Attorno all’invecchiamento

di Antonio Guerci *

……Miti

Dalla mitologia greca ci viene tramandato che Medea, con erbe medicamentose, ritardava la vecchiaia facendo tornare giovane Esone, suo suocero.

Platone considerava i vecchi come coloro che non essendo più sotto il dominio di passioni imperiose e selvagge, possono emanare leggi di saggezza.

Per gli Hindu esistono tre età: l’infanzia, l’età del matrimonio e della vita attiva, l’età del pellegrinaggio. Nella prima si apprende giocando e balbettando; nella seconda si genera e si crea agendo; nella terza si ascolta ciò che vi è di buono e di veritiero nel silenzio. Ciascuna età passa all’altra ciò che ha. L’infanzia è speranza, l’età matura è sicurezza, la vecchiaia è saggezza.

I Navaho dell’Arizona adorano una divinità chiamata Estsanatlei che significa “donna che ringiovanisce sé stessa”.

Le genti Tuka delle isole Viti Levu (Oceania) credono in un’acqua dell’immortalità.

Scopo principale del navigatore spagnolo Ponce de Leon (1500) era la ricerca di una favolosa acqua della giovinezza nel Mare dei Caraibi.

……Elisir

Ogni popolazione del mondo vanta il suo elisir di lunga vita, ha il suo Gerovital.

Nei banchetti antropofagici dei Tupinambá (Brasile occidentale) i vecchi erano i più avidi banchettanti poiché ritenevano di assorbire, con la loro carne, la forza dei giovani guerrieri uccisi.

Secondo la medicina tradizionale araba, per mantenersi giovani si fa largo impiego di el mesk, il musco.

In Marocco sono consigliati lo zenzero e i chiodi di garofano.

Nel Madagascar troviamo la “pietra della longevità”.

Per i Kallawaya, gli indios delle Ande boliviane, la carne del condor è il più alto simbolo della salute e della longevità.

Nei templi scintoisti del Giappone sono esposti bene in vista otri di sakè, acquavite di riso fermentato, da bere per vivere a lungo.

Il mondo orientale offre tre elisir fondamentali: kwao-kua (Butea superba), gin seng (Panax ginseng), pantui (corna molli, non ossificate, del daino maculato).

Secondo la medicina ayurvedica (il cui settimo volume è dedicato alla Scienza del Ringiovanimento) la vecchiaia e la senilità si possono arrestare bevendo miele, latte, acqua fredda e burro.

Per quanto riguarda l’Occidente, già nella medicina storica si trovano capitoli concernenti la vecchiaia nel “Libro degli alimenti”, in quello “Dell’Aria, acqua e luoghi” e negli Aforismi di Ippocrate. Nel I secolo a.C. Asclepiade di Prusa consigliava agli anziani regimi alimentari, massaggi e bagni tonici. Nel Medioevo assistiamo a una intensa ricerca gerontologica da parte degli alchimisti e Raimondo Lullo propone l’alcol come uno dei migliori rimedi.

Riguardo ai popoli longevi attuali (centenari e ultracentenari) sono state identificate cinque “Zone Blu”: Nicoya (Costa Rica), Loma Linda (California), Icaria (Grecia), Sardegna (Italia), Okinawa (Giappone). Le popolazioni che abitano in queste zone sono caratterizzate da alcuni aspetti in comune nel modo di vivere, che contribuiscono alla loro longevità: muoversi con attività fisica moderata ma costante, vivere senza stress, percezione di esser utili socialmente e con la famiglia al centro di tutto, concludere i pasti prima della sazietà e con frequente consumo di legumi.

……Socio-demografia

La percezione dello stato sociale degli anziani sta mutando e nuove sfide dovranno essere affrontate nel prossimo futuro. L’obiettivo è quello di trasformare qualcosa che oggi è percepito come un problema in una nuova risorsa per la ricchezza globale, il benessere e l’integrazione sociale. In altre parole, il processo di invecchiamento e lo status delle persone anziane dovranno essere ripensati e reinterpretati, sottolineandone gli aspetti positivi e desiderabili. Di pari passo le politiche sociali ed economiche dovranno tenere conto della condizione demografica che presto sarà profondamente diversa da quelle conosciute oggi e nel passato. Infatti l’inedita situazione demografica che ci troviamo oggi ad affrontare fa sì che non abbiamo alcuna esperienza storica delle popolazioni che invecchiano e che le relative politiche devono essere prese alla cieca.

