisolti o mai affrontati.
In tali contesti la funzione analitica consiste nel mantenere aperta la funzione riflessiva, anche quando la capacità di pensare sembra venir meno.
In questo scenario, l’analista è contenitore: offre al paziente un assetto interno in grado di sostenere l’indicibile, di tollerare l’immobilità, di non colludere con l’angoscia del familiare né con la ricerca spasmodica del senso a domande che non trovano risposta.
Analista e paziente condividono un tempo che mira innanzitutto al riconoscimento di emozioni inconfessabili — colpa, rabbia, desiderio di fine — riconoscimento che già di per sé può costituire un sollievo simbolico.
L’analista — ci ricorda Bollas — non è lì per fare, ma per essere.
È un oggetto trasformativo: non dice la verità, ma offre uno spazio in cui la verità può emergere riconoscendo il valore del silenzio, della lentezza, dell’attesa. Non come strategie tecniche, ma come gesti psichici profondi.
Nei setting con gli anziani o con i loro familiari è facile cadere nella tentazione di forzare un senso, accelerare un’elaborazione, saturare tutto ciò che è “scomodo”: il vuoto, i vissuti di colpa, l’impotenza.
Ma il vuoto come la colpa può essere semplicemente abitato.
Il compito dell’analista, in questi casi, è custodire e restare nell’esperienza portata. Offrire una presenza che non invade ma accompagna; che non interpreta per riempire ma valida la sofferenza fino a quando – e se – un senso può affiorare.
Tenendo anche presente che, in un setting dove la dimensione del tempo è così precaria, ancorata ad un filo esile, quel senso potrebbe anche non emergere mai.
Bibliografia
Bachelard, G. (1936). L’intuizione dell’istante. Milano: Jaca Book Editore.
Bollas, C. (1987). L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato. Roma, Borla Editore.
Fonagy, P., & Target, M. (2005). Psicoanalisi e teoria dell’attaccamento: la funzione riflessiva. Milano, Raffaello Cortina Editore.
Freud, S. (1916). Lutto e melanconia, in Opere, vol. VIII. Torino, Boringhieri Editore.
Gilbert, P. (2010). La terapia focalizzata sulla compassione. Milano, Franco Angeli Editore.
Green, A. (2000). Il tempo di frantumi. Milano, Raffaello Cortina Editore.
Klein, M. (1957). Invidia e gratitudine e altri saggi 1946-1963. Torino, Boringhieri Editore.
Winnicott, D. W. (1958). Dalla pediatria alla psicoanalisi: Scritti 1946–1958. Roma, Armando Editore.
Sitografia:
Stress, salute e differenze di genere nei caregiver familiari. Roma, Istituto Superiore di Sanità, 24 maggio 2023. Atti (Rapporti ISTISAN 24/6). Istituto Superiore di Sanità. https://www.iss.it/documents/20126/9340227/24-6%2Bweb.pdf/4296e0da-c11c-6eb8-bc87-f7adefb0dabf?t=1719474641199ISS+2ISS+2ISS+2
Caregiver burden: vissuti emotivi e fatiche del prendersi cura – State of Mind
https://www.stateofmind.it/2023/05/caregiver-burden/
La depressione del caregiver: come prevenire il burnout – Real Salus
https://www.realsalus.it/blog/la-depressione-del-caregiver-quando-sfocia-in-stress-e-burnout/
Letting Go of Caregiver Guilt
UnitedHealthcare
https://www.uhc.com/health-and-wellness/caregiver-resources/caregiver-burnout-and-strategies-for-coping
The Emotional Side of Caregiving
Family Caregiver Alliance
https://www.caregiver.org/resource/emotional-side-caregiving/
Esplorazione delle emozioni comuni nei caregiver, come ambivalenza, rabbia, ansia e depressione, e suggerimenti per affrontarle.
*Giuseppina Masini e Manuela Venturelli sono psicologhe e specializzande in psicoterapia