Occorre concepire-inventare un modello-tipo di società anziana e tentare di anticipare l’evoluzione delle relazioni tra le principali componenti del sistema sociale, sotto l’impatto delle trasformazioni iniziali concernenti la demografia delle popolazioni e le loro strutture per età e sesso, ma sempre consapevoli che non sono solo i livelli dei fenomeni che evolvono, ma anche i legami che li uniscono tra loro. Si tratta pertanto d’un esercizio di prospettiva tanto più difficile da realizzare in quanto deve coinvolgere il lungo termine e che occorre rifuggire dalla doppia tentazione di ricreare un passato fossile e di anticipare un futuro morto. Occorre cioè guardarsi dal proiettare nell’avvenire delle caratteristiche di individui e di società di epoche anteriori e credere che tutte le tendenze antiche (e/o attuali) vanno necessariamente a prolungarsi nell’avvenire, dilatandosi e amplificandosi. In definitiva, ciò che caratterizza maggiormente l’evoluzione recente è la presa di coscienza collettiva che l’invecchiamento demografico non è solo questione di indici statistici e neanche un sovrappiù di protezione e oneri sociali, ma fondamentalmente è una questione di relazione tra generazioni.

Le società che invecchiano sono prima di tutto delle società multigenerazionali, e lo sono oggi più che nel passato in quanto esse integrano generazioni più numerose di una volta e sono chiamate a coesistere per periodi di tempo sempre più lunghi. Divenendo multigenerazionali, le nostre società sono diventate anche pluriculturali e la relativa gestione si è così resa più problematica. Gli stati-nazione, che finora hanno avuto la tendenza a concepire le loro leggi e i loro regolamenti per cittadini standardizzati, hanno speculato più sulla loro omogeneità che sulla loro eterogeneità. È questo un concetto che va completamente rivisto se si vuole evitare che l’ingresso nell’era della senescenza corrisponda a una fase di caos e di disordine provocati dallo choc generazionale.

È un fatto ben noto che, nei paesi industrializzati, l’invecchiamento tende a crescere in corrispondenza ai generali progressi economici e sociali. In un certo senso, quindi, l’invecchiamento di larghi settori della popolazione può essere visto come uno dei migliori risultati dello sviluppo sociale e delle politiche di salute pubblica. Una diversa situazione si incontra invece nei paesi in via di sviluppo, dove molti di coloro che raggiungono l’età avanzata sono privi di sostegno sociale e vivono in situazioni di deprivazione economica. Innanzitutto, è necessario sfatare un mito demografico: non è vero che la maggior parte degli anziani vive nei paesi sviluppati. Mentre è senz’altro vero che i paesi industriali hanno una aspettativa di vita più alta, e pertanto un più alto numero di anziani in rapporto al numero totale di cittadini. Si può facilmente valutare il processo generale di invecchiamento considerando la crescita nel numero delle persone anziane. Le proiezioni mondiali dicono che il numero degli anziani crescerà da 580 milioni nel 1998 a 1970 milioni nel 2050. Questa crescita sarà meno pronunciata nelle aree più sviluppate del mondo (da 226 milioni nel 1998 a 376 nel 2050) e molto più rapido nei paesi via di sviluppo, dove la popolazione anziana crescerà da 171 milioni del 1998 a 1594 milioni di individui nel 2050. Nel 1998 66 milioni di persone nel mondo (l’1,1% della popolazione mondiale) aveva più di 80 anni. Questo numero crescerà di quasi 6 volte per arrivare nel 2050 a 370 milioni di persone.

Il segmento di popolazione con più di 80 anni sarà dunque quello che presenterà in assoluto la crescita più rapida. L’Europa può essere considerata come un interessante laboratorio mondiale, sia perché qui il processo di invecchiamento è iniziato prima rispetto al resto del mondo, sia perché in questo continente sono già visibili tendenze generali per il prossimo secolo.

I cambiamenti nella struttura demografica, le transizioni economiche, la crescente complessità culturale, la migrazione e l’emigrazione sono fattori che contribuiscono alla rapida sparizione delle tradizionali relazioni intergenerazionali. Generalmente si è propensi a credere che tali relazioni siano ancora forti nella grande maggioranza dei paesi in via di sviluppo. Ma non è così. Infatti sono proprio i paesi più poveri che, in questo momento, soffrono maggiormente (sia dal punto di vista sociale che da quello economico) per la distruzione delle relazioni intergenerazionali. Nelle nazioni più ricche un livello adeguato di benessere, sia per le generazioni giovani che per quelle anziane, permette quantomeno un nuovo terreno d’incontro su basi paritarie. Nei paesi poveri, al contrario, le disuguaglianze economiche e sociali costruiscono una vera barriera fra le generazioni. In molte nazioni, la grande maggioranza delle generazioni giovani manca delle risorse materiali minime per garantire un aiuto significativo alle generazioni anziane.

……Posizione degli anziani nella società

La convinzione che gli anziani non abbiano più contributi da fornire alla loro società e che siano un peso economico per le generazioni più giovani è fondata sopra un comune stereotipo economico: l’idea che i contributi alla società siano forniti solo dagli individui strutturati all’interno del sistema macroeconomico (ossia da coloro che possono essere considerati come forza lavoro disponibile sul mercato). Quest’assunto implica che l’evoluzione culturale, sociale ed economica passa solamente attraverso l’impiego retribuito: dal momento che la capacità di produrre forza lavoro declina con l’età, gli anziani non hanno più nulla da dare. A testimoniare contro quest’assunto sono tutti i più recenti sviluppi economici e sociali. Innanzitutto, il lavoro retribuito è responsabile di parte soltanto dei miglioramenti sociali generali, mentre la rimanente parte è dovuta piuttosto a lavori e attività che di solito non vengono retribuiti e che solo recentemente hanno trovato un adeguato riconoscimento sociale (sebbene non sempre anche economico). In questa categoria di lavori non retribuiti gli anziani spesso forniscono un tributo imprescindibile: nell’agricoltura, nel settore informale, nel volontariato. Esistono nel mondo intere economie nazionali che, per larga parte, dipendono proprio da questo genere di attività. Pochissimi di questi contributi, tuttavia, vengono conteggiati nei prospetti delle attività economiche nazionali: gran parte viene ignorata e non gode di alcun particolare riconoscimento o valutazione. In secondo luogo, anche ragionando in termini di lavoro retribuito, capacità funzionali declinanti non significa affatto inabilità al lavoro: i recenti progressi tecnologici permettono anche a persone con severi handicap fisici di essere pienamente produttive e la fatica fisica è ormai richiesta (almeno potenzialmente) in pochissimi lavori.  Infine capita spesso che gli anziani siano esclusi dai lavori retribuiti non tanto a causa dell’età in sé stessa, ma a causa di carenze nell’istruzione e nella formazione. Al mantenimento di questa situazione contribuisce anche una serie di pregiudizi contro la terza età, sintetizzata nell’espressione inglese ageism e francese géritude. Sfortunatamente, nei recenti dibattiti sulla pressione economica causata dal welfare e dai sistemi pensionistici, l’accento è stato posto esclusivamente sui costi e si è spesso trascurato di indicare contributi e benefici. Anche all’interno dell’economia di mercato, infatti, molti settori in rapida espansione sono largamente dipendenti dalla popolazione anziana (ad esempio il turismo).

Sempre attuale è l’auspicio di Enrico Greppi rivolto ai ricercatori che operano nel campo della gerontologia: l’importante non è aggiungere anni alla vita, ma vita agli anni.

……Bioantropologia

L’interesse per la durata della propria esistenza nasce e si sviluppa nella nostra specie con il progredire delle esperienze cognitive e sociali, ma comunque è già presente fin dall’adolescenza.

E in particolare nel mondo occidentale, e soprattutto nel nostro tempo, in quanto ogni sforzo viene compiuto da persuasori più o meno occulti al fine di cancellare addirittura il termine stesso, come è accaduto per il dolore, quasi scomparso dai vocabolari. Sono anche scomparsi i valori associati alla resistenza al dolore e alla continuità della vita. La cultura dell’immagine è in antitesi con tutto quanto può invecchiare, morire, modificare i tratti, indurre trasformazioni estetiche reputate negative, vergognose, infauste. 

Ripercorrendo la breve storia della biomedicina, con particolare riguardo all’origine delle malattie, così come alle teorie sulle cause dell’invecchiamento, troviamo un costante processo di medicalizzazione. Ne scaturisce l’implicito messaggio di cura e di prevenzione. Nessuno stupore pertanto se oggi assistiamo a schizofrenici atteggiamenti nei confronti di eventi (le malattie, la morte) che non devono, non possono più essere considerati ineluttabili. La convinzione è che solamente la tecnica ci salverà dai fastidiosi o tragici inconvenienti dell’esistenza: è solo una questione di tempo e di messa a punto di tecnologie adeguate.

Sull’altro versante esiste una importante medicalizzazione della vecchiaia. Le considerazioni diventano emblematiche. Gli innumerevoli e incontestabili successi della tecnologia applicata alle scienze biomediche hanno condotto alcuni vati a predire, per il prossimo futuro, una durata media di vita di 140 anni. Se l’invecchiamento è il risultato di inferenze tra geni e ambiente, e se tanto si è fatto, si sta facendo e si farà nell’ambito degli studi genetici, ma poco o niente è previsto come intervento sull’ambiente, non sussistono neppure le premesse per affermazioni di questo genere. Ne consegue tuttavia che se il singolo individuo (che il falso messaggio indica come potenzialmente immortale) muore è unicamente per colpa sua. Le cause (anche naturali) della morte, una volta dipendenti dal mondo esterno, diventano intrinseche agli organismi, e questi vengono a essere omologati, da cui una possibilità (ipotetica) di controllo. Ricordiamo ancora la tesi della catastrofe degli errori, secondo la quale, nel corso dei processi mitotici, si accumulerebbero errori conseguenti a mutazioni. Ebbene, nel concetto stesso di “errore” sono implicite la correzione, la possibilità d’intervento, oltre che la morte come risultato di sbagli o inesattezze. Ma errore rispetto a chi e a che cosa? Richiamiamo ancora la tesi della formazione di proteine aspecifiche, conseguente alla precedente, la tesi autoimmunitaria secondo la quale le difese dell’organismo entrerebbero in contrasto con sostanze prodotte dall’organismo stesso (le proteine aspecifiche?), la tesi secondo cui l’invecchiamento (o almeno alcune sue manifestazioni) dipende dai radicali liberi che si formano nei tessuti. Si invecchia e si muore non più per motivi legati agli equilibri naturali (insiti nella popolazione, ambientali), ma per cattive scelte o condotte degli individui. Se il soggetto muore le cause vanno ricercate nell’insensatezza del suo comportamento: la colpa è tutta e solo sua.

Cosa dire ancora sulla durata della vita riferendoci a concetti biologici più generali? Possiamo prendere ad esempio la morte di un atomo dopo un bilionesimo di secondo d’esistenza (trasmutazione), o di una stella dopo alcuni miliardi di anni di vita (degradazione).

In conclusione: fintanto che il medico non ritornerà a fare il medico e non il tecnocrate, fintanto che il prete non ritornerà a fare il prete e non l’edificatore di templi, fintanto che il gerontologo non penserà a dare vita agli anni invece di anni alla vita, non fermeremo il processo regressivo che sta riconducendo il cittadino del mondo occidentale alla fase di individuo prepubere di 7 anni che considera la morte come reversibile. È sempre attuale il sillogismo di Nabokov: gli altri muoiono – io non sono gli altri – io non muoio.

Quale gradevole chiosa, richiamo quanto affermato da G.B. Shaw: non è che si smette di giocare perché si invecchia; si invecchia perché si smette di giocare.

* Antonio Guerci è Professore Emerito di Antropologia
Cattedra UNESCO “Antropologia della Salute. Biosfera e Sistemi di Cura”
Museo di Etnomedicina A. Scarpa, Università di Genova